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MARINO FRESCHI

LA VIENNA DI FINE SECOLO
L'età d'oro della letteratura austriaca

FONTE

«Eravamo destinati a morire. Eravamo liberi soltanto di scegliere come, e scegliemmo la via più spaventosa» (Taylor, 313). Così commenta il crollo dell'impero il conte Ottokar Czernin, uno degli ultimi ministri degli esteri della monarchia asburgica, interpretando il senso di fine, di cordoglio annunciato e mescolato con una disperata, impaziente voglia di inebriarsi per sfuggire a una responsabilità storica e alla drammatica consapevolezza di un destino irreversibile. Si è discusso a lungo sulla possibilità di sopravvivenza dello Stato danubiano e sulle cause della sua dissoluzione. La sua necessità storica per l'equilibrio geopolitico della Mitteleuropa è stata paradossalmente dimostrata a posteriori e mai come in questo violento scorcio di secolo si comprende come il caos balcanico richiederebbe un'istanza politica superiore alle indistricabili contraddizioni confessionali, nazionali e perfino etniche della regione.

Solo una cultura statale comprensiva delle ambizioni particolaristiche e attenta alle differenze locali e al tempo stesso distinta e svincolata dagli interessi delle realtà singole può pretendere il rispetto e il consenso per uno Stato che trascenda le tentazioni egemoniche legate a un solo soggetto politico. Con tutti i limiti e le antinomie storiche, siffatta azione armonizzatrice è stata esercitata dalla Casa d'Austria, dalla plurisecolare dinastia asburgica che ha ispirato una cultura sostanzialmente estranea al nazionalismo, alla pretesa di dominio particolaristico, spiritualmente distante dalla hybris, dalla sopraffazione etnica. Il preannunciato crollo dell'impero si spiega con lo scarto storico tra l'ondata montante dei nazionalismi, che agiscono in profondità da forza centrifuga irrefrenabile dello Stato asburgico, e l'irreversibile corrosione interiore, la mancanza di una idea politica aggregante. I circoli politici e culturali asburgici avvertono l'urgenza di proporre una «idea austriaca» per salvare la credibilità dello Stato, anzi più ci si avvicina alla fine, più si sfornano idee austriache vieppiù velleitane, effimere, prive di un ancoraggio storico, di un effettivo radicamento con le varie realtà culturali. Gran parte dell'Uomo senza qualità tematizza con graffiante ironia, amaro sarcasmo e affettuosa nostalgia questa incapacità di sciogliere il nodo gordiano del complicato garbuglio balcanico-danubiano.

Il romanzo di Musil rispecchia quella parossistica ricerca di possibili soluzioni che si rivelano subito impraticabili e che sulla movimentata scena politica austroungarica vengono avanzate perfino dagli avversari come da Radic, il leader del partito contadino croato in lotta contro l'ottusa egemonia ungherese. Anche lui finisce per proporre una vaga «idea austriaca» per una monarchia «non più tedesca, né magiara e neppure slava, ma cristiana, europea e democratica» (Taylor, 301), mentre al fautore del risveglio nazionalistico ceco, Frantisek Palacky si deve la famosa, proverbiale affermazione sull'Austria che se non ci fosse, sarebbe necessario inventarla. L'ultimo secolo di vita dell'impero comprende quell'arco di tempo che va dal Congresso di Vienna del 1815, architettato dall'abile regia del principe Metternich, fino alla negazione di quel sistema di delicati equilibri diplomatici, distrutto nel '14 dall'aggressiva politica suicida austriaca. Fino al fatidico attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914, che causa la morte del pretendente al trono asburgico Francesco Ferdinando e di sua moglie, la politica viennese consiste essenzialmente nell'arcanum imperii circoscritto dal 'fortwursteln', dal «tirare a campare», l'unica strategia ancora possibile, secondo i politici viennesi, per evitare la dissoluzione dello Stato. E in compenso siffatta strategia si riverbera in un modo di vita mirato a smussare ogni tensione e a rendere la vita piacevole, o meno ingrata di quanto talvolta possa apparire e in quest'arte i viennesi si sono dimostrati eccellenti maestri, tanto da guadagnarsi per il loro saper vivere l'appellativo di feaci (Magris, 1963, 30-31). Un testimone della garbata eleganza del comportamento civile che connota quel clima di reciproca tolleranza è Stefan Zweig nel Mondo di ieri,

quando rievoca malinconicamente la Vienna della propria giovinezza:

Si viveva bene, si viveva con facilità e spensieratezza in quella vecchia Vienna e i tedeschi del nord guardavano noi vicini del Danubio con un poco d'irritazione e di disprezzo, perché invece di essere «attivi» e di tenere un rigido ordine, godevamo la vita, mangiavamo bene, ci divertivamo a feste e teatri e per di più facevamo ottima musica. Invece della famosa abilità ed attività tedesca, che ha finito per amareggiare e per turbare l'esistenza di tutti gli altri paesi, invece di questa cupida smania di sorpassare tutti gli altri e di correre avanti, a Vienna si amavano le placide chiacchierate, i comodi incontri, lasciando che ognuno vivesse a modo suo, con indulgenza bonaria e forse un po' pigra. «Vivere e lasciar vivere» era il celebre motto viennese, una massima che ancor oggi mi sembra più umana di tutti gli imperativi categorici e che si diffuse irresistibilmente in tutti gli ambienti. Poveri e ricchi, slavi e tedeschi, ebrei e cristiani vivevano insieme, pur punzecchiandosi all'occasione, in buona pace e persino i movimenti politici e sociali erano privi di quell'animosità crudele che è penetrata nella circolazione sanguigna del mondo come un sedimento velenoso rimasto dalla prima guerra mondiale. Nella vecchia Austria ci si combatteva ancora cavallerescamente, ci si insultava nei giornali o alla Camera, ma dopo le concioni ciceroniane gli stessi deputati sedevano in compagnia bevendo la birra o il caffè e dandosi del tu. Persino quando Lueger, capo del partito antisemita, divenne borgomastro di Vienna, nulla si mutò nei rapporti privati e io personalmente debbo dichiarare di non aver mai come ebreo incontrato il più piccolo ostacolo o segno di dispregio, né nella scuola né all'università né nella mia vita letteraria. L'odio da paese a paese, da popolo a popolo, da tavola a tavola non balzava fuori ogni giorno da ogni giornale, non staccava uomo da uomo e nazione da nazione. Il senso di massa e di gregge non aveva raggiunto nella vita pubblica la ripugnante potenza che ha oggi; la libertà dell'agire privato era considerata - cosa oggi appena concepibile legittima e sottintesa; la tolleranza non veniva come oggi disprezzata e ritenuta debolezza, ma esaltata quale energia morale.
Non fu un secolo di passione quello in cui io nacqui e fui educato. Era un mondo ordinato, con chiare stratificazioni e comodi passaggi, era un mondo senza fretta. Il ritmo della nuova velocità non si era ancora propagato dalle macchine, dall'automobile, dal telefono, dalla radio e dall'aeroplano sino all'uomo: il tempo e l'età avevano altre misure. Si viveva più comodamente
(Zweig, 26-27).

In realtà la struggente rammemorazione del mondo di ieri da parte di Zweig è un autentico lavoro al mito di Vienna. In realtà la città è stata negli stessi anni un laboratorio del razzismo antisemita, in cui si è formato Hitler, che frequenta la massa disgregata del sottoproletariato urbano, contagiato dalle nuove ideologie totalitarie. Le antinomie della politica asburgica lasciano affiorare quello che Broch ha chiamato «un radicale vuoto-di-valori» (Broch, 65),

caratterizzato da un diffuso edonismo, che si sublima in una cultura estetica quale surrogato di una autentica tensione spirituale. Il romanziere ebreo viennese analizza lucidamente lo sfacelo interiore della civiltà austriaca partendo proprio da questa prospettiva, tracciata con ampiezza e con un ironico, graffiante disincanto verso il mito imperiale e verso tutte le leggende che circolavano intorno alla figura del vecchio sovrano:

Dove invece [...] il pensiero politico manca del tutto, o perché non ancora sviluppato o perché già atrofizzato, la categoria dell'estetico acquista un rilievo di primo piano. Questa particolare valorizzazione dell'estetico non produce, se non in casi eccezionali, una autentica fioritura artistica ma provoca una propensione crescente alla ornamentazione e alla decorazione della vita, e alla fine quella specifica indifferenza etica che, come antitesi della iconoclastia, si esprime nel mero edonismo, nella esclusiva ricerca del piacere. Non vi è dubbio che la Vienna della fine del secolo diciannovesimo, ormai divenuta inetta alla politica, abbia pagato il suo tributo a questa propensione.
Sollecitato dalla fioritura di Vienna nell'ultimo terzo del secolo, il costume dell'alta aristocrazia si muoveva già in questo senso e proponeva a tutti l'imitazione del proprio indirizzo. Ciò che per secoli la Controriforma dei gesuiti aveva cercato di ottenere senza riuscirvi, ciò che aveva tentato di ottenere la politica asburgica educata alla sua scuola e infine Metternich prima del '48 (e cioè la formazione in tutta l'Austria di una massa di popolo il più possibile spoliticizzata, il più possibile innocua, dedita unicamente ad un semplice e sereno godimento della vita e dei suoi pacifici valori estetici) lo si era improvvisamente ottenuto ora, sebbene in ritardo e inutilmente, a Vienna e nella sua regione. Dall'arciduca fino al cantante popolare, ma anche dal grande borghese fino al proletario, tutti inclinavano all'edonismo; l'edonismo era appunto la base del loro «stile democrazia», uno stile che pur lasciando intatte le differenze sociali, legava l'aristocrazia al popolo, consentiva la loro reciproca comprensione e li induceva a quella «cordiale» confidenza così tipicamente austriaca. Questo «stile democrazia» modellato sul comportamento del Kavalier era indubbiamente molto diverso da quello del gentleman inglese, poiché dietro a quest'ultimo stava un'autentica democrazia politica, mentre la struttura sociale dell'Austria non aveva niente a che fare con la democrazia politica. La mancanza di un sostrato reale in Austria, un paese dove nessuno poteva prendere sul serio nessuno perché non vi era nulla da prendere sul serio al di fuori della sostanza statale della corona, era destinata a sottrarre un qualsiasi contenuto anche alla struttura sociale. Questa assunse perciò il carattere di una specie di democrazia «alla gelatina», in cui se era il caso i conti erano capaci di assumere l'allure dei fiaccherai e i fiaccherai quella dei conti (lo status più adeguato a se stessa che l'Austria avesse conosciuto dalle sue origini in poi), che poteva reggersi e perdurare proprio perché la fioritura in corso teneva tutto sospeso.
Se mai è possibile una società senza Stato, ebbene questa era sorta in Austria: non solo perché la società austriaca, aristocratica e aristocraticizzante com'era, guardava al di là dei confini dello Stato, in una dimensione internazionale, ma soprattutto perché all'interno invece che con uno Stato aveva a che fare con una astrazione. Peraltro, questa entità astratta era pur sempre uno Stato o per lo meno un meccanismo statale ancora in funzione, e la società che, per quanto a-statale, continuava pur tuttavia ad appartenergli, doveva bene o male servirlo per impedire che si fermasse. In altri termini, sia la società sia la sua classe dominante (che potevano sopravvivere solo a patto che sopravvivesse l'Austria) non erano affatto disposte, a dispetto del loro edonismo tra l'estetico e il fatalistico, a suicidarsi e dovevano perciò, volenti o nolenti, adattarsi ad esercitare un minimo di interesse intellettuale e pratico nei confronti dello Stato.
Vi sono grandi civiltà estetiche - Vienna non apparteneva certamente a queste - nelle quali un solido sistema di valori etico-politici, per esempio quello della Chiesa medioevale o dell'assolutismo barocco francese, è diventato talmente ovvio da lasciar spazio ad un libero dispiegamento della produzione estetica ad esso subordinata; vi sono, all'opposto, decadenti civiltà estetizzanti - fase degenerativa della maggior parte dei grandi imperi, dall'antichità fino ad oggi - che in mancanza di un proprio valore etico centrale devono lasciarsi imporre le proprie leggi da un'autorità etica «esterna» o comunque «superiore». L'Austria apparteneva senza dubbio a questo secondo gruppo e poteva cercare i propri valori orientativi soltanto là dove poteva sperare di trovare il proprio contenuto e cioè nella singolare funzione totalizzante esercitata dalla corona, che racchiudeva in sé tanto l'autorità politica quanto l'autorità etica (quest'ultima fondata sulla solitudine del Kaiser e sulla sua cattolicità). Si trattava in sostanza di una autorità sociale che esercitava il suo fascino direttamente, senza la mediazione dello Stato, poiché una autorità statale in sé sarebbe caduta nel vuoto. Anzi, il carattere eticamente sacro di questa autorità era ormai divenuto un fatto meramente mistico giacché un razionalismo frivolo e scettico si sentiva costretto ad accettarlo.
Questa autorità assumeva un carattere tanto più mistico in quanto era solo la contemplazione del Kaiser, e cioè la contemplazione del vuoto, a conferire ad essa un significato etico. Il sostrato morale che veniva in tal modo mediato era totalmente eclettico e quindi privo di significato. L'epoca era del resto eclettica sia sul terreno etico sia su quello estetico [...]. L'atteggiamento di cieca e ottusa ripulsa di tutti i fenomeni artistici assunto da Francesco Giuseppe I, soprattutto per effetto della sua aridità umana, non è comunque confrontabile, se non apparentemente, con il comportamento della personalità autenticamente etica; e ciò malgrado il suo famoso ethos della solitudine. In effetti Francesco Giuseppe non era neppure sfiorato dal

dubbio che i valori etici sui quali ispirava la sua vita fossero in realtà eclettici e privi di una organica coerenza, così come non lo infastidiva l'eclettismo estetico che lo circondava, per il semplice fatto che non lo notava neppure. Tuttavia, fu proprio contemplando una simile mediocrità che il cittadino austriaco riuscì ad avvertire l'esistenza di un fulcro morale, di una autorità etica (cosa presumibilmente incomprensibile per un cittadino inglese che facesse un confronto con il proprio modo di considerare la regina); sicché la semplice esistenza di questo vecchio imperatore bastò a rafforzare straordinariamente non solo i valori etici ma anche quelli estetici. La propensione all'immutabilità di Francesco Giuseppe non poteva, sul terreno tecnico, fermare la vita; ma nella sfera etico-estetica, molto meno necessitante, il suo conservatorisino divenne un orientamento per tutti, perché un organismo sociale che si trova prossimo alla propria fine (e in un'agonia per giunta così bella) segue più facilmente inclinazioni mistiche che suggestioni rivoluzionarie (Broch, 89-93).

Una siffatta prospettiva, cosí dettagliatamente disegnata, spiega i motivi della fedeltà, misticamente ancorata a una leggendaria figura, ma anche la sostanziale estraneità dei sudditi dalla cosa pubblica, che non suscita il rispetto né tanto meno il loro consenso, anche se con il senno di poi resta difficile individuare alternative praticabili. Nel celebre saggio dedicato a Hofmannsthal, venendo a trattare della tradizionale irrispettosità civica dei viennesi, Broch, che si dimostra uno dei più acuti conoscitori della civiltà austriaca, osserva ancora come:

L'irriverenza bastava a mala pena al travestimento o meglio alla frivolizzazione dei valori di corte accolti dalla borghesia e del loro contenuto etico-estetico; era insomma appena sufficiente per ballare il valzer. E poiché i valori che conferivano ancora a questa società qualcosa che somigliasse alla solidità si trovavano al di là dello strato isolante dello Stato, vale a dire nell'astrazione della corona, e suscitavano al tempo stesso riverenza e disprezzo, paura e confidenza, questi valori non venivano presi sul serio. Fu grazie a questa incapacità di prendere sul serio alcunché, una incapacità elevata a potenza, che la frivolezza viennese acquistò quella nota peculiare che doveva distinguerla così radicalmente dal carattere di qualsiasi altra metropoli: la nota della non-aggressività, la nota di una onnipresente e amabile leggerezza di spirito, la nota della «cordialità». In tutto ciò vi era anche molta saggezza (cordialità e saggezza fioriscono sempre l'una accanto all'altra), la saggezza di un'anima che presagisce la caduta e l'accetta. Era una saggezza da operetta, però, e sotto l'ombra della caduta incombente essa divenne a poco a poco sempre più spettrale portando appunto alla gaia apocalisse di Vienna.
Il fenomeno della copertura della miseria con una vernice di ricchezza si presentò a Vienna, specie durante la sua ultima spettrale fioritura, con maggiore chiarezza che in qualsiasi altro luogo e in qualsiasi altro momento. Un minimo di valori etici doveva essere ricoperto con un massimo di valori estetici, i quali non erano più e non potevano più essere tali perché un valore estetico che non si sviluppi su una base etica è esattamente il proprio contrario e cioè artificio, paccottiglia, sofisticazione: in una parola Kitsch. Come capitale del Kitsch, Vienna divenne anche la capitale del vuoto-di-valori dell'epoca
(Broch, 93-94).

Viene coniato con la «gaia apocalisse» uno degli ossimori più felici e indicativi del clima culturale viennese, per quella singolare simbiosi creativa di tradizionalismo austriaco di ascendenza barocca e controriformista, di effervescenza intellettuale laica e di mistiche nostalgie ebraiche. La stessa diffusa irresponsabilità e incoscienza che si percepisce nell'estrema politica asburgica è paradossalmente l'esito di quella scelta obbligata per prolungare, con la sopravvivenza della dinastia, l'unica pace ancora possibile come è stato copiosamente confermato quando alla scomparsa dell'impero si è innescata una spirale di violenza che non accenna ancora a esaurirsi, provocando continue crisi. La brutalità in alcuni territori, una volta dominati o influenzati dagli Asburgo, assume nuovi aspetti di intolleranza spinta fino alla pulizia etnica e alla guerra di tutti contro tutti. La saggezza asburgica si riassume nella massima «queta non movere», in un abile e perfino astuto immobilismo, gestito dagli alti funzionari, che della procrastinazione, dello slittamento, dell'insabbiamento hanno fatto la loro filosofia, la ragione di vita, trasformando la prassi del compromesso in un'arte complessa condotta fino alla esaustione di ogni forza, poiché ogni energia si sublima nella negazione di se stessa. Gran parte degli scrittori del secolo d'oro austriaco si confronta con la figura del fedele impiegato, con il burocrate imperialregio, che si esalta e si invera nel pensionato, nel senile custode, nel pedante conservatore di una invisibile metafisica imperiale, di una puntigliosa ortoprassi apparentemente priva di senso vitale, di progetto, di idealità in un'epoca, in cui ogni Stato (e soprattutto l'impero prussiano, l'ultimo arrivato tra le grandi potenze) esibisce una sua Weltanschauung, una sua concezione del mondo interventista. Ogni Stato nazionale si compiace del proprio esasperato particolarismo, proclamato in aggressiva polemica contro i vicini. A Vienna, invece, i conflitti tra le varie etnie si attutiscono negli studi ovattati dei dirigenti dell'amministrazione asburgica, smussandosi per decenni in lotte, più o meno rumorose, per un posto, secondo l'aurea regola del compromesso, collaudata durante l'era di Taafe. I contrasti vengono ridimensionati distribuendo con arbitraria e sagace imparzialità posti e prebende nella burocrazia statale agli esponenti delle varie nazionalità in proporzioni rispettose delle forze e delle pretese più insistenti e politicamente ineludibii. Con una ridondanza di personale amministrativo, altrimenti inspiegabile, la volpina politica asburgica smorza i sacri egoismi delle nazionalità aderendo alle richieste spicciole. La rivoluzione può di nuovo aspettare e soltanto un colpo di testa, difficilmente spiegabile, precipita la diplomazia asburgica, proverbialmente cauta, nella svolta aggressiva dell'estate 1914 in contrasto con il suo tradizionale e salvifico immobilismo. Nella Vienna del potere l'indecisionismo è elevato a sistema politico e a criterio culturale, a estetica della res publica, a poetica dell'impero, che si riflette nella più vistosa realizzazione del pluridecennale regno di Francesco Giuseppe, nella Ringstrasse viennese, archetipo di tante analoghe imitazioni nei vari altri centri minori della monarchia. L'edificazione della monumentale arteria illustra nella pietra i gusti, le tendenze artistiche e i progetti urbanistici dell'epoca francogiuseppina. Priva di un suo stile, priva di una sua architettura, di una sua arte l'epoca tollera, assumendoli, gli stili delle altre età, armonizzandoli in un sincretismo al limite del kitsch e di una babelica contraffazione. Il gusto gotico del municipio riafferma l'alquanto ipotetica radice fiamminga degli Asburgo, così come lo stile neoclassico «finto Atene» del Parlamento esprime il rispettoso culto (solo formale) per le nuove istituzioni politiche di consenso democratico, mentre il neorinascimento del Burgtheater, dell'Università e la classicità illuministica della Opera e dei grandi musei si legano alla volontà di incorporare la tradizione artistica e scientifica della cultura europea. La febbre imitativa ha contagiato i progetti architettonici delle altre grandi costruzioni e inoltre quella costante citazione storica è assunta a estetica della pittura ufficiale esemplata dalle composizioni di Hans Makart e Anton Romako. La superfetazione del decorativismo, la proliferazione dell'ornamento, l'insistita ridondanza di intrecci stilistici hanno evocato per contrasto una decisa reazione con la straordinaria esperienza della Secessione, una autentica insurrezione artistica in nome dell'individuazione di una linea coerente, omogenea e al tempo stesso congeniale al gusto decadentistico del liberty. A sua volta la Secessione e lo Jugendstil vengono criticati e rintuzzati da una nuova svolta nel segno della semplicità, della funzionalità architettonica, che per certi versi si propaga anche nella letteratura e nell'arte. Sono percorsi che possono svolgersi all'interno di una stessa personalità poetica, come in Rilke con la sua sofferta peripezia praghese e cosmopolita che passa da un mimetismo in costante metamorfosi a una esemplare volontà di purezza e nudità simbolica che viene finalmente alla luce nelle Elegie di Duino e nei Sonetti a Orfeo, in cui l'ascolto di una voce elimina il clangore confuso di pur soavissime melodie lontane da un autentico centro di originalità creativa. Del resto Vienna, questa capitale del kitsch, del culto antiquario e senilmente conservativo, è anche la roccaforte culturale del rigore iconoclasta di Adolf Loos e Karl Kraus. Le contraddizioni, i contrasti laceranti di questa cultura sono sempre vissuti al confine tra coraggiose ipotesi artistiche, sottile eleganza formale e disperazione intellettuale ed esistenziale: si pensi ai suicidi di esponenti di spicco di questa cultura come Stifter, von Saar, Weininger, mentre l'ironia, che, onnipresente, prende lo spunto dalla realtà interna e dalla situazione storica, pervade l'intera originalità culturale, dalla letteratura e dalla pittura del decadentismo alla psicoanalisi. Si crea una irripetibile costellazione di uomini, tendenze, opere che non finisce di suscitare la nostra ammirazione per quella età d'oro chiamata della Grande Vienna (Janik-Toulmin). Età asburgica per antonomasia con il vecchio Francesco Giuseppe e l'infelice arciduca Massimiliano, massacrato dai rivoluzionari messicani, lo sfortunato pretendente ereditario Rodolfo, l'inquieta imperatrice Sissi, la scintillante corte imperiale, il fulgore della Ringstrasse, ma è ancor di più l'età di eccezionali scrittori, pensatori e artisti che operano nella città a cavallo tra i due secoli. La città è il palcoscenico di inconciliabili paradossi, di irriducibili contraddizioni. Vienna è la culla del sionismo di Theodor Herzl

THEODOR HERZL

(Le Rider, 1990) e dell'antisemitismo virulento di Adolf Hitler, dell'ariosofia di Guido von List (Hamann) e dell'austromarxismo revisionista di Victor Adler e del neocorporativismo cattolico di monsignor Ignaz Seipel, nonché dell'estetica decadente e dello sperimentalismo dodecafonico. Infatti a Vienna si può assistere, con saggia leggerezza, alle prove generali di quella tragedia dello spirito europeo, che ancor oggi non accenna a esaurirsi. Lo scenario dove le aporie culturali e le potenzialità formali si distinguono con maggiore nitore è l'attività letteraria, intensa, convulsa, multiforme, che travolge come un fiume in piena i luoghi consacrati alla cultura, dando vita a una temperie spirituale di continua esaltazione e di costante emergenza. Una trasformazione culturale senza sosta ha luogo nei prestigiosi saloni dell'Opera - il massimo tempio mondiale del melodramma - e al foyer del Burgtheater - il più autorevole santuario della drammaturgia in lingua tedesca -

per invadere gli eleganti salotti dell'aristocrazia o della borghesia ebraica (famoso quello dei Wertheimstein) per insediarsi stabilmente nei caffè del primo distretto, tra cui il mitico Griensteidl sui cui divanetti di cuoio cremisi sorge la più vivace scuola poetica dell'epoca, lo Jung-Wien, animato da Bahr con Hofmannsthal e Schnitzler.

CAFÉ GRIENSTEIDL

Al di là della volontà di rottura e innovazione il gruppo rappresenta una esperienza letteraria, vieppiù consolidata, di sostanziale continuità di motivi e stilemi della tradizione artistica austriaca (egemonizzata dalla musica e dal linguaggio teatrale) e di audaci innovazioni, mutuate dagli impressionisti e simbolisti francesi. Gli esperimenti poetici dello Jung-Wien prendono le mosse da quel diffuso gusto neorinascimentale in cui si salda il presente al passato. Con l'assimilazione degli stimoli poetici colti dai drammi crepuscolari di von Saar maturano quelli delicatissimi ed estenuati del giovane Hofmannsthal.
Così il paese più a rischio di essere (pur come è avvenuto) inghiottito negli abissi della storia - l'Austria, appunto - è anche quello in cui più intensa risuona la questione dell'identità ovvero dello smarrimento d'identità storica, mentre si pone con urgenza la questione della lingua quale estrema dimora, quale origine, secondo l'intuizione di Kraus, cui si palesa la circolazione ermeneutica, il circolo di analogie operative tra identità, tradizione, passato, patria, casa, Heimat, lingua intesa quale origine dell'uomo, della nascita della coscienza, del processo di umanizzazione: «Sei rimasto all'origine. L'origine è la meta» (Kraus, 1972, 34).
Oggi risulta paradossale che un intellettuale ebreo di origine morava abbia compreso la natura originale e originaria del linguaggio - analitica e sintetica, conservativa e creatrice, palese e misteriosa - e si sia battuto per tutta la vita, in base a questa rivelazione, con strenua, eroica caparbietà, per l'integrità della lingua tedesca, che comincia a essere manipolata - per Kraus, addirittura prostituita - dai fanatici assertori del pangermanesimo, dell'ideologia razzista nordico-aria, assorbita negli anni del soggiorno viennese dal futuro Führer (Kraus, 1996). Ancora una volta, l'Austria, la marca orientale del Reich, lo Österreich appunto, diventa il bastione estremo dell'Occidente, mentre Vienna si conferma - così la definisce anche Hofmannsthal, parlando delle opere dei suoi concittadini Karl Eugen Neumann e Rudolf Kassner - «porta Orientis». Lo scrittore prosegue accostando le esplorazioni orientalistiche, partite da Vienna, alla psicoanalisi, sorta nella sua città:

E neppure posso definire in altro modo che assai congruente, molto giusto, il fatto che le teorie del dottor Freud si siano fatte strada nel mondo a partire da qui - proprio come le melodie leggere, un po' banali, ma duttili e accattivanti, delle operette, con cui esse hanno così poco in comune. Vienna è la città della musica europea: essa è la porta Orientis anche per quel misterioso Oriente che è il regno dell'inconscio.
Le interpretazioni e le ipotesi del dottor Freud sono le escursioni di un consapevole spirito del tempo verso i lidi di quel regno. [...]
La forza interiore che possiamo chiamare genius loci è attiva in molteplici modi ed è avvincente ricollegare l'uno all'altro i suoi vari modi di esprimersi
(Hofmannsthal, 1983, 92-93).

Oltre che provincia di confine geografico e spirituale, la marca orientale è frontiera di epoche: Vienna è il krausiano laboratorio della fine del mondo, la metafora di una novella apocalisse, che si frantuma in una policromia fantastica alla disperata ricerca di piaceri e di oblio. E il connotato di modernità di questa civiltà artistica e intellettuale affiora in questo ermafroditismo geografico e cronologico. Vienna è il mondo di ieri dall'ovattata atmosfera della sicurezza sociale, dalle certezze culturali e dall'aristocratica eleganza e insieme è l'officina dello sperimentalismo, dell'avanguardia intellettuale radicalmente impegnata ad aprire nuove frontiere alla antropologia con la scoperta dell'uomo freudiano e con l'intuizione, mediata dal solitario percorso filosofico di Wittgenstein, dell'alea linguistica. Psicoanalisi e filosofia del linguaggio s'incontrano a Vienna nel loro momento iniziale. L'analisi delle zone oscure dell'animo umano s'intreccia con la destrutturazione dei nessi e giochi linguistici indicando una nuova comprensione delle associazioni dell'espressività, soprattutto di quella comune, quotidiana, fino allora trascurata, celata, rimossa. E negli anni venti e trenta che si sviluppa questa attenzione ai processi linguistici attraverso l'esperienza intellettuale del Circolo di Vienna. I filosofi neopositivisti intorno a Rudolf Carnap propongono un rifiuto radicale della metafisica, che viene liquidata come retaggio mitologico e anzi come fallito tentativo artistico di gente senza talento poetico. Questo oltrepassamento della metafisica è sostanzialmente in sintonia con la critica wittgensteiniana, presentando sorprendenti affinità con l'intuizione del «mistico» in Wittgenstein, ma anche in Hofmannsthal, Musil e Broch (Johnston).
Per la prima volta il baricentro della civiltà letteraria, artistica e intellettuale tedesca dai luoghi privilegiati dell'operatività estetica e scientifica - come Berlino, Monaco, Lipsia, Heidelberg, Weimar - si sposta verso Vienna che continua a mantenere il primato universale della musica, ribadito da Mahier e dalla Scuola di Vienna di Schönberg, Alban Berg e Webern,

ANTON WEBERN

nonché, parallelamente, dal fecondo sodalizio tra Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal e dalla straordinaria perfezione tecnica delle esemplari esecuzioni operistiche e concertistiche. All'egemonia musicale si aggiunge l'irripetibile stagione letteraria dello Jung-Wien che, sorto sulle rovine precoci del naturalismo tedesco si protrae fino al fosco tempo della sopraffazione nazionalsocialista (avvenuta con l'entusiastico consenso della maggioranza popolare). L'Anschluss nel marzo 1938 pone fine alla prima repubblica e contemporaneamente alle estreme propaggini della letteratura della Grande Vienna. Dopo di che la letteratura austrotedesca rientra nella «normalità» germanica con l'omologazione estetica e ideologica hidenana in un'Austria smembrata, in cui pur tuttavia opera Josef Weinheber, l'unico autentico lirico del Terzo Reich, che si toglie la vita con tragica coerenza l'otto aprile 1945 alla vigilia dell'occupazione sovietica del paese e nella drammatica consapevolezza di aver legato il proprio destino a una causa sciagurata. Le lettere austriache vengono riscattate in quei sette anni di dittatura dai numerosi scrittori e artisti esuli in tutto il resto del mondo ancora libero. Emblematico tra gli emigrati è il destino di Stefan Zweig, l'autore ebreo viennese che nell'esilio brasiliano, cui pone fine il 23 febbraio 1942 con il suicidio, scrive la più appassionata rievocazione della Grande Vienna con Il mondo di ieri, un intramontabile capolavoro di prosa nostalgica. Sulle ceneri materiali e spirituali del nazismo sorge nel 1945 la seconda repubblica austriaca in cui finalmente gli austriaci si identificano, dismesse le impossibili velleità restauratrici, nonché abbandonate le tentazioni di confluire in una grande Germania. La nuova identità austriaca si costruisce nel riconoscimento della propria storicità, dei propri problemi specifici e della propria tradizione, distinta e autonoma da quella tedesca. Con la seconda repubblica prende le mosse una civiltà artistica di vigorosa vivacità, confermata da una notevole fioritura letteraria, autocritica in quanto maturata nell'amara accettazione della realtà storica contemporanea, segnata dal consenso austriaco al nazismo. Questa nuova stagione letteraria è segnata da esperienze ed esiti significativi con opere e autori di rilievo mondiale come Ingeborg Bachmann, Thomas Bernhard, Peter Handke fino ai più recenti Eifride Jelinek, Christoph Ransmayr, Robert Schindel e Robert Schneider per indicare almeno i più affermati, che non esauriscono l'ampia gamma di scrittori e gruppi attivi nell'Austria attuale, che ha reciso le linfe della nostalgia, assumendo intelligentemente il nucleo vitale della tradizione quando Vienna era il centro della civiltà artistica e letteraria di tutta l'Europa centrale.