Sara Belluzzo

KAFKA E IL SILENZIO DELLA MUSICA

[1]


I.

«Kafka, quasi in compenso della particolare musicalità dello scrivere, era privo di senso per la musica» [2]. Di fronte a tale affermazione di Max Brod, uno dei più importanti amici dello scrittore, uno studio sui rapporti tra Kafka e la musica a prima vista potrebbe sembrare stravagante.

Eppure, nell’opera di Kafka la musica non è affatto assente e, come la critica da Walter Benjamin in poi ha di sfuggita più volte osservato, essa assume caratteri e significati particolari.

Un’analisi preliminare dell’attitudine di Kafka nei confronti dell’arte dei suoni potrà aiutare a gettare qualche luce sui diversi significati delle immagini musicali nel suo mondo poetico.

Kafka non era totalmente privo di una specifica educazione musicale. Egli, infatti, aveva iniziato lo studio del violino e del pianoforte. Tuttavia - mancando probabilmente di uno spiccato talento innato [3] - non aveva proseguito, dedicandosi completamente alla letteratura [4].

L’ambiente culturale in cui Kafka viveva era comunque musicalmente molto vivace. Molti dei migliori amici dello scrittore, tra cui Oskar Baum, Felix Weltsch, Max Brod, Franz Werfel, Ernst Weiss e Milena Jesenská, avevano infatti una approfondita conoscenza della musica. Alcuni di loro, addirittura, bravi musicisti oltre che scrittori, fecero del binomio letteratura-musica il fulcro della propria vita poetica.

In particolare, la musica era un interesse che accomunava i tre amici Baum, Weltsch e Brod, che insieme a Kafka formavano quello che lo stesso Brod definì più tardi «il circolo di Praga ristretto» [5].

Principale professione di Oskar Baum era quella di musicista. Dapprima organista della sinagoga di via Jerusalémska, successivamente pianista e insegnante di pianoforte, divenne alla fine il famoso critico musicale del quotidiano ufficiale di lingua tedesca «Prager Presse». La musica fu sempre una delle principali fonti di ispirazione anche per le sue opere letterarie.

Felix Weltsch, filosofo e scrittore, era discendente da una famiglia di noti imprenditori tessili cultori e promotori della musica e delle arti. Il bisnonno, Salomon Weltsch, egli stesso compositore, era stato uno dei primi a dare impulso alla musica di Richard Wagner a Praga [6]. Felix, come la cugina Lise, suonava molto bene il violino, e uno dei maggiori piaceri era per lui trovarsi con gli amici per suonare assieme. Max Brod, nella sua autobiografia ricorda con nostalgia le serate passate con Weltsch ad eseguire le sonate per violino e pianoforte del repertorio sia classico sia contemporaneo [7].

Le conoscenze di Max Brod in campo musicale non erano certo minori. Il piacere di far musica con gli amici nasceva in lui dal profondo amore e dalla grande conoscenza e padronanza di quest’arte. Proveniva da una famiglia nella quale alla musica si era sempre dedicata grande attenzione. Aveva studiato pianoforte dall’età di sei anni e per un certo tempo aveva persino accarezzato l’idea di diventare concertista. In seguito si era dedicato allo studio della composizione. Suo insegnante fu il compositore e amico Adolf Schreiber, un allievo di Dvorák.

L’attività musicale di Max Brod si espresse in diversi settori: nella composizione di numerosi lavori, tra i quali spiccano le opere liederistiche e cameristiche [8]; nella critica musicale per diversi quotidiani e riviste di Praga, come il «Prager Abendblatt» e il «Prager Tagblatt» [9]; e infine nella sua infaticabile attività di scopritore e promotore dell’opera di alcuni compositori contemporanei, tra i quali lo stesso Adolf Schreiber, il danese Carl Nielsen e soprattutto Leóš Janácek. Intorno a Max Brod, grazie alla sua infaticabile attività musicale, gravitavano una serie di più o meno giovani musicisti e compositori di grande talento della Praga di quegli anni, che in lui riconoscevano un importante sostenitore della nuova musica. Tra essi citiamo il violinista e compositore Josef Suk, celebre concertista e fondatore del Quartetto boemo, Vitezslaz Novák, uno dei più importanti rappresentanti della musica moderna, Hans Kráša, allievo di Alexander Zemlinsky ed Hermann Grab, allievo di Arnold Schönberg.

Per tutta la vita Kafka seguì con interesse le attività musicali degli amici. [10]Nelle Lettere si può osservare la sua partecipazione al lavoro di critico e promotore della cultura musicale dell’amico Max Brod [11].

Brod, Baum, Weltsch e Werfel furono inoltre gli amici con cui Kafka durante la giovinezza era solito frequentare i teatri d’opera [12] e di prosa , ma anche i cabaret e i caffè-concerto. Grazie a Brod durante l’autunno-inverno 1911-1912 conobbe una compagnia di attori ebrei orientali venuti a Praga per rappresentare alcune commedie in jiddish e fece amicizia in particolare con il loro direttore Jizchak Löwy [13]. Questo incontro fu molto importante sia per la vita sia per l’opera di Kafka.

Le commedie recitate, la maggior parte delle quali risale alla fine del XIX secolo, appartenevano per lo più al genere dell’«operetta»: un semplice intreccio in prosa collegava tra loro brani lirici e canzoni che venivano cantate e insieme mimate. Spesso, inoltre, il pubblico partecipava attivamente riprendendo in coro i ritornelli delle canzoni. Kafka divenne uno degli spettatori più fedeli e assidui di queste commedie [14]. Nei Diari si trovano alcune osservazioni sulle melodie ascoltate durante le rappresentazioni. Esse mettono in luce un primo aspetto della sensibilità dello scrittore verso la musica. Le descrizioni di Kafka si soffermano spesso sull’impressione di irresistibile attrazione provocata dalle melodie: esse determinano un coinvolgimento immediato e addirittura fisico, in particolare negli attori. Anche il coinvolgimento emotivo di Kafka è intenso[15].

Uno degli aspetti di queste rappresentazioni che più influiscono sulla sua fantasia e sul suo animo è proprio quello musicale, il «canto sempre vivo» di quegli attori (D, 289). La musica di quei canti è l’espressione di un accordo spontaneo con il mondo, è l’espressione di un’armonia natrurale di cui l’uomo è parte. Ascoltare questa musica dalla primordiale forza d’attrazione significa allora «esaminare la solidità del mondo, della quale» egli scrive «ho molto bisogno» (D, 289).

La sensibilità musicale di Kafka si rivolge in modo particolare agli aspetti timbrici e ritmici della musica, gli elementi più semplici capaci di evocare in modo immediato delle corrispondenze e di suscitare inoltre espressioni motorie e gestuali che ne amplificano ulteriormente l’espressività.

La voce nelle sue molteplici variazioni timbriche e nelle cadenze ritmiche delle frasi melodiche recitate, i movimenti di queste frasi melodiche che si traducono immediatamente in movimenti del corpo, in gesti, sono gli aspetti che più attraggono Kafka [16].

Movimenti melodici, cadenze ritmiche, timbro sono del resto gli elementi che insieme concorrono a creare la musicalità del linguaggio poetico. E Kafka è molto attento a questi aspetti dell’arte cui egli si è interamente dedicato. Nei Diari e nella Lettere più volte appare la sua estrema sensibilità per l’elemento musicale del linguaggio: «Quasi nessuna delle parole che scrivo è adatta alle altre, sento come le consonanti stridono tra loro con suono di latta e le vocali le accompagnano col suono del canto come negri all’esposizione. I miei dubbi stanno in cerchio intorno a ogni parola» (D,140-1).

Egli coglie l’assoluta importanza della musicalità come elemento privilegiato di comunicazione espressiva nel linguaggio [17], e cerca di assimilarla e farla propria sull’esempio dei classici [18].

La critica ha più volte messo in risalto la particolare musicalità del ritmo e dell’espressione della prosa di Kafka. Tuttavia non si tratta, come ha giustamente osservato Adorno, della ricerca di analogie musicali, tipica degli espressionisti. Al contrario «proprio perché sdegna ogni effetto musicale, dà l’effetto della musica» [19]. A Kafka è infatti del tutto estranea l’idea di farsi propugnatore della poetica dell’espressionismo. Suoi modelli letterari sono piuttosto autori come Kleist, Hebel e Flaubert [20]. La musicalità della sua prosa è il risultato dell’attenzione a ogni particolare, a ogni parola, a ogni sillaba, secondo il modello flaubertiano, in cui non vi è distinzione tra forma e contenuto, poiché la forma stessa è intrinsecamente produttrice di senso.

A proposito del racconto La condanna, Kafka scrive a Milena: «In quel racconto, ogni periodo, ogni parola, se mi è lecito, ogni musica è collegata con l’"angoscia"» (L, 826) [21].

Kafka usa spesso l’attributo «musicale» per definire le opere letterarie che rivelano una compiutezza d’espressione e la cui espressività è autentica e immediata. È il caso di un romanzo di Max Brod [22] del libretto della Jenufa [23] o, ancora, della prosa di Milena Jesenska, la cui musicalità consiste per Kafka nella sua grazia, passione, risolutezza e soprattutto nella sua intelligenza chiaroveggente (L, 653). Una simile prosa non può esistere per amore di se stessa, ma è il segno di «una scrittrice non comune». Nel carteggio con Milena, l’unico carteggio amoroso con una donna di pari sensibilità e intelligenza artistica, Kafka fa largo uso di metafore e riferimenti musicali, che assumono, come vedremo in seguito, ulteriori significati.

La «sensibilità» di Kafka verso il mondo sonoro ha anche altri risvolti. Nei Diari e nelle Lettere egli è estremamente attento, infatti, all’ambiente acustico (sia musica, sia rumori) che di volta in volta lo circonda. Esso diviene spesso lo spunto per riflessioni su se stesso, sul proprio bisogno di tranquillità e solitudine e sulla propria incapacità di integrarsi con il mondo circostante. La sensibilità e la conseguente attenzione ai suoni e ai rumori si presenta per lo più come estrema suscettibilità nei confronti della multiforme vitalità sonora del mondo esterno [24].

A certi rumori, poi, non vi è «sonno di scrittore o di musicista che possa loro resistere». È questo il caso dei topi, quel «popolo spaventevole (...) muto e rumoroso» (L, 236) che ritroveremo protagonista dell’ultimo dei suoi racconti, Giuseppina la cantante ossia Il popolo dei topi.

Spesso il fastidio provocato dal mondo acustico circostante è solo un’«inezia» facilmente riconducibile, come lui stesso ammette, alla sua «naturale inquietudine». Tuttavia proprio esso è in grado, con estrema facilità, di far vacillare la precaria pace che Kafka riesce talvolta a conquistare. In tali momenti è come se il mondo fosse tutto nel luogo dal quale proviene il rumore (L, 346). Di volta in volta la conversazione di persone estranee, un gruppo di turisti e la loro musica, il suono del pianoforte in una stanza non lontana, i bambini che giocano nel cortile, la voce di qualcuno che canta diventano per lui che è «fuori del mondo» gli «urli (...) da profanatore di tombe» che il mondo gli manda. Egli si sente allora come «dentro un tamburo sul quale si batte di sopra e di sotto, ma anche da tutti i lati» (L, 391). Non riesce a trovare la pace di cui ha bisogno e si sfoga con gli amici. In una lettera a Robert Klopstock scrive: «Non esiste sulla terra tanta pace quanta occorre a me. Almeno un anno vorrei nascondermi col mio quaderno e non parlare più con nessuno. La più piccola inezia mi rovina» (L, 446). E a Max Brod, il mese successivo: «Sto perdendo anche il senso del rumore buono, e presto comincerò a non capire come mai ci si dia convegno p.e. nei teatri soltanto per il rumore» (L, 466).

Il bisogno di concentrarsi e di ritirarsi in se stesso per scrivere è talmente grande che tutto il resto diventa fonte di disturbo. I tentativi di trovare un luogo, una stanza a Praga in cui scrivere nel silenzio della notte nascono dal fatto che per Kafka «scrivere significa aprirsi fino all’eccesso (...) Perciò quando si scrive non si è mai abbastanza soli, quando si scrive non si può mai avere abbastanza silenzio intorno, la notte è ancora troppo poco notte. Perciò non si può mai avere a disposizione abbastanza tempo perché le vie sono lunghe ed è facile deviare (...) Ho già pensato più volte che il mio migliore tenore di vita sarebbe quello di stare con l’occorrente per scrivere e una lampada nel locale più interno di una cantina vasta e chiusa» (LF, 233-34).

La musica, ovvero i suoni e i rumori in genere, per la loro imprevedibilità diventano la più immediata materializzazione di tutte le distrazioni che il mondo esterno arreca allo scrittore [25], non permettendogli di ascoltare la propria musica interiore e di trasformarla in scrittura. Egli ammette, del resto, in una lettera a Felix Weltsch che «il rumore ha anche qualcosa di affascinante che stordisce» (L, 463). A un rumore superato, infatti, «in seguito alla densità del mondo» ne subentra sempre uno nuovo da superare, in una sequenza senza fine [26]. L’universo acustico diviene allora portatore di significati che lo trascendono, come appare nell’orizzonte sonoro che anima il mondo delle opere di Kafka.

Dopo le precedenti osservazioni sembrerà strano che Kafka in diverse occasioni si definisca totalmente privo di sensibilità musicale, «unmusikalisch». Ma qual è il senso di questa definizione? Qual è il suo orizzonte di riferimento?

La prima annotazione di Kafka a questo riguardo è del 1911, dello stesso periodo, cioè, in cui egli scrive con grande entusiasmo del teatro e dei canti popolari jiddish. Di ritorno da un concerto dedicato a composizioni di Brahms [27] egli scrive nei Diari: «Il lato essenziale della mia mancanza d’orecchio è che non so godere la musica in continuità, soltanto qua e là essa provoca in me un effetto che molto raramente è musicale. La musica udita erige intorno a me un muro e l’unico influsso musicale durevole che subisco è questo: così imprigionato sono diverso da quando sono libero» (D, 281-2). Descrive poi gli atteggiamenti e le posture degli altri ascoltatori, dei cantanti e degli esecutori, i cui gesti sono una chiara manifestazione di «venerazione» per quest’arte, una disposizione che difficilmente la letteratura è in grado di suscitare nel pubblico.

Il «muro» impenetrabile che la musica erige intorno a lui si ripresenta nuovamente, poco tempo dopo, durante un concerto dell’amico Max Brod: «Ho assistito, quasi privo di sensi. Da ora in poi non posso più annoiarmi ascoltando musica. Non cerco più di attraversare, come facevo prima inutilmente, il circolo impenetrabile che con la musica si forma tosto intorno a me, mi guardo anche dallo scavalcarlo, cosa che ben potrei fare, e preferisco rimanere tranquillo coi miei pensieri che si sviluppano e svolgono nella strettoia senza che l’osservazione di me stesso possa entrare in questo pigro affollamento. - Il bel "circolo magico" (di Max) che in qualche punto aprirebbe il petto della cantante» (D, 354).

Il contesto nei confronti del quale egli si definisce «unmusikalisch» è dunque, in questi come in altri casi, quello della musica colta.

Nei Colloqui con Kafka Gustav Janouch osserva che lo scrittore si mostrava imbarazzato quando accadeva che si parlasse di musica, poiché non era in grado di cogliere e comprendere con compiutezza il complicato linguaggio dei suoni della musica colta tradizionale, di dominarne anche razionalmente gli stimoli sottili e complicati, capacità che avevano invece, come si è visto, molti dei suoi migliori amici, in particolare Brod, Baum e Weltsch, gli scrittori che insieme a lui componevano il «circolo di Praga ristretto».

Legati tra loro da grande amicizia e da interessi e gusti letterari comuni, Brod, Kafka Weltsch e Baum non avevano un maestro e un programma, e neppure un luogo letterario di riferimento come un Caffè. Si riunivano a casa ora dell’uno ora dell’altro per discutere insieme dei più diversi problemi e per leggere e sottoporre agli amici le proprie composizioni letterarie [28].

In un gruppo siffatto, dove tre amici su quattro erano musicisti, non saranno certo mancati i momenti dedicati alla musica. Kafka sembra proprio riferirsi a uno di essi quando in un frammento dei molti lasciati incompiuti, scrive dei protagonisti, i quattro amici Robert, Samuel, Max e Franz:

«Quando si era stanchi di raccontare, Max con improvvisa nuova energia si sedeva al pianoforte e suonava, mentre Robert e Samuel gli sedevano accanto sulla panchetta e Franz, che non capiva niente di musica, scorreva da solo la collezione di cartoline illustrate di Samuel o leggeva il giornale» (D, 172).

L’atteggiamento del personaggio Franz, come quello di Kafka, è il tipico atteggiamento di colui che, intransigente con se stesso e nulla concedendo al dilettantismo [29], non solo non cerca ormai di «attraversare il cerchio magico» cioè di comprendere la musica, ma neppure tenta di «scavalcarlo», ovvero di partecipare al piacere che essa suscita anche soltanto in modo più superficiale. Egli preferisce rimanere nella «strettoia», nello spazio disponibile al di fuori di ciò che è specificamente musicale. Talvolta Kafka riesce ad arginare il senso di isolamento che una situazione di questo tipo provoca in lui riconducendo la propria incapacità di godere della musica con continuità alla propria scarsa conoscenza specifica del linguaggio dei suoni; [30]più spesso invece la mancanza di musicalità che egli si attribuisce assume il carattere di una «tragedia umana affine o identica al non saper piangere, al non saper dormire» (L, 700). Tale «difetto» è qualcosa, infatti, che contribuisce a creare un diaframma tra lo scrittore e tutti coloro che, spiriti musicali, sono in grado di comunicare anche attraverso questa specifica forma di linguaggio e riescono a cogliere in essa, senza rimanerne sopraffatti, ciò che la rende meritevole di «venerazione».

Kafka confessa a Janouch (anch’egli musicista) che proprio la musica, la passione dei suoi migliori amici, gli fa capire di essere infinitamente lontano persino da coloro che più gli sono vicini [31]. E in una lettera a Baum, a questo proposito, egli osserva che «c’è nel mondo qualcosa che non va» [32]. Il problema è tale che persino nei sogni se ne avverte la presenza [33].

Questo doloroso senso di isolamento si colora talvolta di un sentimento di gelosia verso chi, come Franz Werfel, vive il binomio musica-letteratura con strabiliante spontaneità e immediatezza: «Io odio Werfel, non già per invidia, ma anche lo invidio. È sano, giovane e ricco, io tutto diverso. Oltre a ciò ha scritto cose ottime, presto e facilmente, con senso musicale. Ha alle spalle e davanti a sé una vita felicissima, io lavoro con pesi dei quali non posso liberarmi e sono ben lontano dalla musica». (D, 287) [34].

Più spesso però, la mancanza di musicalità diviene una cifra del proprio fallimento nei confronti dell’esistenza, della propria incapacità di vivere: «Da parte mia non ci fu neanche la minima condotta di vita che in qualche modo si facesse valere. Sembrava che a me come a tutti gli altri fosse dato il centro del cerchio e come tutti gli altri io dovessi percorrere il raggio decisivo e poi tracciare il bel cerchio. Invece ho preso sempre la rincorsa verso il raggio, ma sempre ho dovuto interromperlo. (Esempi: il pianoforte, il violino, le lingue, la germanistica, l’antisionismo, il sionismo, l’ebraico, il giardinaggio, la falegnameria, la letteratura, i tentativi di matrimonio, la propria abitazione)» (D, 612).

In particolare nell’epistolario con Felice e successivamente in quello con Milena Jesenska la mancanza di musicalità che Kafka si attribuisce si carica in diverse occasioni di significati più ampi e profondi e diviene di volta in volta il segno della propria angoscia di fronte al mare dell’esistenza, della propria incapacità di amare [35], della propria debolezza creativa o della propria presunta insensibilità [36].

Essere musicali, dunque, per Kafka vuol dire essere aperti verso il mondo, essere in grado di saper cogliere con immediatezza ciò che da esso ci viene di più vero, di più autentico, essere inoltre in grado di comunicare le proprie esperienze più immediate e personali, il proprio mondo interiore. E giudicando con metro musicale, Kafka dipinge la propria vita come priva di ogni merito e di ogni attrattiva, grigia, senza slanci di spontanea passione: «come un punto che non ha niente di allettante, dove me ne sto senza felicità e infelicità, senza merito né colpa, soltanto perché mi hanno messo là» (L, 736).

Nell’epistolario con Milena il motivo dell’assenza di musicalità è inoltre direttamente intrecciato con alcune considerazioni relative a un racconto che Kafka ammirava e odiava a un tempo, in quanto sconvolgente anticipazione di motivi e configurazioni della sua stessa biografia personale, Il povero musicante di Franz Grillparzer.

Di tutte le opere di Grillparzer, uno scrittore particolarmente vicino a Kafka per sensibilità e destino personale [37], Il povero musicante è quella che lo coinvolge più intimamente e durevolmente [38]. Esso diventa quasi un biglietto da visita nei rapporti epistolari che Kafka intrattiene con alcune donne per lui sentimentalmente significative, come Grete Bloch, l’amica di Felice Bauer [39], e in paricolare con Milena Jesenska: «Oggi ti mando Il povero musicante non perché abbia molta importanza per me, l’aveva una volta, anni fa, te lo mando perché è così viennese, così antimusicale, così da piangere, perché nel Giardino Pubblico ci ha guardati così dall’alto (guardato noi! Tu infatti, Milena, camminavi al mio fianco, pensa, camminavi al mio fianco), perché è così burocratico e perché amava una ragazza abile e brava» (L, 704).

L’adesione alla vicenda narrata dal racconto di Grillparzer, dalla quale Kafka sembra voler prendere le distanze, è in parte di carattere autobiografico. Kafka si riconosce, infatti, nelle sorti del protagonista, Jacob [40], il povero sonatore di violino della Vienna absburgica che, oppresso da un padre autoritario e severo, e incapace di mantenersi secondo i cliché della borghesia viennese e di sposare la donna amata, si rifugia nell’arte e cerca di vivere suonando il violino come musicista ambulante. La musica, alla quale Jacob dedica tutta la vita e che per lui assume addirittura un significato mistico [41] diventa tuttavia l’emblema dell’isolamento e della solitudine in cui egli vive. Le improvvisazioni a cui si lascia andare con fervore e grande concentrazione sono infatti incomprensibili all’orecchio altrui. La mancanza di musicalità di Jakob è pertanto la cifra della sua inettitudine alla vita, all’amore e in fondo anche all’arte in quanto forma di comunicazione con la comunità sociale. Egli riesce a riscattarsi soltanto compiendo un’azione eroica in seguito alla quale muore, durante un’inondazione. Per questo gesto, e non per la sua musica, viene ricordato in seguito dai vicini di casa con simpatia e rispetto.

L’esperienza della musica di Jakob è - come del resto la sua esperienza dell’amore - principalmente interiore e spirituale e incapace di comunicazione esterna. Nel momento in cui cerca di farsi comunicabile diviene uno straziante stridio. La stessa sorte sembra toccare per Kafka anche al racconto, nei confronti del quale egli prova un senso di immedesimazione poetica oltre che biografica: «Tutto ciò che mi dici del Povero musicante è giusto. Se ho affermato che a me non dice niente, l’ho fatto soltanto per prudenza, perché non sapevo come te la saresti cavata, poi anche perché mi vergogno di questa storia come se l’avessi scritta io; infatti incomincia in modo sbagliato e contiene una quantità di inesattezze, di cose ridicole, dilettantesche, ammanierate da morire (lo si nota soprattutto leggendo ad alta voce, ti saprei indicare i passi); specie questo modo di fare musica è una invenzione miseramente ridicola, tale da irritare la fanciulla, da farle scagliare contro il racconto, in un impeto di collera al quale parteciperà il mondo intero, io per primo, tutto ciò che ha nel negozio, finché il racconto, che non merita di meglio, crolli per i suoi stessi elementi. È vero che per un racconto non c’è sorte più bella che scomparire, e proprio in questo modo. Anche il narratore, questo buffo psicologo, sarà pienamente d’accordo perché deve essere lui il povero suonatore che suona questo racconto nella maniera meno musicale possibile, esageratamente compensato dalle lacrime dei tuoi occhi» (L, 723-4).

La metafora della amusicalità del racconto di Grillparzer sembra stigmatizzarre la più profonda impossibilità di fronte alla quale si trova lo stesso Kafka: «Io cerco sempre di comunicare qualcosa di non comunicabile, di spiegare qualcosa di inspiegabile, di parlare di ciò che ho nelle ossa e che soltanto in queste ossa può essere vissuto» (L, 876). Anche per Kafka, infatti, tale metafora diviene il simbolo del fallimento di questo tentativo. Nelle Lettere e nei Diari, la dialettica tra musicalità e amusicalità, che, come si è visto, ricorre spesso, ripropone in ultima analisi il problema esistenziale al quale lo scrittore praghese si trova di fronte: «per me è impossibile il possibile» (L, 347). La musica e il canto, come espressioni di un accordo spontaneo con il mondo, espressioni di un’armonia naturale di cui l’uomo è parte, e insieme espressioni di un immediato soddisfacimento del corpo, o ancora la musica come elemento privilegiato di comunicazione epressiva anche nel linguaggio, appartengono a una realtà per Kafka irraggiungibile, dalla quale lo separa un muro che egli non è in grado o teme di scavalcare.

Kafka vive la propria amusicalità come una «tragedia umana» proprio perché essa comporta una doppia impossibilità. Da una parte essa è il simbolo dell’impossibilità di cogliere la musica ovvero la vitalità del mondo. Dall’altra parte l’amusicalità diviene il simbolo dell’impossibilità di comunicare la propria musica interiore, che l’orecchio altrui percepisce, infatti, per lo più come suono sconnesso e disarmonico e che può esistere alla fine soltanto in un’unica forma, ovvero nella negazione di se stessa nel silenzio.

La metafora della amusicalità del racconto di Grillparzer sembra stigmatizzarre la più profonda impossibilità di fronte alla quale si trova lo stesso Kafka: «Io cerco sempre di comunicare qualcosa di non comunicabile, di spiegare qualcosa di inspiegabile, di parlare di ciò che ho nelle ossa e che soltanto in queste ossa può essere vissuto» (L, 876). Anche per Kafka, infatti, tale metafora diviene il simbolo del fallimento di questo tentativo. Nelle Lettere e nei Diari, la dialettica tra musicalità e amusicalità, che, come si è visto, ricorre spesso, ripropone in ultima analisi il problema esistenziale al quale lo scrittore praghese si trova di fronte: «per me è impossibile il possibile» (L, 347). La musica e il canto, come espressioni di un accordo spontaneo con il mondo, espressioni di un’armonia naturale di cui l’uomo è parte, e insieme espressioni di un immediato soddisfacimento del corpo, o ancora la musica come elemento privilegiato di comunicazione epressiva anche nel linguaggio, appartengono a una realtà per Kafka irraggiungibile, dalla quale lo separa un muro che egli non è in grado o teme di scavalcare.

Kafka vive la propria amusicalità come una «tragedia umana» proprio perché essa comporta una doppia impossibilità. Da una parte essa è il simbolo dell’impossibilità di cogliere la musica ovvero la vitalità del mondo. Dall’altra parte l’amusicalità diviene il simbolo dell’impossibilità di comunicare la propria musica interiore, che l’orecchio altrui percepisce, infatti, per lo più come suono sconnesso e disarmonico e che può esistere alla fine soltanto in un’unica forma, ovvero nella negazione di se stessa nel silenzio.

II.

Le numerose riflessioni, osservazioni e immagini riguardanti il mondo sonoro, contenute nei Diari e nelle Lettere, trovano in diverse occasioni una elaborazione poetica nelle opere dello scrittore praghese.

L’irrompere del fenomeno musicale come tentativo di mutare lo stato di isolamento in cui il protagonista si trova a vivere è certamente una delle immagini più ricorrenti delle opere di Kafka. Essa appare già a partire da uno dei suoi primi tentativi letterari: la Storia dell’orante in Descrizione di una battaglia [42].

L’esigenza di suonare il pianoforte sorge nel protagonista del racconto, l’orante, in seguito al colloquio con una ragazza che, con poche e dure parole, rivela di avere profondamente compreso lo stato psicologico in cui egli si trova: «Credo che lei non si occupi della verità soltanto perché è troppo faticosa» (R, 38).

L’orante è la rappresentazione di colui che è condannato a vivere in un mondo di pura apparenza. Egli è destinato a vivere escluso dai rapporti sociali ed umani, incapace di comunicare e di essere compreso. «Siamo ... come tronchi d’albero sulla neve. Questi giacciono lì solo apparentemente e con una piccola spinta dovrebbe essere possibile spostarli. Invece no, non si può, perché sono attaccati saldamente al terreno. Eppure ... persino questa è soltanto apparenza» (R, 46).

Il desiderio di comunicare la gioia nata dalla gratitudine di essere stato per una volta involontariamente compreso, non può realizzarsi: l’orante non è infatti capace di suonare, e solo suonando, solo attraverso la musica, egli potrebbe esprimersi. Il suo tentativo di suonare è percepito dai presenti come «qualcosa di non naturale» (R, 40), addirittura ridicolo, e come tale deve essere impedito: «Siccome mi trattavano tutti così bene, mi meravigliai naturalmente che mi trattenessero unanimi quando feci per riavvicinarmi al pianoforte» (R, 41).

In questo primo racconto di Kafka la musica appare come quella forma di espressione in grado di farci superare il mondo dell’apparenza e di porci in diretto contatto con la realtà delle cose dalla quale il protagonista si trova escluso. Questa concezione romantica della musica di matrice schopenhaueriana era assai diffusa nell’ambiente culturale di cui Kafka faceva parte [43].

È nuovamente la musica che schiude a Gregor, il protagonista della Metamorfosi «una via verso un nutrimento sconosciuto e sempre desiderato» (R, 210) [44].

Ciò avviene quando Gregor, escluso da ogni contatto con la famiglia e il mondo sociale e ormai deciso a togliersi la vita digiunando, una sera, dopo tanto tempo, sente la sorella suonare il violino. Gli ospiti non sembrano apprezzare molto tale musica, né bella né divertente. Dopo un primo momento di curiosità sembrano subentrare in loro delusione e noia. Solo la famiglia è completamente attenta e assorta. Il nervosismo dei pensionanti contrasta con l’assoluta commozione di Gregor che, dimentico della sua condizione, non ha alcun riguardo di rimanere nascosto, risoluto ad attirare con sé la sorella nella stanza a suonare solo per lui: «Era davvero una bestia se la musica lo commuoveva tanto?» (R, 209-10). Il mondo sempre desiderato, dischiuso dal suono del violino, è tuttavia destinato a scomparire sotto lo sguardo di chi non è in grado di coglierne il senso profondo, e Gregor è condannato a ricadere nella propria apparenza bestiale: «"Signor Samsa!", gridò il signore di mezzo al padre, e accennò, senza perdersi in altre parole, coll’indice verso Gregor, che lentamente si avanzava. Il violino ammutolì» (R, 210), e con essa nel proprio isolamento.

Nelle lettere che Kafka invia a Felice nel periodo in cui vede la luce questo racconto ritorna più volte il tema del rapporto conflittuale che lo scrittore ha con la musica. Egli scrive all’amata proprio delle disastrose lezioni di violino degli anni dell’adolescenza (LF, 68), quasi per scusarsi della sua scarsa dimestichezza con quest’arte, la quale, è lui egli stesso ad ammetterlo, sarebbe la più adatta ad esprimere anche i suoi sentimenti in determinate circostanze, come la gioia della riconciliazione dopo una dolorosa incomprensione (LF, 55).

Anche nel romanzo America [45], scritto in diverse fasi a partire dal 1911, il giovane Karl Rossmann, spera di entrare in relazione con il mondo circostante attraverso la musica. Da poco nel nuovo continente, Karl è stupito e affascinato dalle dimensioni ipertrofiche di questo mondo in cui l’automazione è ormai una rigida regola ovunque diffusa.

Kafka si dilunga con grande minuziosità nella descrizione di ciò che colpisce il giovane emigrante europeo. Lo squarcio di vita metropolitana che Karl riesce a scorgere dal balcone della propria camera può certamente confondere la testa. Lo zio, ormai perfettamente integrato in questa frenetica realtà, consiglia Karl di non trascorrere le ore nell’ozio improduttivo, per non soccombere di fronte ad essa e solo in quest’ottica asseconda il nipote nel desiderio di suonare il pianoforte [46].

Le aspettative che Karl ripone nella musica sono inizialmente molto grandi: «Nei primi tempi Karl si era ripromesso molto da questa musica e aveva osato persino pensare, per lo meno nei momenti prima di prendere sonno, che con questa musica egli avrebbe in qualche modo potuto influire sulla sua vita americana. Era certamente strano quando davanti alle finestre spalancate sui rumori della strada, egli suonava una vecchia canzone soldatesca della sua patria, - una di quelle che i soldati cantano la sera stando seduti sul davanzale delle finestre della caserma guardando giù nella piazza oscura e rispondendosi da finestra a finestra - ma se poi guardava giù in strada, nulla era cambiato e quello che egli vedeva gli sembrava il frammento di un grande cerchio, che non sarebbe stato possibile arrestare senza conoscere tutte le forze che lo tenevano in movimento». (A, 80-81).

Karl attraverso la musica spera di poter entrare in relazione con il mondo circostante. Tuttavia riceve una delusione. Le vecchie canzoni, che nella sua patria riuscivano a creare un dialogo solidale tra i soldati, nella nuova realtà rimangono ininfluenti.

Nella nuova realtà americana, che sembra prefigurare la realtà dell’uomo contemporaneo [47], non vi è spazio per una forma d’espressione come quella musicale.

La musica è uno degli elementi tipici del sistema educativo umanistico ormai obsoleto nella nuova realtà industriale, e certamente poco corrispondente agli ideali educativi americani rivolti per lo più alla produttività e al profitto.

Karl non riesce a integrarsi nella nuova società, rispetto alla quale rimarrà sempre un emarginato, anche per la diversa educazione ricevuta nella propria patria. Il desiderio di migliorare la condizione del mondo attraverso l’arte, infatti, è un ideale del tutto estraneo alla concreta macchina della moderna produttività.

Sull’estraneità alla vita dell’istruzione scolastica ricevuta di cui soffrivano le nuove generazioni di intellettuali, ha scritto un amico di Kafka, Ernst Weiss: «A scuola non si è affatto educati alla vita pratica e a una vera comprensione delle cose desiderabili nel mondo. E come potrebbe accadere ciò in un istituto in cui non si apprende mai nulla sul denaro ... La scuola ha i suoi propri ideali e ... ci sono degli uomini che rincorrono per tutta la vita codesti ideali o meglio codesti sogni e illusioni e trovano la loro vera missione in una doppia specie di eroismo ... Doppia perché l’intensità del loro modo di vivere tradisce la colossale eccezione della natura geniale e poi perché ciò a cui essi aspirano è tanto profondamente diverso da tutto quello che gli altri hanno davanti agli occhi come scopo della vita. Sono quindi doppiamente isolati, e hanno il loro unico ma indistruttibile sostegno nella cieca fede in sé, estranea al mondo, e nella necessità assoluta dei loro fini» [48].

Le melodie di Karl sortiscono un effetto addirittura negativo quando, per esaudire la richiesta della figlia del signor Pollunder, Klara, che vuole sentirlo suonare il pianoforte egli, esibendosi in modo inaspettatamente maldestro, ritarda il proprio ritorno a New York dallo zio, con conseguenze catastrofiche per i futuri rapporti con quest’ultimo: «"Coraggio, non c’è bisogno che le suoni tutte le dieci canzoni che conosco. Ma una almeno posso sonarla come si deve". Ed incominciò la canzone soldatesca che tanto gli piaceva. Sonava così lentamente che l’ascoltatore doveva desiderare quasi ansiosamente di udire la prossima nota, ma Karl la ritardava sempre più e la sonava quasi a malicuore. Egli era bensì costretto, come sempre quando sonava, a cercare i tasti con gli occhi ma oltre tutto sentiva nascere dentro di sé, a poco a poco, una nuova canzone che tentava di fondersi con l’altra e non vi riusciva. "Non so proprio sonare" disse Karl quando la canzone fu finita e guardò Klara con gli occhi pieni di lacrime». (A, 127).

Il desiderio di comunicare attraverso i suoni tutto ciò che sente nascere dentro di sè fallisce totalmente lo scopo, e Karl, già incompreso dagli spettatori di quella penosissima esecuzione, per il ritardo si trova anche a fare i conti con una nuova e ancor più terribile realtà: il rifiuto da parte di suo zio e il conseguente spaesamento di fronte a una realtà a lui del tutto estranea.

Ancora una volta il tema della musica è strettamente interconnesso a quello dell’isolamento e della solitudine dell’individuo.

Lo spaesamento è, del resto, un elemento ricorrente dei personaggi kafkiani [49]: «Alcuni critici hanno trovato strano che Kafka, un praghese, dovesse aver scelto come soggetto del suo primo grande romanzo le difficoltà di un immigrante negli Stati Uniti. Ma ciò è del tutto naturale se si considera che il tema caratterizzante della sua scrittura era il sentimento di estraneità dell’individuo nel proprio ambiente abituale. Egli prende soltanto la metafora dello spaesamento alla lettera ... Dal 1912 diviene un elemento essenziale della tecnica di Kafka ritrarre come fatto oggettivo lo spaesamento dei suoi protagonisti ... Questo è il suo più importante ed efficace artificio letterario: prendere alla lettera il linguaggio metaforico, per mezzo del quale noi vogliamo comunicare i nostri giudizi o le nostre condizioni spirituali, e successivamente, ciò che è stato preso alla lettera svilupparlo in un semplice racconto» [50].

Kafka arricchisce il suo primo romanzo di diversi elementi tratti dalla realtà contemporanea. Gli anni precedenti la prima guerra mondiale sono, infatti, gli anni dell’«americanizzazione culturale dell’europa centrale» [51]. Edison, in un’intervista sul suo viaggio in Boemia riferita da Kafka nei Diari (D, 252) metteva in rilievo lo stretto rapporto esistente tra il grande fenomeno dell’emigrazione dei cechi negli Stati Uniti e lo sviluppo della Boemia, in cui avevano una parte anche le aspirazioni di coloro che tornavano dal nuovo mondo. Kafka guarda con attenzione questi fenomeni da un osservatorio privilegiato rispetto a quello di molti altri scrittori. L’impiego presso l’Istituto di assicurazioni contro gli infortuni dei lavoratori del Regno di Boemia lo mette in diretto contatto con la nuova realtà dell’industrializzazione nel proprio paese. Inoltre egli può ricevere notizie di prima mano sulla vita americana dai parenti emigrati nel nuovo continente che talvolta scrivono o vengono in visita in Europa. [52]Da rilevare è, inoltre, il fatto che nelle fonti alle quali Kafka si ispira [53], i resoconti di viaggio di Artur Holitscher [54] e di František Soukup[55], i paragoni tra gli Stati Uniti e l’Europa, e in particolare i paragoni con la città di Praga sono diversi [56].

La realtà culturale e sociale che Kafka descrive in America, più volte spingendola sino al grottesco, diventa, tuttavia, il grande scenario che fa da sfondo alle esperienze del singolo individuo. Le esperienze di isolamento di un emigrante europeo in America non sono, infatti, per Kafka così diverse da quelle da lui stesso provate nel proprio ambiente: «Da tutte le cose mi separa uno spazio cavo, al cui confine neppure mi spingo» (D, fine 1911) [57]. La tendenza autobiografica di quest’opera anche nei più minuti dettagli descrittivi è del resto documentata dalle affermazioni dello stesso Kafka nelle lettere scritte a Felice durante la stesura del romanzo [58].

Nello scenario americano che circonda Karl Rossmann anche alcune metafore e immagini musicali che Kafka utilizza si arricchiscono degli stimoli offerti dalla realtà culturale e sociale a lui contemporanea. Ci riferiamo in particolare alla figura della cantante Brunelda. Essa, il cui nome allude [59] a uno dei personaggi più significativi dell’epopea wagneriana, la valchiria Brünnhilde [60], sembra essere ciò che rimane dell’ormai tramontato mondo dell’opera [61]: una grottesca caricatura.

Per Kafka non si tratta certamente di porre in discussione un compositore o un modo di fare opera. Sullo sfondo delle sue descrizioni si percepisce, tuttavia, il fermento che a Praga, coinvolge proprio in quegli anni sotto il duplice aspetto sociale e culturale la figura di Wagner, e che è quindi necessario preliminarmente delineare.

Per fare ciò si deve partire dagli anni ottanta del XIX secolo, quando, con l’acutizzarsi dell’antagonismo nazionalistico tra cechi e tedeschi si esauriscono progressivamente le forme di collaborazione tra le istituzioni culturali cittadine delle due nazionalità. Nel 1882 si assiste alla divisione dell’università in due distinte università, una tedesca e una ceca. Nello stesso periodo sorgono le due istituzioni culturali che diventeranno per lungo tempo i centri di aggregazione sociale, oltre che culturale, più importanti della vita cittadina delle due nazionalità: il Národní Divadlo (Teatro Nazionale, 1881) e il Neues Deutsches Theater (1888).

Direttore del teatro tedesco di Praga, a partire dal 1885 è Angelo Neumann, amico e grande estimatore dell’opera e della figura di Richard Wagner. Neumann, aveva raggiunto una fama internazionale come direttore del teatro itinerante wagneriano, il cosiddetto «fliegende Wagner-Theater», che nel 1882-83 aveva portato in molti teatri europei il Ring des Niebelungen. In pochi anni, con grande abilità imprenditoriale Neumann - al quale va il merito di avere istituito i Maifestspiele [62] - riesce a trasformare il teatro tedesco di Praga in un centro culturale di fama internazionale.

Durante l’era Neumann, che si conclude alla morte del direttore nel 1910, nella vita pubblica i rapporti tra l’ambiente artistico tedesco e quello ceco sono scarsi. La stampa delle due nazionalità dà notizia quasi esclusivamente degli avvenimenti musicali riguardanti i propri teatri e le proprie sale da concerto. Grazie a un «gentlemen agreement» tra i direttori dei due teatri, il teatro ceco ha la precedenza per le novità francesi e italiane, quello tedesco per le novità tedesche [63].

La musica di Wagner, che era sempre stata accolta con favore dal pubblico praghese di entrambe le nazionalità, diviene il cavallo di battaglia delle stagioni operistiche di Neumann, nelle quali sarà presente ogni anno l’intero ciclo del Ring des Nibelungen [64].

Nella società tedesca di Praga si assiste al dilagare di quel fenomeno della «assordante narcosi della musica wagneriana, di cui tutto era schiavo»[65]. Nel romanzo a sfondo autobiografico Die Rosenkoralle [66], ambientato nella Praga della sua giovinezza, Max Brod descrive in modo magistrale il fascino provocato dalla messinscena organizzata da Neumann in occasione del primo dei Maifestspiele nel 1899, dedicato proprio al ciclo delle opere wagneriane.

«I motivi wagneriani del corno risuonarono nella tiepida aria primaverile dei giardini del teatro, oltre le verdi cime del parco cittadino, attraverso il quale il maestro stava accompagnando il nipote sino alla scalinata del teatro.

Erano le cinque del pomeriggio, un’ora insolita per l’inizio di una rappresentazione. Ma ci siamo forse dimenticati che oggi ci sarà Die Götterdämmerung? Esso durerà sino alle undici e mezza della sera..

Talvolta poco prima che iniziasse la rappresentazione pioveva. Allora grandi gocce rilucevano sull’erba e sulle foglie, il parco profumava ancor più piacevolmente del solito e sembrava sciogliersi in profumo, in puro respiro vitale. Dopo l’acquazzone tornavano le prime timide voci degli uccelli, il merlo riprendeva a cantare e ai deboli friniti e cicalecci si univa improvvisamente con suono rauco la fanfara wagneriana. Pareva che arte e natura, come due geni innamorati si corressero incontro, si abbracciassero, e questo elementare duetto fraterno prendeva il sopravvento sul giovane cuore.

Il direttore del teatro, Angelo Neumann, sapeva il fatto suo. O, forse - chi è in grado di definirlo? - era la sua schietta ammirazione per Wagner che, come una forza del genere dell’armonia prestabilita che scaturisce direttamente dall’animo, aveva imboccato delle strade che servivano nello stesso tempo il suo giustificato desiderio di successo e il suo ossequio al genio. In ogni caso il direttore sapeva alimentare l’entusiasmo cittadino per Wagner. Non gli mancavano i mezzi idonei: alcuni orchestrali, vestiti da eroi medievali, comparivano sulla terrazza all’ingresso dello splendido teatro e facevano risuonare tutt’intorno un motivo del Ring come brano d’entrata. Dopo il pezzo segnato sul programma, si udivano corni e trombe e, prima della Götterdämmerung, tre timpani con i loro passi di terze minacciosamente ascendenti, che si perdevano nelle profondità per poi ritornare. Quello era il segnale dell’inizio. E anche durante gli intervalli, che, dopo una musica così esigente, erano ragionevolmente più lunghi del solito, il pubblico ciarliero veniva richiamato dal giardino non con un monotono scampanellio elettrico, ma con le stesse fanfare che distinguevano la serata. Così la rappresentazione, anche nella sua veste esteriore, era elevata a un più alto livello. Non si trattava di qualcosa di consueto, bensì dei leggendari «Maifestspiele», la grande invenzione teatrale di Neumann, il cui scopo, che raggiungevano con pieno successo, era quello di portare uno stimolo positivo all’apertura della fiacca stagione estiva» [67].

A Praga nasce una vera e propria moda wagneriana: «Presto i garzoni e i postini si misero a fischiettare il richiamo di Siegfrid, quando si incontravano tra di loro o con la propria fidanzata» [68].

Il culto per Wagner assume nel tempo anche il carattere di una missione nazionale [69].

Tuttavia, già a partire dai primi anni del XX secolo, a Praga si va formando una nuova generazione di artisti, letterati, critici e musicisti con un’educazione moderna e cosmopolita per i quali l’interesse nei confronti dell’arte supera le barriere nazionali [70]. Essi si oppongono al pomposo nazionalismo del culto wagneriano e denunciano il vuoto di una moda teatrale ormai senza senso: «Nella vita reale si promuove la rivoluzione contro ciò che è vecchio, nell’arte contro il nuovo - mi riferisco al modo di pensare delle masse e del pubblico medio.

Pochi dicono in materia d’arte: Non ne posso più di questo, ne ho abbastanza".

Più spesso si sente dire "Oggi vado per la 37esima volta al Siegfried". - E sono contenti e la 37esima volta si immaginano di capirlo meglio. Questo è il modo in cui a Praga viene coltivata la vana vertigine wagneriana.

Il pubblico medio non riesce a comprendere Wagner. Ognuno siede al proprio posto e aspetta di rubare questo o quello alla nuova opera. E se non riesce a rubare nulla significa che l’opera non vale niente.

Questa pesca alle analogie è l’asso della critica dei dilettanti con due tt a cui si attaglia la caccia ai motivi, entrata in voga, del resto, per colpa dello stesso Wagner.

Ma qui non voglio entrare in polemica con Wagner, bensì chiedere: questo parossismo per Wagner, con la cavalcata delle valchirie e la magia del fuoco, entrato ormai anche nei salotti più discreti, non è l’ostacolo ad ogni sviluppo del nuovo? C’è un solo musicista successivo a Wagner che abbia ottenuto a Praga grande risonanza?

In una relazione il Dr. Batka dice: "La vita musicale di Praga da sempre tocca il proprio apice nel teatro. L’attività concertistica è debole e resa possibile solo grazie all’attività delle associazioni. Concerti di artisti organizzati in modo autonomo sono una rarità".

E dunque, cosa offre il teatro?

Wagner viene rappresentato quasi ogni settimana, in ogni ricorrenza festiva e con particolare fasto in maggio, oltre a ciò ogni nuova opera di Siegfried (del resto, in segreto fiorisce ancora un’associazione wagneriana), quindi Gounod, Thomas e il giovane Verdi, nessuna occasione di giubileo sfugge in cui non vi sia un omaggio alla musa, la domenica operette inclusi i varietà; riguardo alla nuove opere si preferiscono quelle che portano onoreficenze o la cui rappresentazione non sembra giustificata da alcun motivo, infine quattro concerti filarmonici in cui sono favoriti i compositori influenti, idonei al baratto» [71] .

Successore di Richard Batka, il famoso critico e musicologo sostenitore della musica di Wagner che per anni aveva dominato le scene della vita musicale praghese dalle colonne del del «Bohemia» [72] è il giovane Felix Adler [73], promotore della musica moderna. In un articolo che segue di quattro anni quello di Effenberger, Adler pur riconoscendo la grandezza musicale di Wagner, le cui opere sono divenute in un tempo relativamente breve un bene comune della nazione tedesca, tuttavia osserva che il pubblico ne è in un certo senso sazio e si rivolge con avidità a una musica la cui forza vitale è più aderente allo spirito contemporaneo. «È infatti avvenuto ciò che doveva avvenire: il prendere distanza da Wagner e dalla sua opera. Noi non ci identifichiamo più con le sue idee filosofiche, non crediamo più all’unico beatificante dogma wagneriano. Il tempo del filisteismo wagneriano è passato e così è passato il tempo in cui nella musica tutto era schiavo di Wagner» [74].

A rappresentare l’angustia della tradizione wagneriana a Praga sono anche i vetusti scenari di cui il Neues Deutsches Theater si serve ormai da più di vent’anni e che all’inizio della loro «carriera» praghese erano stati motivo di grande meraviglia per il pubblico cittadino: «Era noto che Neumann aveva rilevato lo scenario di Bayreuth. Su queste quinte, su queste finte radici d’albero si era posato l’occhio del Maestro. E quando il vecchio sipario grigio azzurro del cielo nibelungico con i suoi ornamenti germanici non scese più dall’alto ma cadde in pezzi da una parte, un brivido assorto si impadronì dei più che sazi spettatori» [75].

Neumann, che aveva acquistato lo scenario del Ring al tempo del teatro wagneriano itinerante, successivamente lo aveva sempre utilizzato anche a Praga e infine nel 1895 lo aveva venduto alla società teatrale. Quest’ultima per ammortizzarne il costo si vide costretta a utilizzare il vecchio scenario ancora per vari decenni [76] «non sempre per la pura gioia degli spettatori praghesi», stanchi di vedere «le rocce delle valchirie ormai malferme» [77] o «un cielo sporco, pieno di buchi e di pieghe ... di fronte al quale lo spettatore per bene inorridisce»[78].

Sebbene anche l’esigenza di «una nuova messa in scena secondo principi moderni» [79] si faccia di giorno in giorno più urgente, sotto la direzione di Heinrich Teweles, il successore di Neumann, il Ring des Nibelungen viene rappresentato ancora con lo stesso scenario di Bayreuth [80].

L’epoca luminosa dell’opera sembra essere ormai finita. Di anno in anno i nuovi stimoli che subentrano ai vecchi fanno allontanare il pubblico dal teatro. Iniziano l’era dello sport e del cinema [81]. Figure come quella del vecchio direttore Neumann per le nuove generazioni rappresentano un mondo che ormai sta affondando. «Angelo Neumann dal suo palco troneggiava in lungo e in largo. Durante gli intervalli la sua figura appariva solenne, la splendente camicia del frack, i riccioli neri perfettamente ordinati, la folta e lunga barba scura, che divideva in due parti il grande viso, pallido come gli stucchi.Istintivamente si era portati a immaginare che anche quella autorevole barba facesse parte dello scenario, un elemento scenico mobile che, concluso l’ultimo atto, sarebbe stato riposto anch’esso nel deposito. La breve fantasia saccente e irrispettosa, stranamente non recava, tuttavia, alcun danno alla dignità del signore. Anch’egli, in grande Angelo, faceva parte in qualche oscuro modo di quella potenza creativa che qui si sviluppava, un uomo bizzarro, forse persino leggermente buffo, ciò nonostante un messaggero del cielo» [82].

Con la nuova direzione musicale di Alexander Zemlinky, che promuove la nuova musica e dimostra un certo interesse anche per l’ambiente musicale ceco [83], al Neues Deutsches Theater le opere di Wagner, considerate sempre più come «un male inevitabile» [84], passano in secondo piano.

America vede la nascita in questo particolare clima culturale. Proprio nel periodo in cui Kafka si dedica alla stesura del romanzo fino al VI capitolo - Un Asilo - , tra la fine di settembre del 1912 e i primi due mesi dell’anno successivo, al Neues Deutsches Theater (che nel 1913 tra l’altro festeggia sia il 25° anniversario della fondazione del teatro sia il centenario della nascita di Wagner) viene rappresentato il Ring des Nibelungen diretto da Zemlinsky, ma ancora, come precedentemente detto, con i vecchi scenari di Bayreuth. In particolare, il 4 ottobre e il 24 novembre 1912 viene rappresentata Die Walküre e il 12 gennaio 1913 Götterdämmerung, opere in cui uno dei protagonisti principali è la valchiria Brünnhilde.

L’asilo di Brunelda, descritto con magistrale ironia secondo le impressioni di un adolescente, ricorda da vicino l’antro oscuro e polveroso di un vetusto scenario wagneriano: «Dentro c’era buio completo. La tenda della porta del balcone - nella stanza non c’erano finestre - era calata fino al pavimento e non lasciava passare la luce; inoltre la stanza era piena di mobili, dappertutto c’erano vestiti appesi e questo aumentava ancora l’oscurità. L’aria era pesante e si sentiva addirittura l’odore della polvere che doveva essersi ammucchiata negli angoli dove nessuna mano poteva arrivare. La prima cosa che Karl scorse entrando furono tre armadi collocati uno vicino all’altro» (A, 260).

In esso gli oggetti vengono spostati e ammassati a seconda delle esigenze: «Trovò la tavola da pranzo in una posizione completamente diversa dalla sera prima; il canapè, al quale si avvicinò con molta prudenza, era contro tutte le aspettative vuoto; invece nel centro della stanza egli urtò contro un gran mucchio di vestiti, coperte, tende, guanciali e tappeti pressati uno contro l’altro. Dapprima pensò che fosse solamente un mucchietto simile a quello che la sera prima aveva trovato sul sofà, e che forse era rotolato per terra; ma con grande meraviglia, continuando a strisciare avanti, si accorse che era un vagone intero di roba che era stata tolta probabilmente per la notte da uno degli armadi dove veniva conservata durante il giorno. Egli strisciò attorno al mucchio e capì che si trattava di una specie di giaciglio in cima al quale, allungando con prudenza le mani, constatò che dormivano Delamarche e Brunelda» (A, 296).

Brunelda, che Robinson definisce una grande cantante, divorziata, con un grande patrimonio e del tutto indipendente (A, 270) è la caricatura, sia nell’aspetto, sia nel carattere, della primadonna wagneriana. È infatti terribilmente grassa [85] (A, 263). La sua voce possente ricorda il particolare stile vocale delle cantanti wagneriane che, sebbene nei paesi tedeschi avesse ormai fatto scuola, era tuttavia denigrato dagli ammiratori del bel canto. «... Ovunque in Germania il repertorio wagneriano è urlato, anzi ruggito ... In Germania anche il lirico Lohengrin è ruggito, né più né meno. Ciò è quel che si pretende dai cantanti e i maestri di canto hanno semplicemente la mania per queste cosiddette voci wagneriane...» [86].

Infatti, pur avendo una voce «molto melodiosa» (A, 287) spesso Brunelda, se irritata, «incomincia a urlare come un uomo, in una maniera terribile, e seguita a urlare per ore intere» (A, 279). Ancora, Brunelda è vestita in modo ricercato, assai vistoso e ridicolo: «Sul balcone ... si levò veramente sotto all’ombrellino una donna piuttosto grossa, con un vestito rosso tutto svolazzante, e prese il binocolo dal parapetto per guardare le persone sulla strada» (A, 246). Essa è molto delicata e, come richiesto dal proprio ruolo, si comporta in modo assai capriccioso, tiranneggiando i propri servitori: «Sul balcone io ci sto quasi sempre. Brunelda si diverte molto. Basta che le salti in testa qualche cosa, ora ha freddo, ora ha caldo, ora vuol dormire, ora si vuol pettinare, ora si vuole slacciare il busto, ora se lo vuole mettere, ed ogni volta mi manda sul balcone. Qualche volta fa davvero quello che ha detto, ma di solito rimane sdraiata sul canapè com’era prima e non si muove più» (A, 266). Non le mancano gli ammiratori, come l’ex marito, il quale, nonostante i terribili trattamenti riservatigli, le è sempre devoto: «Il suo ex marito, un fabbricante di cioccolata, l’amava sempre, ma lei non voleva sentir parlare di lui. Egli veniva spesso in casa, vestito con molta eleganza come se dovesse andare a nozze - ed è tutto vero, parola per parola, ora lo conosco anch’io - ma per quanto ricevesse grandi mance, il servitore non aveva il coraggio di domandare a Brunelda se lo voleva ricevere, perché un paio di volte che glielo aveva chiesto, Brunelda gli aveva senz’altro tirato in faccia quello che aveva in mano ... Qualche volta viene anche qua su ... Mi aspetta ogni giorno quando passo lì, all’angolo della strada, gli devo raccontare tutte le novità, e se non posso andare, mi aspetta più di mezz’ora prima di andar via» (A, 270-71). Estremamente irritabile, Brunelda non sopporta il rumore «Quella donna sente tutto, forse ha le orecchie così sensibili perché è una cantante» (A, 279).

L’ambiente in cui Brunelda ha deciso di vivere, infine, ricorda per molti aspetti l’interno di un teatro. Pur essendo situato in città, l’appartamento si trova in un quartiere in cui il silenzio, che a Karl sembra quasi eccessivo, viene interrotto soltanto la sera, per circa due ore: «"Di sera, per un paio d’ore, c’è un gran rumore, ma durante il giorno è una quiete invidiabile". Karl acconsentì con la testa ma gli pareva che ci fosse troppo silenzio» (A, 258). L’appartamento, che si trova molto in alto, dopo una lunga serie di scale, fa parte di un palazzo in cui ogni abitazione ha un balcone [87] che guarda sulla strada. Come a teatro, quest’ultima diventa il palcoscenico che, dopo il lungo silenzio della giornata, alla sera si anima e offre uno spettacolo agli spettatori del palazzo, sistemati come nei palchi sui loro balconi: «Karl si alzò, si appoggiò sulla ringhiera e guardò sulla strada. Questa, che di giorno era così vuota, ora era affollata di gente, specialmente davanti ai portoni tutti si movevano lentamente e pesantemente, gli uomini in maniche di camicia, i vestiti chiari delle donne spiccavano leggermente nel buio, tutti erano a capo scoperto. Molti balconi all’intorno erano tutti occupati, su alcuni sedevano le famiglie sotto una lampadina elettrica, e secondo la grandezza del balcone, stavano intorno a un piccolo tavolino, oppure su una fila di seggiole, oppure sporgevano almeno la testa dalla ringhiera ... In quella si sentirono improvvisamente risonare in fondo alla strada squilli di trombe e rulli di tamburo. Singole grida di molte persone si confusero ben presto in un grido generale. Karl volse la testa e vide che tutti i balconi si animavano di nuovo. Lentamente si alzò in piedi ... Sotto a lui sul marciapiede marciavano dei giovanotti a grandi passi, con le braccia allargate, il berretto nella mano alzata, il viso rivolto all’indietro. Il centro della strada era ancora libero. Alcuni agitavano in cima a lunghe stanghe lampioni che erano circondati da un fumo giallastro. In quel momento entravano nella parte illuminata della strada i tamburini e i trombettieri che formavano fitte schiere» (A, 272, 282).

Si tratta della sfilata di uno dei candidati alle elezioni del nuovo giudice distrettuale, che incuriosisce tutti gli abitanti dei palazzi intorno. Anche Brunelda accorre sul balcone a guardare con il binocolo da teatro. È un vero e proprio «spettacolo» (A, 289), con tanto di protagonista, il candidato, che sfila o pronuncia discorsi in cerca di consensi e applausi, con la banda che sfila e suona in determinati momenti, con gruppi di persone che formano movimenti coreografici di grande effetto, con brindisi e litigi, e infine con cori di fans e di avversari che intrecciano le loro voci. A tutto ciò si aggiungono gli effetti di luci appositamente creati dai fari di un’automobile.

Finito lo spettacolo, proprio come in teatro torna la quiete, interrotta solo dal personale che rimette ordine sul palco: «... si affrettò ad uscire sul balcone. Quando, fuori della tenda, si alzò in piedi, si trovò in un mondo completamente diverso. Si mosse un paio di volte su e giù per il balcone, nella luce della luna piena, respirando la fresca aria notturna. Guardò sulla strada che era vuota e silenziosa, dalla trattoria veniva ancora la musica, ma come soffocata, davanti alla porta un uomo spazzava il marciapiede ed in quella strada, dove poche ore prima non si erano potute distinguere le grida del candidato, in mezzo a mille altre voci che formavano un fracasso indiavolato, ora si sentiva chiaramente la scopa che grattava il selciato» (A, 296) [88].

Brunelda/Brünnhilde, la grottesca caricatura della nuova umanità wagneriana, che in realtà rappresenta un mondo ormai passato e degradato (nel frammento La partenza di Brunelda la cantante troverà impiego in un bordello) [89], non è più in grado di attuare la magia dell’opera, che trasforma il sogno in realtà, la magia dell’arte wagneriana, che rende il mondo del sogno e del mito credibile e dissolve il mondo della realtà quotidiana nel mito onnipotente. Il binocolo di Brunelda è inefficace di fronte alla nuova e più potente mistificazione in cui è la realtà stessa a divenire teatro: «"Non vuoi guardare anche tu attraverso il binocolo?" chiese Brunelda battendo con un dito sul petto di Karl per indicare che parlava a lui.

"Vedo bene così" disse Karl.

"Su, prova" essa disse, "vedrai meglio".

"Ho gli occhi buoni" rispose lui. "Vedo tutto".

E non gli sembrò una cortesia, ma piuttosto ebbe un senso di fastidio quando essa gli avvicinò il binocolo agli occhi dicendogli un’unica parola "Su!", molto melodiosa ma piena di minaccia. Così egli si trovò il binocolo davanti agli occhi e non riuscì più a vedere niente» (A, 287).

Come si è precedentemente osservato, per Kafka non si tratta di porre in discussione un determinato compositore o un modo di fare opera; Brunelda diviene qui il simbolo di tutto un mondo e con esso di una concezione dell’arte e dell’artista dei quali si vede ormai la fine: «Non abbiamo più un’idea di quello che succede a questo mondo» (A, 284), dice Delamarche rivolgendosi a Brunelda, mentre guardano gli avvenimenti che si svolgono sulla strada.

Nella nuova realtà non c’è più spazio per un’arte totalizzante che ha la pretesa di riuscire a cogliere l’ineffabile e nella quale si riconoscono contemporaneamente sia l’artista che il pubblico. «L’arte è un essere abbagliati dalla verità. Di vero non c’è altro che la luce proiettata sul viso, che arretra in una smorfia di sbigottimento» (Otto quaderni in ottavo, in D, 726).

La musica a cui Karl si trova di fronte nel presentarsi alla compagnia di reclutamento del grande Teatro di Oklahoma, il «più grande teatro del mondo ... quasi sconfinato» (A, 312), assimilabile al teatro della vita [90], è un richiamo di trombe (un ricordo forse degli spettacoli wagneriani organizzati da Neumann a Praga?), che tuttavia non producono una melodia, bensì «un rumore confuso» (A, 308).

Alla spettacolarità del concerto non si accompagna più una sua immediata e chiara comprensibilità per gli ormai sparuti ascoltatori: ogni tromba suona infatti per conto proprio senza intonarsi alle altre [91]: la grande libertà offerta all’arte si accompagna a una profonda incomunicabilità della stessa: ogni voce è solitaria pur nel grande rumore offerto dal mondo [92].

L’effetto prodotto sugli ascoltatori da questa musica così insolita ricorda da vicino quello suscitato sul pubblico e sulla critica dalla nuova musica di Arnold Schönberg. Nel 1913, l’anno precedente la stesura da parte di Kafka del capitolo incompiuto sul teatro naturale di Oklahoma [93], il Pierrot Lunaire aveva provocato un vero e proprio scandalo alla sua prima esecuzione praghese [94]. Le critiche sui quotidiani di lingua tedesca sono esplicite al riguardo: sul «Montagsblatt» si legge «In ciclo schönbergiano di liriche "Pierrot Lunaire" è senza dubbio la totale anarchia musicale. Non si può pretendere che, seppur con le migliori intenzioni, una persona normalmente dotata di musicalità trovi il proprio soddisfacimento in quei rumori prodotti dagli strumenti e che alla fine riesca ancora a considerare musica ciò che i singoli esecutori ricavano dal proprio strumento di tortura. Chi è capace di regolare il proprio udito in modo da ascoltare soltanto il violino o il flauto o il pianoforte può raggiungere ancora un certo soddisfacimento. Ma riguardo all’armonia questa musica è spaventosa». [95]Gisela Wien Steinberg sul «Prager Abendblatt» non è meno dura al riguardo: «Nelle sale del Rudolfinum consacrate all’armonia non si era mai sentita una tale disarmonia» [96].E ancora Wenzel von Belsky sul «Prager Tagblatt»: «Sino ad ora non avevo mai ascoltato tali vacuità e cacofonie strumentali» [97].

La musica del Pierrot Lunaire viene percepita da buona parte del pubblico e della critica come "anarchia musicale", "cacofonia".

Accettando come fondamento della composizione il decentramento della coscienza moderna, tale musica abolisce infatti ogni tradizionale forma di bellezza e armonia: «Questa nuova musica non è "bella", e questo è il suo grande delitto agli occhi di coloro i quali ritengono sua autrice solo la leggerezza» [98]. Tuttavia, per chi, come Felix Adler, ne riconosce il valore espressivo: «La mancanza di nesso tra i suoni di Schönberg conduce a creazioni di terrificante bizzarria e di forza pervasiva ... che conducono niente meno che al piacere di una nuova e soltanto presagita bellezza» [99]. Nasce una sensibilità nuova, volta a scavare direttamente nell’interiorità dell’io, svelandone le angosce, le contraddizioni, le fratture, attraverso un linguaggio vigile, che con una riduzione radicale delle strutture musicali costituite, tratta la dissonanza allo stesso modo della consonanza.

Nel giro di qualche anno, tra il 1920 e il 1922, a Praga il dibattito sulla nuova musica si intensifica: nel maggio del 1920 avviene la fondazione del Tschechischen verein für moderne Musik; nello stesso anno e in quello successivo i concerti straordinari del Wiener Verein für musikalische Privataufführungen di cui Schönberg era il maggior esponente, riscuotono grande interesse [100] tanto che nel maggio del 1922 si arriva all’apertura del Prager Verein für musikalische Privataufführungen, con una propria attività per la promozione della nuova musica [101].

L’imprevista attrattiva che si sprigiona da una musica di tal genere è ciò che colpisce il protagonista di Indagini di un cane, un racconto incompiuto scritto da Kafka proprio tra il luglio e l’ottobre del 1922, in cui, ancora una volta, l’arte dei suoni assume una funzione di rilievo [102].

L’incontro del cucciolo durante l’infanzia con sette cani musicanti è infatti determinante per la sua intera vita. La musica dei sette cani ha la forza trascinante della creatività che coinvolge l’artista con tutto il proprio essere nel processo produttivo: «Tutto era musica, il modo di alzare e posare i piedi, certi movimenti del capo, il modo di correre e di star fermi, di aggrupparsi, le loro combinazioni quasi di danza» (R, 461). Si tratta di una musica insolita, apparentemente composta di un insieme non strutturato di suoni e rumori «salutai il mattino con trepidi mugolii, quand’ecco - come li avessi evocati - uscire non so da quale tenebra alla luce sette cani con un fracasso orrendo quale non avevo mai udito» (R, 461). Attraverso di essa al protagonista si offre improvvisamente una nuova dimensione del reale, un mondo che appare «a rovescio», al di fuori di ogni rispetto delle regole e delle leggi: «Quei cani trasgredivano la legge ... A furia di musica non l’avevo notato fino a quel momento: avevano deposto ogni pudore, quei disgraziati, e facevano l’atto più ridicolo e nello stesso tempo più indecente: camminavano ritti sulle zampe posteriori. Vergogna! Si spogliavano e ostentavano sfacciatamente la loro nudità ... Era il mondo a rovescio? Dove mi trovavo? Che cosa era successo?» (R, 464).

I sette cani hanno il coraggio di seguire, apparentemente senza indugio, la propria musicalità creativa: «In verità, più che dall’arte dei sette cani - per me incomprensibile, ma anche senza alcuna possibilità di accostamenti e fuori delle mie capacità - mi meravigliai del loro coraggio di esporsi interamente e apertamente a ciò che producevano» (R, 463). Una simile presa di posizione nei confronti dell’arte e dell’artista è proprio ciò che caratterizza, nel dibattito culturale di quel periodo, figure come quella di Arnold Schönberg: «Giustamente e bene scrive Schönberg nel suo trattato di armonia, questa vigorosa confessione di uno spirito combattivo: "L’artista che ha coraggio si abbandona alle proprie inclinazioni. E solo chi si abbandona alle proprie inclinazioni ha coraggio, e solo chi ha coraggio è artista» [103].

Il coraggio dei cani cela bensì una grande tensione, quasi paura e disperazione: «i cani musicanti ... sonavano apparentemente tranquilli e in realtà erano molto agitati, ma quest’apparenza è forte, si cerca di vincerla ed essa resiste ad ogni attacco» (R, 478). È la tensione di chi vede benissimo il vuoto ma anziché leggervi abissi di significati repressi preferisce lasciarlo così com’è accettandolo come principio regolatore dell’esperienza.

I cani, infatti, non rispondono alle pressanti domande del cucciolo ed oppongono ad esse la loro natura silenziosa. La musica dei cani può solo illuminare uno squarcio di realtà, non può rispondere ai quesiti intorno ai massimi problemi dell’esistenza: «Là erano convenuti sette musicanti per far della musica nel silenzio mattutino ... la cosa non durò molto ed essi scomparvero con tutto lo strepito e con tutta la luce nelle tenebre dalle quali erano venuti» (R, 465).

Proprio per il suo carattere puramente allusivo, asemantico, la musica è la più indicata in questo racconto a rappresentare l’incapacità dell’arte, secondo Kafka, di cogliere la verità: : «L’arte vola intorno alla verità ma con la decisa intenzione di non bruciarsi. La sua abilità consiste nel trovare un luogo, nella vuota oscurità, dove la luce, senza che prima se ne fosse mai accorto nessuno, si possa ricevere molto intensa» (Otto quaderni in ottavo, in D, 735).

La musica per i cani, così come la scrittura per Kafka, è solo una via d’uscita, un appiglio [104], un rifugio: «Noi ... scappiamo in diverse direzioni ... io nella letteratura, sempre però invano ... Dopo essere passato a frustate attraverso periodi di follia, ho cominciato a scrivere e questo scrivere è per me ... la cosa più importante su questa terra, come p.e. la pazzia per un pazzo (se la perdesse diventerebbe "pazzo") o la gravidanza per una donna. Ciò non ha nulla a che vedere, lo ripeto anche qui, col valore dello scrivere, conosco più che esattamente il valore, ma nello stesso modo anche il valore che ha per me... Perciò preservo lo scrivere, con tremante angoscia, da qualsiasi disturbo, e non solo lo scrivere, ma anche la solitudine che ne fa parte» (L, 515).

Essa, inoltre, che si conquista nella rinuncia, nel digiuno, nella solitudine, è destinata ironicamente a rimanere un’esperienza essenzialmente incomunicabile: «Credetti di avvertire una cosa che nessun cane ha mai appreso prima di me ... Mi parve infatti di avvertire che il cane cantava già senza saperlo, anzi, più ancora, la melodia staccata da lui si librava nell’aria per legge propria, e passava sopra a lui, come se non gli appartenesse, ma mirasse soltanto a me. Oggi naturalmente nego tutte le esperienze di questo genere e le attribuisco a quel mio stato di sovraeccitazione ... Io ero infatti davvero fuori di me. In circostanze comuni sarei stato gravemente ammalato, incapace di muovermi, ma a quella melodia che a poco a poco il cane sembrava accogliesse per sua, non potevo resistere. Il peggio era che sembrava esistesse soltanto per me quella voce sublime, davanti alla cui grandiosità la foresta ammutoliva ... già volavo spinto dalla melodia, con balzi stupendi. Non dissi nulla ai miei amici, appena arrivato avrei detto probabilmente tutto ma ero troppo debole e più tardi mi pareva che non fossero cose comunicabili. Accenni che non riuscivo a reprimere si perdevano nei colloqui senza lasciare traccia. Fisicamente mi rimisi in sesto entro poche ore, spiritualmente ne porto ancora le conseguenze» (R, 497-98).

Segno di questa incomunicabilità è il silenzio che circonda i cani, tangibile espressione della loro condizione: «Con le mie domande non faccio che incitare me stesso, stimolarmi col silenzio che qui intorno è il solo a rispondermi. Fin quando sopporterai che i cani, come tu stesso ti rendi conto sempre meglio attraverso le tue indagini, tacciano e abbiano a tacere per sempre?» (R, 472-73).

Musica e silenzio sono i principali elementi che caratterizzano anche l’ultimo racconto scritto da Kafka nel marzo del 1924, poco prima di morire, Giuseppina la cantante ossia il popolo dei topi: «La nostra cantante si chiama Giuseppina. Chi non l’ha sentita non conosce il potere del canto. Non c’è nessuno che non sia trascinato dal suo canto, e ciò ha tanto maggior valore in quanto la nostra specie in complesso non ama la musica. Pace e silenzio: ecco la musica a noi più cara» (R, 578).

Kafka sceglie ancora una volta la musica per rappresentare il problematico rapporto che intercorre tra arte e vita. E ancora una volta i caratteri della musica intorno alla quale si svolge la narrazione presentano alcune analogie con quelli della nuova musica che in quegli anni andava imponendosi all’attenzione del pubblico di tutta Europa.

Il canto di Giuseppina, del quale viene riconosciuto il potere trascinante, confrontato con ciò che la tradizione ritiene essere stato il canto nel lontano passato, non si discosta dalla manifestazione della propria vitalità comune a tutti i topi: il fischiare: «Il fischio è il linguaggio della nostra gente» (R, 590).

In se stesso il canto di Giuseppina non ha nulla di straordinario, di unico, grazie a cui possa essere riconosciuto secondo il comune statuto di arte. In esso, come nello "Sprechgesang" schönbergiano, la vocalità sta al confine tra il linguaggio parlato e il canto. [105]«Ma è proprio canto? Non è forse soltanto un fischiare? E di fischiare siamo capaci tutti» (R, 579).

Per poterne cogliere il carattere peculiare, tale musica, forse a causa della sua eccessiva riduzione a una presunta ordinarietà, necessita del diretto contatto con il pubblico, il quale solo in questo modo riesce, almeno apparentemente, a riconoscerla come tale. «Quando si sta davanti a lei la si comprende; noi facciamo l’opposizione solo da lontano; quando uno le sta davanti si rende conto che ciò che lei fischia non è fischio» (R, 581). Nel canto di Giuseppina, infatti, «il fischio è liberato dalle catene della vita quotidiana» (R, 590), e si mostra nella sua vera natura (R, 580).

Quello del rapporto con il pubblico è uno dei problemi più rilevanti dell’arte contemporanea, con il quale anche la nuova musica cerca di confrontarsi sin dai suoi esordi. Schönberg aveva promosso la nascita del Verein für musikalische Privataufführungen - a Vienna a partire dalla fine del 1918 e a Praga dal maggio del 1922 - nella convinzione, appunto, che la musica, e la musica nuova in particolare, poiché nasceva come prodotto destinato alla collettività, potesse acquistare significato e valore solo nel rapporto che riusciva a instaurare con quest’ultima [106].

Proprio perché l’evento estetico potesse essere fruito dal pubblico nella massima concentrazione, durante i concerti del Verein für musikalische Privataufführungen non era permesso applaudire o manifestare la propria contrarietà [107]; anche all’uditorio di Giuseppina non è permesso fischiare la propria approvazione: «Siccome il fischiare fa parte delle nostre spontanee consuetudini, si potrebbe pensare che si fischi anche nell’uditorio di Giuseppina; quando assistiamo alle sue produzioni artistiche ci sentiamo bene, e quando stiamo bene fischiamo; ma il suo uditorio non fischia, se ne sta zitto; noi si tace come se avessimo ottenuto la pace sospirata che, se non altro, i nostri stessi fischi ci precludono» (R, 581).

Sebbene l’uditorio ascolti con rispetto e ammirazione le sue esibizioni, Giuseppina «è del parere che canta a orecchie tarde» (R, 581) e ritiene di non essere veramente compresa. Il disconoscimento del valore dell’arte di Giuseppina è insieme un disconoscimento della sua funzione sociale ed esistenziale, che vanifica ogni sforzo dell’artista [108]. Giuseppina, infatti, nelle proprie richieste, non è mossa da fatti esteriori, ma da un’intima logica: «lei mira unicamente al riconoscimento dell’arte sua, pubblico, inequivocabile, superiore al comune e duraturo nel tempo. Da principio doveva forse sferrare l’attacco in altra direzione, oggi anche lei vede probabilmente l’errore commesso, ma ormai non può tornare indietro, sarebbe come tradire se stessa, con la sua richiesta deve imporsi o crollare» (R, 592).

L’ultimo atto dell’intima logica di Giuseppina è quello di sottoporre il proprio canto a un’inesorabile autoriduzione sino all’annullamento nel silenzio. In esso si può ravvisare il destino che Kafka attribuisce all’arte [109] e all’artista [110]: «sospinta dal suo destino, che nel nostro mondo può essere soltanto tristissimo, si sottrae da sé al canto, da sé distrugge il potere che ha acquistato sugli animi. Ma come ha potuto conquistare il potere se questi animi li conosce così poco? Si nasconde e non canta, ma il popolo, calmo, senza visibile delusione, quasi altezzoso, massa compatta che, se anche le apparenze suggeriscono il contrario, può, si direbbe, soltanto offrire doni, non mai accettarne, nemmeno da Giuseppina, questo popolo prosegue per la sua strada. Giuseppina invece è in declino. Presto verrà il momento in cui squillerà e ammutolirà il suo fischio. Ella è un breve episodio nella perenne memoria del nostro popolo e il popolo si rassegnerà alla perdita ... e presto, dato che noi non registriamo la storia, in una redenzione superiore sarà dimenticata come tutti i suoi fratelli» (R, 596-97).

Sara Belluzzo

Note

[1] Per la prima parte di questo studio si veda anche il saggio precedentemente pubblicato da Sara Belluzzo con il titolo Kafka, la musica e l’esistenza nel volume a cura di Gabriele Scaramuzza, La vita irrimediabile. Un itineratio tra esteticità, vita e arte, Alinea, Firenze 1997, pp. 191 - 212.

[2] Max Brod, Kafka, Mondadori, Milano 1978², p. 103.

Gli scritti di Kafka sono citati dall’edizione italiana:

Confessioni e Diari, Mondadori, Milano 1976² (nei riferimenti il titolo è abbreviato in D)

Lettere, Mondadori, Milano 1988 (nei riferimenti il titolo è abbreviato in L)

Lettere a Felice, Mondadori, Milano 1988² (nei riferimenti il titolo è abbreviato in LF)

Racconti, Mondadori, Milano 1992 (nei riferimenti il titolo è abbreviato in R)

America, Mondadori, Milano 1972¹¹ (nei riferimenti il titolo è abbreviato in A)

Il Castello, Garzanti, Milano 1991 (nei riferimenti il titolo è abbreviato in C).

[3] In una lettera a Felice Kafka descrive le lezioni di violino con la sua consueta autoironia: «Il mio maestro di violino, durante la lezione di musica preferiva, per disperazione, farmi saltare un bastone che lui stesso teneva, e i miei progressi nella musica da una lezione all’altra consistevano nella maggiore altezza del bastone e del salto» (LF, 68).

[4] Kafka a questo proposito scrive nel gennaio del 1912: «In me si può benissimo riconoscere un concentramento nello scrivere. Allorché nel mio organismo fu chiaro che lo scrivere è il lato più fertile della mia natura, ogni cosa vi si concentrò lasciando deserte tutte le facoltà intese alle gioie del sesso, del mangiare, del bere, della riflessione filosofica e soprattutto della musica. Io dimagrai in tutte queste direzioni. Ed era necessario, perché nel loro complesso le mie forze erano così esigue che soltanto raccolte potevano passabilmente servire allo scopo di scrivere (...) In ogni caso non devo rimpiangere di non poter sopportare una amante, di capire dell’amore quasi quanto della musica, e di dovermi accontentare degli effetti più superficiali». (D, 316).

[5] Max Brod, Il circolo di Praga, edizioni E/O, Roma 1983, p. 35.

[6] Cfr. a questo proposito: Hartmut Binder (a cura di), Prager Profile vergessene Autoren im Schatten Kafkas, Mann Verlag, Berlin 1991, pp. 104-105.

[7] Max Brod, Vita battagliera, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 302.

[8] Si veda a questo proposito il saggio di Yeuda Cohen Max Brod, der Musiker nel volume curato da Hugo Gold, Max Brod. Ein Gedenkbuch. 1884-1968, Olamenu, Tel Aviv 1960, pp. 277-87.

[9] Max Brod fu critico musicale e teatrale dal 1904 per diverse riviste tra cui «die Gegenwart», «Die Schaubühne», «Der Merker», «Die Neue Rundschau», «März» e successivamente del «Prager Abendblatt» e del «Prager Tagblatt».

[10] Probabilmente stimolato dall’interesse degli amici per la musica Kafka legge inoltre il volume su Beethoven a cura di Paul Wiegler Briefe, Gespräche, Erinnerungen, Berlin 1917, e delle memorie di Berlioz scrive a Felice: «In questo momento il cuore mi batte con la violenza con cui deve battere allo scolaretto che ha letto storie di indiani. Io ho letto alcune pagine delle memorie di Berlioz. Ma non ne voglio parlare» (LF, 616). Kafka dedica molta attenzione anche alle attività di Felice in questo settore: le propone di organizzare una sala di musica a Berlino (LF, 250); la incoraggia ad utilizzare il canto come momento introduttivo e conclusivo delle sue lezioni alla Casa del popolo (LF, 754); le suggerisce di andare agli spettacoli teatrali di Jsaak Löwy a Berlino.

[11] Kafka consiglia l’amico per come ordinare gli articoli del volume Über die Schönheit häßlicher Bilder; rilegge il libretto della Jenufa che Brod ha tradotto in tedesco e dà all’amico alcuni suggerimenti in proposito (L, 213) - si veda a questo proposito l’articolo di Jaroslav Prochazka, Brod Übersetzung des Librettos Jenufa und die Korrekturen Franz Kafkas, in «Acta janacekiana», Moravske Museum, Brno 1968, pp. 109-113 -; si informa sul successo riscosso dall’opera alla sua prima berlinese (L, 247); non manca di commentare con l’amico letture di argomento musicale come l’articolo di Thomas Mann Palestrina o la novella di Mörike Mozart in viaggio verso Praga (L, 476); si immerge d’un fiato nella lettura della biografia che Max Brod dedica ad Adolf Schreiber (L, 378-9) e negli ultimi anni di vita legge con assiduità le recensioni critiche di spettacoli teatrali e musicali dell’amico, nelle quali l’arte appare sempre «un mistero dispensatore perenne di vita» (L, 466).

[12] Particolarmente interessante è la lunga annotazione di Kafka riguardante la rappresentazione della Carmen all’Opera Comique alla quale ha assistito insieme a Max Brod contenuta nei Diari di Viaggio del 1911 (D, p. 72)

[13] «Ora, proprio ora c’è, credo, a Berlino una compagnia della quale fa parte un certo Löwy, mio buon amico (...) Deve sapere che mi scrive molto spesso e mi manda anche fotografie, manifesti, ritagli di giornale e simili (...) Vi si trovano particolari divertenti (un’attrice, signora anziana che io ammiro moltissimo, vi è chiamata "primadonna", Löwy stesso si definisce "drammaturgo")» (LF, 33-34).

[14] «Tutto il teatro dialettale è bello, l’anno scorso sono stato una ventina di volte a quelle recite e forse mai al Teatro Tedesco» (LF, 34).

[15] Sulle recite della signora Klug, attrice che egli ammira molto, scrive: «Quando cantava ero raggiante, ridevo e la guardavo tutto il tempo che stava in scena, ripetevo con lei le melodie, più tardi le parole, e dopo alcune rappresentazioni andai a ringraziarla» (D, 233). Non manca, inoltre, di annotare la propria predilezione per alcune sue canzoni: «(Così lei mi pregò) il lunedì andassi a vedere Sejdernacht, benché mi fosse già niota. Allora la sentirò cantare quella canzone (bore Isroel) che, come lei ricordava da una mia precedente osservazione, mi piace in modo particolare» (D, 322).

[16] Esemplare è la sua descrizione della danza di zingari dalla Fanciulla di Perth - opera di G. Bizet - che Max Brod gli aveva eseguito una sera al pianoforte: «una danza dove per pagine e pagine soltanto le anche si dondolano con movimento monotono e il viso assume un’espressione lenta e cordiale. Verso la fine arriva breve e tardi l’invocato furore interno che scrolla il corpo, lo sopraffà, comprime la melodia dimodoché questa scatta in alto e in basso (se ne odono particolarmente note amare, cupe) e poi pone una conclusione inosservata. Sul principio e sempre durante l’insieme, una forte vicinanza al mondo zingaresco forse perché un popolo così furioso nella danza si mostra calmo soltanto all’amico. Impressione di grande verità della prima danza». (D, 208).

[17] L’idea di una prosa in cui il dinamismo caratteristico del linguaggio musicale ne amplifichi l’effetto, assume una particolare pregnanza se teniamo presente che Kafka amava leggere di fronte alle sorelle o agli amici. Il desiderio di fondersi con le opere lette e di accostarsi a tutta la loro efficacia è lo stimolo a questo tipo di lettura (D, 317). In questo modo la voce riesce a vincere ostacoli interiori, aprendo davanti a sé panorami sempre più vasti, fino a sovrastare ciò che la circonda (D, 274). Kafka definisce la lettura in pubblico una esperienza di «elevazione», che gli procura una gioia addirittura «infernale» (LF, 126). Sul talento di Kafka per la lettura e sulla sua grande capacità di cogliere e di esprimere la musicalità delle opere lette abbiamo una preziosa testimonianza dell’amico Oscar Baum: «Leggere ad alta voce era la sua passione. Quando leggeva, la pronuncia delle singole parole - assoluta era la nitidezza di ogni suono pur nel ritmo talvolta vertiginoso - si conformava pienamente all’estensione di un fraseggio musicale, che non si trovava mai a corto di fiato ed era energicamente scandito da una successione di crescendo: era il respiro della sua prosa che, in taluni racconti perfettamente conchiusi come Die Zirkusreiterin, si sviluppa nella miracolosa struttura di un’unica frase» (Max Brod, Il circolo di Praga, cit., pp. 133-4).

[18] In occasione della preparazione del Discorso sulla lingua jiddish, che egli dovrà tenere il 18 febbraio 1912 come conferenza introduttiva di un recital di Jsak Löwy, nei Diari si legge: «Incomincio a scrivere per la conferenza sulle recite di Löwy (...) Non avrò più molto tempo per prepararmi, eppure intono qui un recitativo come nell’opera. Solamente perché già da qualche giorno una ininterrotta agitazione mi assilla e prima del vero e proprio inizio vorrei ritirarmi un poco a scrivere qualche parola soltanto per me, e una volta preso l’aire presentarmi poi in pubblico. Freddo e caldo si alternano in me con l’alternarsi delle parole entro il periodo, sogno un’ascesa e discesa melodica, leggo periodi di Goethe quasi percorrendo con tutto il corpo gli accenti» (D, 334).

[19] Theodor W. Adorno, Prismi, Einaudi, Torino 1972, p. 273.

[20] Victor Zmegac, Geschichte der deutschen Literatur vom 18. Jahrhundert bis zur Gegenwart, Band II/2 1848-1918, Athenäum, Königstein/Ts. 1980, p. 460.

[21] In un’altra lettera, indirizzata all’editore Kurt Wolff (L, 175) Kafka definisce La condanna «più poesia che racconto».

[22] «Mi hai letto tre brani del romanzo. La musica del primo, la netta chiarezza del terzo mi entrarono nel cuore senz’altro come un soffio di felicità» (L, 229).

[23] «Ho ricevuto Jenufa. Leggere è come ascoltare una musica. Il testo e la musica hanno dato il contributo essenziale, tu poi hai tradotto in tedesco da vero gigante. Come hai fatto a ispirare tanta vita nelle ripetizioni?» (L, 213).

[24] «Della vita che faccio qui sono contento - scrive a Oskar Baum - ... La tranquillità però della quale ti informi particolarmente non c’è nemmeno qui e io smetterò di cercarla ancora in questa vita. La mia camera è veramente in una casa tranquilla ma di fronte c’è l’unico pianoforte di tutta la Boemia nord-occidentale, in un grande cortile dove gli animali schiamazzano uno più dell’altro. La mattina passano qui davanti quasi tutti i veicoli del luogo e tutte le oche corrono allo stagno. Il peggio però sono, non so dove, due battitori, l’uno pesta legno, l’altro metallo, instancabile specialmente il primo il quale eccede, lavora più di quanto non gli consentano le proprie forze, ma io non posso aver pietà di lui se devo ascoltarlo fin dalle sei del mattino. Quando poi smette un poco, lo fa soltanto per cedere il posto a quello che batte il metallo» (L, 197).

[25] Si veda a questo proposito la brillante esposizione del problema da parte di Arthur Schopenhauer Über Lärm und Geräusch, in Parerga und Paralipomena II.

[26] Si veda a questo proposito ciò che accade nel Castello: «Dal ricevitore uscì un brusio come K. non aveva mai sentito al telefono. Era come se dal brusio di innumerevoli voci infantili - ma non era un brusio, era un canto di voci lontane, lontqnissime - come se da questo brusio si formasse, in modo che aveva francamente dell’impossibile, un’unica voce, acuta ma forte, che colpiva l’orecchio quasi chiedesse di penetrare più profondamente, oltre il misero organo dell’udito» (C, 22). «Lei ha già telefonato in questo paese, vero? Bene, allora forse mi capirà. Al castello il telefono funziona in modo perfetto, si sa; a quel che mi dicono là si usa in continuazione il telefono ... queste telefonate incessanti noi le sentiamo nei telefoni del paese come un canto e un brusio ... ma quel brusio e quel canto sono l’unica cosa esatta e degna di fede che i nostri telefoni ci trasmettono, tutto il resto è menzogna» (C, 73).

[27] Il concerto, tenuto alla sala Rudolfinum di Praga il 13 dicembre 1911 era dedicato a Brahms. Sotto la direzione del maestro von Keussler e con la collaborazione di Hans Pokorny, furono eseguite nella prima parte la Tragische Overtüre op. 81 in re minore, la Beherzigung op. 93a, doppio canone a cappella su testo di W. Goethe, la Nänie op. 82 su testo di E. von Schiller, il Gesang der Parzen op. 89 su testo di W. Goethe e nella seconda parte il Triumphlied op. 55 su testo dell’Apocalisse XIX.

[28] Si veda a questo proposito: Max Brod, Il circolo di Praga, cit., pp. 123-4.

[29] A questo proposito è illuminante ciò che Oscar Baum racconta sull’atteggiamento di Kafka verso i propri lavori letterari: «Mi è rimasta impressa l’epoca in cui Kafka scriveva un dramma del quale nessuno poté leggere neppure una parola (...) Terminato il dramma si rifiutò di leggercelo. Da vari suoi lavori precedenti, noi sapevamo che cosa pensare quand’egli dichiarava il dramma un fallimento; ma i nostri attacchi - i più cordiali come i più astuti e i più diretti - furono tutti rintuzzati. "L’unica cosa non dilettantesca in questo lavoro - diceva - è che non lo leggo". Esso era certo tra i molti manoscritti che prima della partenza per Berlino verso la morte, Kafka gettò lentamente nel fuoco l’uno dopo l’altro» (Max Brod, Il Circolo di Praga, cit., pp. 134-5).

[30] «Una volta feci un elenco particolareggiato di ciò che avevo sacrificato allo scrivere e di ciò che per amore dello scrivere mi veniva tolto o, meglio, la cui perdita era sopportabile soltanto con questa spiegazione» (LF, 26).

[31] «Quando penso che di musica, di questo amore dei miei migliori amici, non capisco quasi niente, mi prende sempre una sottile dolce-amara tristezza (...) E capisco quanto mi siano infinitamente lontani persino gli uomini più vicini». (G. Janouch, Colloqui con Kafka, in F. Kafka, Confessioni e Diari, cit., p. 1118)

[32] «Caro Oskar, anzitutto ti ringrazio dei doni stupendi. Quando penso che per aver sonato il pianoforte così bene e con tanta abnegazione non hai ricevuto altro che il piacere di sentirmi discorrere col signor R. (gli avrei trasmesso volentieri la tua comunicazione, ma non la capisco), e io invece vedo Ottla estrarre inaspettatamente dalla valigia queste due sorprese, meritate soltanto col mio piacere [ ...] mi accorgo (ancora una volta) che c’é nel mondo qualcosa che non va» (L, 265).

[33] Nella lettera a F. Weltsch della metà di ottobre 1917, Kafka racconta di aver sognato l’amico e scrive: «(...) dunque ti trasformasti e seguì un altro corso, meno minuzioso, un corso di musica diretto da un giovane di bassa statura, nero, con le guance rosse. Somigliava a un mio lontano parente che (fatto significativo per i miei rapporti con la musica) fa il chimico e probabilmente è matto» (L, p. 221).

[34] Sui rapporti tra Kafka e Werfel si veda l’articolo di Roger Bauer «Franz Kafka über Franz Werfel» in Franz Kafka. Themen und Probleme, a cura di Claude David, Vandenhöck und Ruprecht, Göttingen 1980, pp. 189 - 208.

[35] L’immagine della musica come metafora dell’amore è particolarmente ricorrente nelle lettere a Milena: «La tua lettera di lunedì mattina. Da quel lunedì mattina (...) da allora ti canto senza posa un’unica canzone che è continuamente diversa e sempre uguale, ricca come un sonno senza sogni, noiosa e sfibrante, di modo che io stesso talvolta mi ci addormento, sii contenta di essere salva per tanto tempo dalle mie lettere» (L, 816).

[36] «Tu sai» scrive a Felice «che non ho mai capito i fiori e anche ora in fondo li so apprezzare solo quando vengono da te e anche in questo caso li apprezzo solo attraverso l’amore tuo per i fiori. Fin dall’infanzia ho avuto periodi nei quali ero quasi infelice perché non avevo alcuna comprensione per i fiori. Questa mancanza coincide in parte con la mia mancata comprensione della musica, spesso infatti ho avvertito questo rapporto. Si può dire che non vedo la bellezza dei fiori, una rosa mi lascia freddo, due sono troppo monotone, le composizioni di fiori mi sembrano sempre arbitrarie e inutili (...) Forse non vi avrei nemmeno fermato l’attenzione, non avrei notato di essere così estraneo in mezzo ai fiori se alla fine del liceo non avessi avuto un buon amico (...) che senza essere particolarmente accessibile a impressioni delicate, anzi essendo senza orecchio musicale, aveva un tale amore per i fiori che (...) questo amore, dico, lo trasfigurava addirittura e (...) lo faceva parlare diversamente, direi quasi in tono più sonoro» (LF, 328-9).

[37] La «consanguineità» con Grillparzer, che Kafka rileva nella lettera del 2. 9. 1913 a Felice, (LF, 471), è particolarmente evidente nei Diari, in cui i paragoni di carattere sia spirituale sia autobiografico con lo scrittore viennese sono molteplici.

[38] In una lettera indirizzata a Grete Bloch si legge: «Bello Il povero musicante vero? Ricordo averlo letto una volta alla mia sorella minore come non ho mai letto altre cose. Ne ero talmente compreso che non c’era posto in me per errori di accentazione, di respiro, di suono, di compassione, di comprensione, prorompeva con una quasi sovrumana naturalezza, ero felice di ogni parola che pronunciavo. Ciò non si ripeterà più, non avrei mai più il coraggio di pronunciarlo un’altra volta» (LF, 573).

[39] Durante il periodo più difficile del fidanzamento con Felice, Kafka ha un lungo scambio epistolare con Grete Bloch, nel periodo in cui quest’ultima è impiegata a Vienna, la città di Franz Grillparzer. Di qui l’occasione per i molteplici riferimenti alla vita e alle opere dello scrittore viennese, con cui sente di avere in comune anche una travagliata vita sentimentale.

[40] Il rapporto con la musica di Jakob prima rifiutato perchè imposto dalla famiglia, quindi riscoperto con le proprie libere improvvisazioni, ricorda da vicino quello di Grillparzer, come risulta dall’Autobiografia (Franz Grillparzer, Autobiografia, Guanda, Milano 1979, pp. 65-67).

[41] La musica è per Jacob «la bevanda che ci viene da Dio» (Franz Grillparzer, Il povero musicante, a cura di Eugenio Spedicato, SE, Milano 1990, p. 32).

[42] Negli anni in cui, non contento della prima stesura, Kafka rimette mano a molte parti di Descrizione di una battaglia, vedono la pubblicazione alcune opere degli amici Brod e Baum in cui la musica assume una funzione poetica di rilievo: nel 1908 Max Brod pubblica il romanzo Schloß Nornepygge, fortemente influenzato da una concezione allora corrente del pessimismo schopenhaueriano. Nello stesso anno Oskar Baum pubblica i racconti Uferdasein e l’anno successivo il romanzo Das Leben im Dunkeln.

[43]A partire dalla seconda metà dell’ottocento Arthur Schopenhauer era anche a Praga il filosofo più letto dagli intellettuali e dagli artisti di lingua tedesca. Kafka, come risulta anche da alcune osservazioni (si veda il Frammento filosofico del 1906) conosceva gli scritti del filosofo, del quale, inoltre, possedeva l’opera omnia. L’occasione del primo incontro tra Kafka e Brod è proprio una conferenza di quest’ultimo su Schopenhauer - «Schicksale und Zukunft von Schopenhauers Philosophie» - avvenuta il 23 ottobre 1902 nella Lese- und Rede Halle der deutschen Studenten in Prag. (Si veda a questo proposito Max Brod, Vita battagliera,Il Saggiatore, Milano 1967, pp. 180-81).

L’approccio di Kafka all’opera di Schopenhauer fu comunque di carattere esistenziale ed estetico più che teoretico speculativo. Gustav Janouch racconta che Kafka gli regalò un giorno il volume di Schopenhauer Sul mestiere dello scrittore e sullo stile. Kafka riteneva infatti Schopenhauer «un artista del linguaggio. Di lì scaturisce il suo pensiero. Non fosse altro che per la lingua, lo si deve leggere assolutamente» (D, 1099).

[44] Sul rapporto tra musica e digiuno si veda l’interessante articolo di Heinz Politzer Die Verwandlung des armen Spielmann. Ein Grillparzer-Motiv bei Franz Kafka, in «Jahrbuch der Grillparzer-Gesellschaft», 3, 1965, pp. 55-64.

[45] Il titolo del romanzo inedito previsto da Kafka era Der Verschollene (Il disperso). Fu Max Brod nella prima edizione postuma del 1927 a intitolarlo Amerika.

[46] Si noti che gli strumenti prediletti dai personaggi di Kafka sono sempre il violino e il pianoforte, ovvero gli strumenti che lo stesso Kafka aveva imparato a suonare.

[47] Molti critici hanno paragonato a questo proposito il romanzo America al film di Charlie Chaplin Tempi moderni.

[48] Ernst Weiss, Ernest Shackleton, in Das Unverlierbare, Berlin, 1928, pp. 175-76; trad it. di Paolo Corazza in: Klaus Wagenbach, Kafka. Biografia della giovinezza, Einaudi, Torino 1972, p. 30.

[49] Già Max Brod, nel 1916, in un articolo apparso sulla rivista «Der Jude» osservava che il tema principale, anzi l’unico, delle opere di Kafka era «der isolierte Mensch» (Max Brod, Unsere Literaten und die Gemeindschaft, in «Der Jude», I Jahrgang, Heft 7, Oktober 1916, p.463).

[50] J. Malcom S. Pasley, Introduction, in Franz Kafka, Der Heitzer, In der Strafkolonie, Der Bau, Cambridge, 1966.

[51] «Es war der Beginn der kulturellen Amerikanisierung Mitteleuropas». Richard Rosenheim, Die Geschichte der deutschen Bühnen in Prag, Mercy Sohn, Prag, 1938, p. 207.

[52] I possibili riferimenti a fatti riguardanti i famigliari di Kafka sono stati analizzati nel volume di Anthony Northey, Kafkas Mischpoche, Berlin, Klaus Wagenbach Verlag, 1988 (trad. it.: I Kafka. Storie e immagini di famiglia, Milano, Garzanti, 1990).

[53] Sulle fonti riguardanti il romanzo America si veda il volume di Alfred Wirkner, Kafka und die Außenwelt: Quellenstudien zum "Amerika" - Fragment, Stuttgart, Klett, 1976.

[54] I resoconti di viaggio di Artur Holitscher appaiono a partire dall’autunno del 1911 nella rivista «Die Neue Rundschau». Nel 1912 vengono pubblicati in volume con il titolo Amerika, heute und morgen, Berlin, S. Fischer Verlag. Nella biblioteca di Kafka si trova un esemplare dell’edizione del 1913.

[55] Il 1°giugno 1912 Kafka, come riportato nei Diari del giorno successivo, partecipa a una conferenza del socialista František Soukup che riferiva su un viaggio di quattro mesi, dall’ottobre 1911 al gennaio 1912, negli Stati Uniti. Il contenuto della conferenza era stato pubblicato dall’autore nell’aprile dello stesso anno in un volume tascabile: Amerika, Rada Obrazù Amerického Zivota, Praha, 1912.

[56] Cfr. Alfred Wirkner, cit., p. 79.

[57] «Ich bin von allen Dingen durch einen hohlen Raum getrennt, an dessen Begrenzung ich mich nicht einmal dränge» (Franz Kafka, Tagebücher, p. 194).

[58] «Ultimamente ho notato con mio stupore quanto Lei sia imparentata col mio scrivere, benché fino allora avessi creduto che proprio durante lo scrivere non pensavo minimamente a Lei. In un breve periodo che avevo scritto si trovavano tra l’altro le seguenti relazioni con Lei e con le Sue lettere: qualcuno riceveva in dono una tavoletta di cioccolata. Si parlava di piccoli diversivi che uno aveva durante il suo servizio. Più tardi c’era una chiamata al telefono e infine uno spingeva un altro ad andare a dormire e minacciava, se non obbediva, di condurlo sino in camera sua, e ciò era certamente un ricordo della stizza che Sua madre ebbe quando Lei restò così a lungo in ufficio. - Fatti di questo genere mi sono particolarmente cari» (LF, 26-27).

[59] Sul significato simbolico o allusivo dei nomi nell’opera di Kafka si veda di Gerhard Kurz, Figuren, in Hartmut Binder (a cura di) Kafka-Handbuch, II: Das Werk und seine Wirkung, A. Kroner Verlag, Stuttgart, 1979, p. 122.

[60] Cfr. Heinz Politzer, Franz Kafka. Der Künstler, Suhrkamp, Frankfurt am Mein 1965, p. 244.

[61] Anche Holitscher nel suo resoconto, sebbene con tono di rammarico, mette in rilievo il declino a cui vanno incontro nel repertorio teatrale del teatro tedesco negli Stati Uniti autori ormai classici come Richard Wagner: «Anni fa, così ho sentito dire, il Dr. Baumfeld ha fatto l’ultimo lodevole tentativo di far rappresentare per i tedeschi di New York i classici e un repertorio moderno di qualità da bravi attori e con un’adeguata messinscena. Oggi però, durante stagione invernale 1911/12 nel suo teatro sono le più riprovevoli e detestabili oscenità francesi a venir offerte agli applausi scroscianti degli americani di lingua tedesca» (Artur Holitscher, Amerika, heute und morgen, Berlin, S. Fischer Verlag, 1912, p. 415).

[62] Per la storia dei primi «Maifestspiele», nati a partire dal 1899 sotto la direzione di Neumann, si veda il volume di Ludwig Seipp, Die Prager Maifestspiele , Verlag des Königl. deutschen Landestheater, Prag 1909.

[63] Richard Rosenheim, cit., p. 61: «... das "Gentlemen-Agreement", das Neumann mit seinem Kollegen Šubert schloß. Danach hatte das Tschechische Theater die Vorhand für französische und italienische, das deutsche Landestheater die Vorhand für deutsche Novitäten».

[64] Si veda a questo proprosito il fondamentale studio di Jitka Ludvová, Nemecký Hubdení Zivot v Praze 1880 - 1939, «Umenovedné Studie IV», Praha, 1983.

[65] «... die betäubende Narkose der Wagnerschen Musik, der alles verfallen war»: Willy Haas, Die Prager deutsche Gesellschaft vor dem Weltkrieg, «Prager Montagsblatt», 27. 12. 1937.

[66] Max Brod, Die Rosenkoralle. Ein Prager Roman, Eckart Verlag, Witten/Berlin, 1961.

[67] Max Brod, Die Rosenkoralle, cit., pp. 150-52.

[68] Max Brod, Die Rosenkoralle, cit., p. 146.

[69] Si veda al proposito sul «Prager Tagblatt» la pomposa descrizione della festa in occasione del 25° anniversario della fondazione del teatro, avvenuta il 5 gennaio 1913 (Wenzel von Belsky, Das Jubiläum des Neuen Deutschen Theater, «Prager Tagblatt», 7. 1. 1913, p. 3). Lo stesso fenomeno appare in Germania dove, all’inizio del XX secolo, cresce la tendenza a identificare Wagner con le nuove tendenze imperialiste di Guglielmo II. Sono gli stessi intellettuali a sviluppare il parallelo tra Wagner e la politica guglielmina incoraggiati in ciò dal fatto che Wagner è il compositore prediletto dell’entourage del Kaiser. A questo proposito si veda: David C. Large - William Weber, Wagnerism in European Culture and Politics, Cornell University Press, Ithaca/London, 1984, p. 297.

[70] I giovani artisti e intellettuali di entrambe le nazionalità hanno in Mahler il loro nuovo punto di riferimento. Tra loro vi sono anche i rappresentanti del «Circolo di Praga». Max Brod e Oskar Baum in occasione della prima esecuzione della Seconda Sinfonia di Mahler, in preda all’entusiasmo, scrivono un biglietto di ringraziamento al direttore dell’Opera di Vienna. Alcuni degli articoli del volume Über die Schönheit häßlicher Bilder, pubblicato da Max Brod nel 1913 sono dedicati al compositore boemo. Lo stesso Kafka nei Diari e nelle Lettere fa più volte riferimento alla figura di Mahler come uomo e come artista.

L’entusiasmo per Mahler ha un carattere assai diverso dal precedente culto per Wagner: in esso è infatti assente qualsiasi accento nazionalistico. «Il cambiamento da Wagner a Mahler significa più che un semplice cambiamento di gusto. Si potrebbe pensare a un mutato atteggiamento verso la vita» (Jitka Ludvová, cit., pp. 179-80;trad. ted. di Valter Kraus).

I contatti tra i giovani artisti tedeschi e cechi per la creazione di una vita culturale unitaria nella città sono sempre più frequenti. Max Brod, una delle personalità di spicco tra i giovani artisti praghesi scrive, nel 1907, a proposito di alcuni giovani pittori: «tedeschi e cechi si sono qui riuniti assieme, otto artisti senza riguardo alla loro nazionalità. Qui a Praga, la sede centrale di questa battaglia, dove non solo circoli del gioco dei birilli, ma anche circoli letterari si riuniscono all’ombra di bandiere di colore nazionale ... Appare difficile a un non praghese seguire le divertenti e delicate sfumature della nostra società linguisticamente divisa, che con grande fervore sostiene le persone di talento, sottolineando sempre solo ciò che tende a tenere separate le due stripi, mai ciò che le unisce ... tuttavia a Praga non si può più parlare di una nazione puramente tedesca e di una puramente ceca, ma solo di praghesi, degli abitanti di questa città magnifica e ricca di mistero. È iniziata una fusione, il sangue si è mischiato, relazioni culturali ed economiche superano i confini ...Il concetto di razza è instabile ... Si potrebbe obiettare: e la lingua! ... Ma no, anzi, i tedeschi parlano in modo rigido, per l’appunto "boemo", i cechi solo da poco e senza alcun duraturo effetto hanno depurato la loro lingua dai germanismi ... E più influente di ogni altra cosa si afferma l’ambiente dell’antica e bella città, il vivere assieme ormai da molte generazioni» (Max Brod, Frühling in Prag, «Die Gegenwart», Berlin, 1907, p. 316).

[71] Hans Effenberger, Prager Musikverhältnisse, in «Wir. Deutsche Blätter der Kunste», Prag, Heft 2, Mai 1906, p. 12.

[72] Richard Batka scrisse diversi articoli su Wagner anche per il periodico «Der Kunstwart» al quale Kafka fu regolarmente abbonato dal 1900 sino al 1904.

[73] Richard Rosenheim, cit., p. 166.

[74] Felix Adler, Dreißig Jahre nach Wagner, «Bohemia», 13. 1. 1913, p. 3.

[75] Max Brod, Die Rosenkoralle, cit., p. 152.

[76] «(Neumann) fondò il Teatro wagneriano ... e con il suo teatro e con lo scenario delle prime rappresentazioni di Beyreuth che noi utilizziamo ancora oggi , dopo più di quarant’anni, rimodernato solo in parte e con poche modifiche, fece rappresentare il Ring in tutte le più importanti città della Germania». Heinrich Tewelws, Theater und Publikum, Gesellschaft deutscher Bücherfreunde in Böhmen, Prag, 1927, p. 92.

[77] Richard Rosenheim, cit., p. 116.

[78] «Riguardo all’aspetto scenico e drammatico è ceramente indispensabile una revisione ... Non è necessario un grande lavoro per sostituire il cielo sporco, bucato e pieno di pieghe che spunta sopra la Schelda nel primo e nell’ultimo atto, con un altro dal colore adeguato». Gisela Wien - Steinberg, Lohengrin, «Prager Abendblatt», 16. 1. 1912.

[79] «Una nuova messinscena secondo principi moderni ... sarà necessaria in un tempo più o meno breve, poichè le vecchie decorazioni nonsaranno utilizzabili ancora a lungo». Felix Adler, Die Maifestspiele.II. Rienzi, «Bohemia», 9. 5. 1910, p. 1.

[80] Heinrich Teweles, cit., p. 191. Al proposito si vedano anche le critiche di Max Brod sul «Prager Abendblatt» Das Rheingold (20. 6. 1921) e Siegfrid (4. 1. 1922).

[81] Cfr. Richard Rosenheim, cit., pp. 158-160.

[82] Max Brod, Die Rosenkoralle, cit., p. 154.

[83] Zemlinsky viene invitato regolarmente come direttore ospite a dirigere l’Orchestra Filarmonica Ceca, ed è stimato dai praghesi di entrambe le nazionalità, in particolare come interprete della musica di Mahler.

[84] «Nel repertorio teatrale di Zemlinsky Wagner assunse presto la posizione di un male inevitabile». Jitka Ludvová, cit., p. 179.

[85] Heinz Politzer, Franz Kafka. Der Künstler, cit., p. 244.

[86] August Stenzelmüller, Richard Wagner, «März», 1909, pp. 246-247.

[87] Contrariamente alla descrizione di Kafka, Soukup osserva nel suo roseconto che nei palazzi al di fuori di New York non è invalso l’uso di appartamenti col balcone (Alfred Wirkner, cit., p. 75).

[88]Forte è la somiglianza di questa descrizione, con il contenuto degli spettacoli teatrali che, secondo Holitscher, in quel periodo erano i più apprezzati dal pubblico americano: «Il teatro americano d’oggi sembra aver indossato la divisa: nessuna emozione, nulla che possa disturbare la tranquillità; affari e politica di giorno, politica e affari la sera sul palcoscenico. In effetti, in tutti questi mesi ho visto in sei, sette varianti, sempre e continuamente lo stesso dramma». Arthur Holitscher, cit., p. 412.

[89] Il clichè della cantante come donna di facili costumi era comunque abbastanza diffuso. Esso si ritrova anche in una lettera di Kafka a Brod, in cui lo scrittore riferisce del contenuto della conferenza di un medico: «Ultimamente ha spiegato che la respirazione addominale contribuisce alla crascita e allo stimolo degli organi genitali, per cui le cantanti d’opera che si limitano soprattutto alla respirazione addominale sono così scostumate. Ma può anche darsi che proprio loro siano costrette alla diretta respirazione toracica. Prendila come vuoi!» (L, 115-116).

[90] «È come una vita tra le quinte. Ora è chiaro, ecco una mattina all’aperto, poi subito scende l’oscurità ed ecco che è già sera. Non è una frode complicata, ma ci si deve adattare, finché si calca la scena. Si può solo evadere, se se ne ha la forza, verso il fondale, tagliare il telone e, fra brandelli di cielo dipinto, scavalcando vecchi attrezzi, fuggire nel vicoletto reale, stretto, buio, umido, che si chiama ancora sempre, data la vicinanza del teatro, Vicolo del Teatro, ma che pure è reale e ha tutte le profondità del vero» (Frammenti, in D, 938).

[91] Il motivo delle trombe che suonano ognuna per conto proprio producendo un insieme di suoni spaventoso ritorna anche nel Castello: «Il baccano era spaventoso, non semplicemente quello che di solito c’è alle feste. Il castello aveva infatti regalato al corpo dei pompieri alcune trombe, speciali strumenti dai quali con il minimo sforzo - ne sarebbe stato capace un bambino - si potevano produrre i suoni più brutali ... E poiché le trombe erano nuove, tutti volevano provarle, e siccome era una festa popolare, li lasciavano fare ... era difficile non perdere la testa» (C, 191 - 92).

[92] La solitudine alla quale Karl (che sa suonare la tromba meglio di tutti gli angeli) va incontro anche a Oklahoma è ulteriormente sottolineata dal nuovo nome che egli sceglie di assumere: «Negro». Nessuno chiede a Karl ragione del suo falso nome, poiché non è rilevante conoscere davvero chi andrà a recitare un determinato ruolo. Il nuovo nome di Karl, del resto, rappresenta tutta la carriera del giovane in America, segnata dall’annullamento progressivo della propria identità. Karl, convinto di essere impiegato come attore, alla fine viene infatti assunto come operaio meccanico: «Negro, operaio meccanico» (A, 235).

Il nome Negro, del resto, fa rammentare una foto apparsa nel volume di Holitscher sull’America, in cui si rappresenta il totale annientamento della persona umana, ovvero l’impiccagione di un uomo di colore con la didascalia «Idyll aus Oklahama» (Arthur Holitscher, cit., p. 367). Holitscher, nel capitolo «Der Neger», fa anche alcune osservazioni sui sentimenti di simpatia tra i neri e gli ebrei, le cui condizioni, per certi aspetti, sono assai simili. Il parallelismo tra neri ed ebrei è presente in diverse occasioni. Lo troviamo, ad esempio, anche nel romanzo di Ludwig Winder precedentemente citato, Die judische Orgel: in quanto appartenenti a categorie reiette essi si trovano impiegati come portieri in un bordello di Vienna.

[93] Kafka scrive questo capitolo (il cui titolo è di Max Brod) tra il 5 e il 18 ottobre 1914.

[94] Il concerto, organizzato dal Kammermusikverein, si era tenuto il 24 febbraio 1913 nella sala da concerto Rudolfinum.

[95] Der Schönberg-Abend, «Montagsblatt», 3. 2. 1913.

[96] Gisela Wien Steinberg, Der Kammermusikverein, «Prager Abendblatt», 25. 2. 1913

[97] Wenzel von Belsky, Arnold Schönberg im Kammermusikverein, «Prager Tagblatt», 25. 2. 1913.

[98] Felix Adler, Schönbergs "Pierrot lunaire", «Bohemia», 25. 2. 1913.

[99] Ivi.

[100] Si vedano a questo proposito, tra le altre, le critiche di quei concerti recensite da Max Brod sul «Prager Abendblatt» e da Oskar Baum sulla «Prager Presse»..

[101] Su questo argomento si vedano: Ivan Vojtech, Der Verein für musikalische Privataufführungen in Prag, in Ernst Hilmar (a cura di), Arnold Schönberg. Katalog der Gedenkausstellung, Wien 1974, pp. 83-91; Alexander L. Ringer, Schönbergiana in Jerusalem, «The Musical Quarterly»Vol. LIX, n.1, gennaio 1973, pp. 1-14 e dello stesso autore Prague and Jerusalem, in Arnold Schönberg. The Composer as Jew, Clarendon Press, Oxford 1990, pp. 161-175.

[102] L’analogia tra alcune manifestazioni della nuova musica promossa da Schönberg e le metafore musicali presenti nell’opera di Kafka è da vedere come espressione della dialettica di pensieri e atteggiamenti comuni che, sebbene non sempre direttamente documentabili, operano all’interno di un dato momento culturale. Si tenga comunque presente, come si è già precedentemente osservato, che in questi anni proprio i due amici di Kafka Max Brod e Oskar Baum, appartenenti al «Circolo di Praga ristretto», recensivano regolarmente tali avvenimenti musicali rispettivamente sul «Prager Abendblatt» e sulla «Prager Presse».

[103] Max Brod, Arnold Schönberg "Gurre-Lieder", «Prager Abendblatt», 7. 6. 1921, successivamente pubblicato insieme ad altre recensioni dell’autore nella raccolta Sternenhimmel, Wolff, München 1923, che Kafka conosceva molto bene.

[104] «Un filo di paglia? Più d’uno si tiene a galla aggrappandosi a una riga di matita. Si tiene a galla? Sogna, affogando, una salvezza» (Frammenti, in D, 971).

[105] Si veda a questo proposito il riferimento al Pierrot Lunaire di Schönberg in Wolf Kittler, His master’s voice. Zur Funktion der Musik im Werk Franz Kafkas, in Wolf Kittler, Gerhard Neumann (a cura di) Franz Kafka Schriftverkehr, Rombach, Freiburg 1990, pp. 389-390.

Si vuole inoltre osservare che il Pierrot Lunaire, l’opera che più di ogni altra aveva portato Schönberg alla notorietà, dopo le recenti esecuzioni praghesi del 1921 e 1922, nei primi mesi del 1924 vede una sua esecuzione in diverse città europee. In particolare, il 5 gennaio 1924 viene eseguito nella Singakademie di Berlino, città in cui a quel tempo Kafka si era trasferito, in un concerto organizzato dalla sezione tedesca della Internationale Gesellschaft für neue Musik insieme alla Melos Gemeindschaft, sollevando ancora una volta contrastanti giudizi da parte della critica. Si vedano al proposito la recensione di Walter Hirschberg, il quale, tra l’altro, scrive: «Il cammino qui intrapreso è stato in grado di condurre solo alla più completa sterilità» («Signale für die musikalische Welt», 16. 1. 1924, p.76), e quella di Sigmund Pisling, che osserva invece: «Se Schönberg avesse composto anche solo "die Nacht", in cui una nuova malinconia si fa evento di un nuovo modo di sprofondarsi nei profumi dell’animo umano, ci si dovrebbe inchinare di fronte a lui come di fronte a un grande» (Beiblatt des «8 Uhr-Abendblatt der National Zeitung», 7. 1. 1924).

[106] Giacomo Manzoni, Arnold Schönberg, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 84-85.

[107] Alexander L. Ringer, Prague and Jerusalem, in Arnold Schönberg. The Composer as Jew, cit., p. 163.

[108] Nel luglio 1922 Kafka scrive a Max Brod: «Lo scrivere mi sostiene, ma non sarebbe più esatto dire che sostiene questa specie di vita? Naturalmente con ciò non voglio dire che la mia vita sia migliore se non scrivo. Anzi, in tal caso è molto peggiore e del tutto insopportabile e deve sfociare nella pazzia. Certo però soltanto a condizione che io, come è di fatto, anche quando non scrivo sia scrittore, ma uno scrittore che non scrive è un mostro che provoca la pazzia» (L, 458).

[109] «L’arte si auto-oblia, si auto-sopprime: ciò che è fuga si fa passare per passeggiata, o addirittura per assalto» (Otto quaderni in ottavo, in D, 727).

[110] Un narratore non può parlare dell’arte di narrare. O racconta o tace, ecco tutto. Il suo mondo comincia a dare vibrazioni sonore dentro di lui, oppure sprofonda nel silenzio. Il mio mondo sonoro si spegne. Sono bruciato e consumato» (Gustav Janouch, Colloqui con Kafka, in D, 1124).


La fotografia di Kafka a cinque anni nel titolo e i disegni di sua mano nel testo sono stati tratti dal "Franz Kafka Photo Album webmastered by Yacov Eckel"

Il presente saggio è stato pubblicato in "Materiali di estetica", CUEM, Milano, maggio 1999, pp. 100-140


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