BIOGRAFIA - LETTERE - SCRITTI 1843

Il 16 giugno 1843 la parola fine viene tracciata in calce alla partitura. Schumann mette a parte Verhulst, il fedele amico olandese, del piacere che gli ha procurato scrivere quella musica; poi coglie l'occasione per annunciare la riconciliazione avvenuta fra Clara ed il Vecchio. Di tal fatto egli è felice, pensando ai sentimenti della moglie, ma si sente sorpreso nel constatare che Wieck abbia cercato di riprendere i rapporti anche con lui:

Quest'uomo non ha il minimo senso morale, altrimenti non avrebbe mai osato compiere un passo simile.

L'estate trascorre in pace, fa passeggiate e letture. Schumann non sembra stremato dallo sforzo compiuto nel comporre l'oratorio, e aspetta opportunamente l'inverno per farlo eseguire. Ripone grandi speranze in quell'opera, perché è la piú vasta di quante ne abbia scritto. Argomento gratuito, che si rivela invece esatto. Il Paradiso e la Peri, presentato il 4 dicembre al Gewandhaus, scatena un entusiasmo clamoroso. Replicato l'11, ha un'accoglienza ancor piú favorevole e passa all'Opera di Dresda, dove l'esecuzione del 23 dicembre ne consacra il successo definitivamente.

Già due volte, in passato, Clara aveva tentato di forzare le porte della Santa Russia. Nel 1839 non ci era riuscita, a causa della sua giovinezza e della sua inesperienza; nel 1841 l'ostacolo della guerra d'Oriente si era frapposto fra lei e il suo progetto. Il desiderio resta però sempre vivo, tanto piú che Il Paradiso e la Peri, nonostante il successo, non ha certo arricchito il consorte. Le proposte di una tournée russa, ricevute in quel tempo, vengono dunque accolte con vero entusiasmo. Clara ha però deciso di non separarsi phi da Robert: pertanto, insieme col consenso per lei, riesce a strappargli la promessa di accompagnarla.

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Il '43 porta a Robert un'altra figlia mentre il musicista è immerso nella fatica più grande e ambiziosa: la composizione di un oratorio profano tratto da un lavoro letterario, Lalla Rookh, di Thomas Moore. A più riprese egli dubita delle proprie capacità, ma riesce ad arrivare in fondo. Il Paradiso e la Peri, tale è il titolo del lavoro, viene eseguito al Gewandhaus di Lipsia e a Dresda in dicembre riportando un enorme successo, sicuramente il più lusinghiero della ormai già lunga carriera dell'autore. E l'ironia vuole, come sempre in tali casi, che il grande pubblico si entusiasmi davanti ad un'opera ricca di qualità, ma certo non esente da difetti, dopo aver lasciato cadere nel vuoto i capolavori pianistici. Lo stesso Wieck è scosso dal successo finalmente ottenuto dal suo ex allievo; tre anni sono ormai passati ed egli tenta una riconciliazione; scrive:

Tempora mutantur et mutamus in eis; non possiamo più restare stranieri l'uno all'altro di fronte a Clara e al mondo. Voi ora siete padre di famiglia... perché litigare ancora? In arte noi siamo sempre stati uniti. Io sono stato il vostro professore, e fu il mio giudizio che ha determinato l'orientamento della vostra carriera. Voi non potete dubitare della stima che io ho per il vostro talento e le vostre autentiche aspirazioni. Con gioia vi attendo a Dresda.

Schumann accetta le scuse del vecchio Wieck; le antiche polemiche vengono dimenticate.
Intanto la vita della famiglia Schumann si è assestata e risulta completamente sottomessa alle convenzioni borghesi. Fatichiamo a riconoscere il romantico ribelle, entusiasta ed iperattivo, di qualche anno prima: l'intensa aspirazione ad una vita ordinata e rassicurante, barriera necessaria contro una melanconia depressiva ed un'angoscia che Robert intuisce sempre in agguato, si è ormai pienamente attuata.
Mendelssohn è considerato a Lipsia il successore di Beethoven; il pubblico ama le sue composizioni ed elogia la sua direzione orchestrale sicura e brillante. Allorché la famiglia Schumann si trova in difficoltà finanziarie egli non esita ad aiutarla proponendo a Robert un incarico di professore di pianoforte nel Conservatorio di cui è direttore. Schumann stesso, come si è detto, ammira la sua musica: a tratti addirittura, nei Quartetti e nelle Sinfonie, si intravede il desiderio di imitarla e superarla. Ciononostante egli è cosciente delle differenze che li separano: si sente più innovatore dell'amico, più rivolto in avanti. Ad esempio si sente vicino a Berlioz mentre Mendelssohn lo biasima per la sua orchestrazione troppo ardita; proprio quell'anno il musicista francese dirige al Gewandhaus e Schumann acutamente scrive:

Nella sua musica ci sono molte cose insopportabili, ma anche altre straordinariamente intelligenti, per non dire geniali.

Il compositore di Zwickau si troverà sempre in una posizione equidistante tra l'equilibrio classicista troppo ancorato al passato di un Mendelssohn e le esagerazioni spericolate di un Berlioz; insomma saldamente legato alla tradizione, ma non tanto da non poterla rinnovare radicalmente seppur dall'interno.

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Gli ultimi frutti di questo periodo di interesse alla musica cameristica furono un Trio con pianoforte in La minore, completato nel dicembre 1842, e un Andante e Variazioni per due pianoforti, due violoncelli e corno, completato alla fine di gennaio del 1843.
Di nessuno dei due, nella loro forma originaria, fu soddisfatto; ma il Trio, sette anni dopo, fornì il materiale per i Phantasiestücke op. 88 e le variazioni furono rimaneggiate in agosto per due pianoforti e pubblicate come op. 46 nel febbraio 1844; in quella circostanza la prima variazione venne soppressa e la conclusione ampliata.
Il febbraio del 1843 fu segnato soprattutto dai frequenti contatti con Berlioz,

che in quel mese venne a Lipsia due volte, e dalla visita di riconciliazione di Clara a suo padre, a Dresda; nel dicembre successivo Wieck fece un imbarazzato tentativo di riavvicinamento anche con Schumann, che si concluse con una pace precaria. Il 20 o il 23 (le annotazioni di Schumann riportano date diverse) diede inizio a una composizione su cui aveva meditato per ben diciotto mesi: Das Paradies und die Peri, ora non più intesa come opera teatrale, bensì come «oratorio profano». Stese lui stesso il testo del libretto, basandosi su una traduzione manoscritta dell'opera di Moore fatta dal suo amico Flechsig e sulla traduzione pubblicata da Theodor Oelkers. La partitura, che Schumann considerava la più importante alla quale avesse lavorato sino a quel momento, fu completata il 16 giugno. Durante la composizione della Peri fu inaugurato il Conservatorio di Lipsia: Mendelssohn ne era il direttore e Schumann era professore incaricato di «pianoforte, composizione e lettura della partitura». Il 25 aprile nacque la seconda figlia, Elise. Dopo aver completato la Peri, per cui Peters pagò 550 talleri, per il resto dell'anno Schumann rimase inattivo e si dedicò a progetti che non dettero frutto. Il campo operistico, in particolare, era al centro dei suoi pensieri. Il 1º dicembre diresse la prima prova d'orchestra della Peri - fu questo il suo debutto sul podio - e il 4 e l'11 ne diresse le esecuzioni; personalmente ne fu soddisfatto e il pubblico di Lipsia si dimostrò entusiasta, ma è evidente che era debole e non efficace come direttore d'orchestra, come lo era, per la verità, nel suo insegnamento in conservatorio. [ABRAHAM]

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A C. Kossmaly 99) (Detmold)
Lipsia, 5 maggio 1843

Questa lettera risulterà un po' sconnessa, perchè una banda di musicisti da fiera soffia e urla sotto la mia finestra. Anche in casa c'è gran confusione: domani ci sarà il battesimo (della nostra seconda figliola); ma voglio scrivere lo stesso a Lei, che pensa sempre così amichevolmente a me. Grazie per i Suoi bei Lieder. Le taccio ciò che ne penso, perchè la mia opinione in proposito apparirà tra breve sul giornale. Ne faccia stampare sempre di più e venga a stabilirsi a Lipsia. Non si sa ancora nulla di preciso sui cambiamenti che saranno fatti nel teatro. Si dice che un certo dott. Schmidt ne assumerà la direzione; lo conosco un poco, e a suo tempo gli parlerò di Lei.
Ho composto moltissimo da quando non ci siamo più visti. Non potrebbe far suonare una volta a Detmold i miei tre «Quartetti», apparsi poco fa? Lo desidererei moltissimo. Usciranno tra breve pure un «Quintetto» per piano, ecc., un «Quartetto» anche per piano, ecc., e varie altre cose. Per il momento m'occupo d'un grande lavoro, il più grande che abbia intrapreso sin'ora. Non è una opera, ma un lavoro d'un genere del tutto nuovo, da eseguirsi nei concerti [100]. Vi dedico tutta la mia attività, e spero di terminarlo entro quest'anno.
Le unisco alla lettera, non senza un certo timore, un pacchetto di vecchie composizioni. Scoprirà assai facilmente ciò che v'è di immaturo ed incompleto in esse. In gran parte, riflettono la mia movimentata vita d'un tempo; l'uomo ed il musicista cercavano contemporaneamente d'esprimersi. Anche ora è così, quantunque abbia appreso a padroneggiare me stesso e la mia arte.
Il Suo cuore sensibile saprà rintracciare le gioie e le pene sepolte in quel mucchio di note...
Da ciò che sento, il pubblico s'interessa ora di più alle mie opere, anche a quelle antiche. Le «Kinderszenen» e i «Phantasiestücke», che purtroppo non posso inviarLe, ottengono grande successo. Anche i tempi sono mutati. Una volta m'era indifferente se s'occupavano più o meno di me, ma quando si ha moglie e bambini tutto è diverso si ha il dovere di pensare all'avvenire, si vogliono raccogliere i frutti del proprio lavoro, e non solo quelli artistici, ma anche quelli prosaici, che assicurano la vita di tutti i giorni; ed è solo la vasta fama che li porta e li moltiplica.
Non interpreti, dunque, come prova di vanità l'invio di questi vecchi pezzi; e creda che accetto con riconoscenza la Sua gentile proposta di parlarne. Ho sempre disprezzato l'artista che, nello stesso momento in cui il foglio esce ancora bagnato dalla stamperia, s'affretta a mandano per posta a tutte le redazioni. Ma a che scopo tutte queste parole? Lei mi conosce e mi comprende.
Credo che qualcuno dei miei lavori offra argomento di considerazione, e non Le sarà difficile di mettere assieme alcune colonne. Siccome la maggior parte delle mie opere è edita da Härtel, saranno ben lieti se ne verrà parlato nel loro giornale. Mi sembra che sarebbe più adatta la forma dello studio critico personale, che non quella solita della recensione...
EccoLe la mia confessione. Senza che glielo indichi, vedrà facilmente che Bach e Jean Paul hanno esercitato in tempi precedenti la più grande influenza su di me. Ora ho acquistato una ben maggiore individualità.
Serbi per mio ricordo i pezzi che Le piaceranno di più. Mi scriva presto.

Il Suo Roberto Schumann


SINFONIA SCOZZESE DI F. MENDELSSOHN
BARTHOLDY in la min., op. 56.

La nuova sinfonia di F. Mendelssohn ha interessato al più alto grado tutti coloro che finora hanno seguito con interesse e curiosità la brillante strada di questo astro così raro. Lo si riguardava un po’ come alla sua prima opera nel territorio della sinfonia; poiché la sua vera prima sinfonia, in do minore, appartiene quasi alla prima giovinezza dell’artista [Composta verso il 1824 - op. 11.], la seconda, che scrisse per la Società Filarmonica di Londra, non è stata ancora pubblicata [Reform-Symphonie, composta verso il 1830 - pubblicata nel 1868 come op. 107.], infine la sinfonia-cantata Lobgesang non può essere considerata come un’opera puramente strumentale. Così la sinfonia mancava nel ricco serto delle sue creazioni, poiché, eccettuando l’opera, egli s’era mostrato fecondo in tutti gli altri generi.
Noi sappiamo, da altri, che Mendelssohn iniziò questa nuova sinfonia diverso tempo fa, cioè durante il suo soggiorno in Roma [Lo Schumann riferisce alla Sinfonia Scozzese ciò che andreb-be detto della Sinfonia Italiana]; ma l’effettivo compimento è recentissimo. È interessante di saper ciò, per dare un giudizio di questa sinfonia. Come accade, quando noi strappiamo da un vecchio libro dimenticato un foglio ingiallito che ci ricorda un tempo trascorso in modo così chiaro da farci dimenticare il presente, così dei soavi ricordi avranno avvolto la fantasia del maestro quando trovò nelle sue carte quelle vecchie melodie, cantate nella bella Italia; così nacque, infine, cosciente o no, questa delicata pittura musicale che, un po’ come la descrizione del viaggio in Italia nel Titano di Jean Paul, deve aver fatto dimenticare per qualche tempo a qualcuno la tristezza di non aver visto quella terra benedetta. È già stato detto più volte che attraverso l’intera sinfonia spira un caratteristico tono popolare; questo può sfuggire soltanto ad un uomo privo di qualsiasi fantasia. L’incantevole colorito particolare poi contribuisce ad assicurare alla sinfonia di Mendelssohn (come per quella di Schubert) un posto speciale nella letteratura sinfonica. In questa sinfonia non troviamo né il tradizionale pathos strumentale, né l’abituale ampiezza mastodontica, né un appesantimento dello stile beethoveniano.
Troviamo piuttosto un’analogia, nel carattere specialmente, con la sinfonia di Schubert, colla differenza che, mentre quest’ultima ci fa supporre piuttosto un selvaggio, tzigano tumulto popolare, quella di Mendelssohn ci trasporta sotto il cielo italiano. Con ciò viene ad esser detto che in Mendelssohn si trova un carattere graziosamente castigato che si esprime in modo meno straniero, mentre dobbiamo ammettere che in Schubert si notano altre qualità, ed in ispecial modo una più ricca forza inventiva.
In fondo la sinfonia di Mendelssohn si distingue ancora per l’intima relazione che collega i quattro tempi; lo sviluppo melodico del tema principale è dello stesso genere nei quattro singoli tempi; questo si riconosce ad un semplice confronto fuggevole. Così essa forma più che ogni altra sinfonia un tutto strettamente connesso: carattere, tonalità e ritmo si differenziano ben poco l’uno dall’altro nelle diverse parti.
Per ciò che riguarda il lato puramente musicale della composizione nessuno sarà in dubbio sulla sua maestria. La sinfonia si pone accanto alle ouvertures per la bellezza e la delicatezza della costruzione dell’insieme e dei particolari; e non è meno ricca d’incantevoli effetti strumentali. Ogni pagina della partitura ci dà nuova prova di come Mendelssohn sappia finemente richiamare un antico pensiero, come sappia ornare una ripetizione in modo che ci si presenti come soffusa da una nuova luce, come sia ricco e interessante il particolare, senza sovraccarico e senza sfoggio filisteo di bravura.
L’effetto della sinfonia sul pubblico dipenderà in parte dal maggiore o minore virtuosismo dell’orchestra; infatti in generale è sempre così, ma qui, dove la forza delle masse sarà meno osservata della compiuta finezza degli strumenti isolati, n’è doppiamente il caso: soprattutto si esigono delicati strumenti a fiato. L’effetto più irresistibile è dato dallo Scherzo; nel nostro tempo non ne è stato scritto un altro più ricco di spirito; gli strumenti vi parlano come esseri umani.
La riduzione per pianoforte è del compositore stesso e perciò si ha certo l’immagine più fedele che si possa immaginare. Ciò nonostante, spesso lascia supporre soltanto la metà dell’incanto degli effetti orchestrali. L’ultimo tempo della sinfonia provocherà delle opinioni contrastanti, molti s’aspetteranno il solito finale mentre invece esso, arrotondando a guisa d’un cerchio tutto l’insieme, ricorda il principio del primo tempo. Noi troviamo questo finale molto poetico: è come una sera che corrisponde ad un bel mattino.

ANTONIO BAZZINI

Da un po’ di tempo il pubblico comincia a far capire la sua noia pei virtuosi, e (come più volte l’ha confessato) pure questa Rivista. Che i virtuosi stessi sentano ciò, sembra provarlo la loro voglia, nata recentemente, d’emigrare verso l’America; e tanti loro nemici covano il segreto desiderio ch’essi se ne rimangano, per carità! laggiù per sempre; poiché, tutto ben considerato, il loro nuovo virtuosismo ha contribuito ben poco al bene dell’arte. Quando però questo virtuosismo ci vien così graziosamente presentato come dal sopracitato giovane italiano, allora ascoltiamo volentieri con attenzione per ore intere - sia detto in breve, da anni nessun virtuoso m’ha dato una gioia così intima e momenti così piacevoli e felici, come Antonio Bazzini. Mi pare ch’egli sia conosciuto troppo poco, e anche qui non sia stato degnamente apprezzato nel grado ch’egli merita. Il pubblico della Germania del Nord è fatto così, ormai non si risolve a concedere il nome di “artista” che molto difficilmente ed a pochissimi. Se alle volte un virtuoso viene da Parigi, magari con qualche decorazione, allora questo aiuta il pubblico ad eliminare qualche dubbio. Invece Bazzini è venuto qui quasi sconosciuto, senza pretese; nel chiasso della fiera è sempre difficile farsi conoscere; ci si aspettava un suonatore da salotto, come se ne son sentiti a dozzine. Egli certo vale molto di più, e se gli si prendesse la mano sinistra (per sostenere il violino) potrebbe ancor scrivere con l’altra e farebbe bella figura fra le conosciute celebrità dei compositori italiani; in altre parole, egli ha pure un ingegno evidentemente creatore e se acquisterà qualche conoscenza del teatro, avrà certamente altrettanto diritto a scrivere opere come il signor Donizetti, ecc. L’ha provato chiaramente il suo Concerto per violino: il getto naturale, la tecnica conveniente, la melodiosità e l’armoniosità veramente affascinante di molte parti; di tutto ciò il gran numero dei virtuosi non ha nemmeno un’idea. È italiano in tutto, nel senso migliore; egli sembra venire non da un paese di questa terra, ma da un paese del canto, da un paese sconosciuto, eternamente sereno: così mi sembra talvolta, ascoltando la sua musica.
Come esecutore Bazzini appartiene certamente ai più grandi del presente; non conosco nessuno abile come lui nella tecnica, nella grazia e nella pienezza del suono, e soprattutto in purezza ed eguaglianza; inoltre predomina gli altri specialmente per freschezza, giovinezza e severità d’interpretazione e se mi raffiguro il carattere senza cuore e senz’anima di qualche blasé virtuoso belga e di molti altri, egli mi sembra essere un giovane fra vecchi cadenti, a cui sta dinanzi un avvenire ancora più brillante anche se ora ha già raggiunto una eccellenza artistica veramente splendida.
Per firmare questo giudizio mi sarebbe occorso di sentire lo Scherzo su temi dell’Invito alla danza di Weber e il suo Concerto. Nei due pezzi seguenti m’accorsi con dispiacere ch’egli non disprezza la lusinga del pubblico; non era della musica, ma piuttosto un mucchio di acrobatismi violinistici nei quali nessuno, si sa, potrà uguagliare Paganini. Bazzini non dovrebbe voler superare né quest’ultimo né se stesso; ciò mi sembra persino non corrispondere alla sua natura, che per piacere ed affascinare ha soltanto da spiegare i suoi vezzi.
Voglia dunque il mondo accordare al giovane, amabile e grande artista quell’interesse di cui è stato sovente così prodigo verso i meno degni. Ancora una qualità lo distingue, quella della modestia; non v’è nulla in lui che voglia incuriosire e stupire. Ne abbiamo già avuti abbastanza di pallidi virtuosi, stan-chi del mondo; rallegratevi d’un viso giovane e forte, dal cui sguardo appare la serenità e il desiderio della vita, come solo un animo veramente felice sa riflettere.

TARANTELLA, op. 43, di FEDERICO CHOPIN

Ecco un pezzo della più folle maniera di Chopin: par di vedere innanzi a sé il danzatore piroettante spinto dalla follia: e fa girar la testa anche a noi stessi. Nessuno può davvero dire bella questa musica, ma possiamo perdonare al maestro le sue selvagge fantasie, e gli si può permettere che per una volta ci lasci vedere le parti più tenebrose del suo animo.
D’altra parte Chopin non ha mai scritto per i critici d’antico stampo...

AFORISMI

Devi trovare melodie ardite, originali.

“M’è piaciuto” oppure “Non m’è piaciuto” dice la gente. Come se non ci fosse qualcosa di più elevato, che piacere alla gente!

Si parla spesso della corruzione del gusto del pubblico; chi l’ha guastato? Proprio voi compositori-virtuosi! Non mi consta che il pubblico si sia mai addormentato ad un concerto di Beethoven...

Mandar luce nel profondo del cuore umano - ecco il dovere dell’artista!

Nessuno può più di quanto sa. Nessuno sa più di quanto può.

In letteratura, chi non conosce le pubblicazioni nuove più importanti, è ritenuto incolto. Anche per la musica dovrebbe essere così.

I dilettanti vogliono capire in un baleno ciò che gli artisti hanno pensato per giorni, mesi ed anni?

IL SOGNO D’UNA NOTTE D’ESTATE
(da una lettera)

- Chi per primo deve sapere da me qualcosa sul Sogno d’una notte d’estate, sei naturalmente tu, amico carissimo. L’abbiamo visto ieri finalmente (quasi 300 anni dopo la prima rappresentazione). Che il direttore del teatro abbia voluto ornare proprio con questo spettacolo una sera d’inverno, attesta uno spirito giudizioso, poiché in piena estate si richiederebbe piuttosto un Racconto d’inverno - per ragioni ben note. Molti, posso assicurartene, vedevano volentieri Shakespeare soltanto per udire Mendelssohn; a me è accaduto il contrario. So benissimo che Mendelssohn non fa come i cattivi attori che, trovandosi casualmente a recitare con grandi attori, si dànno delle arie; la sua musica, eccettuata l’ouverture, vuol essere un accompagnamento soltanto, una meditazione, un ponte come fra Zettel e Oberon, senza di cui è impossibile un salto nel regno della féerie: poiché già ai tempi di Shakespeare essa aveva certamente la sua parte. Chi s’attendeva di più dalla musica si sarà trovato deluso: essa si mostra ancor più discreta che nell’Antigone, dove in verità i cori avevano costretto il musicista a una più ricca elaborazione. La musica, del resto, non interviene nel corso dell’azione nel rapporto amoroso dei quattro giovani; una volta soltanto descrive con emozione espressiva il cercare di Hermia del suo amante: questa è una parte eccellente. Nel resto, essa accompagna soltanto le parti féeriques dell’opera. Qui davvero Mendelssohn era a suo posto e nessuno, sai bene, lo sarebbe stato come lui.
Sull’ouverture tutti sono d’accordo da lungo tempo. Come forse nessun’altra opera del compositore questa ouverture è tutta penetrata dal fuoco ardente della gioventù e il maestro ormai esperto ha fatto, in uno dei momenti più felici il suo primo, altissimo volo. Fu per me una cosa commovente il veder spesso ricomparire dei frammenti dell’ouverture nei numeri della partitura composti più tardi: non mi piace però il finale dell’opera, che riporta quasi letteralmente il finale dell’ouverture. L’intenzione del compositore, d’arrotondare l’insieme, è ben chiara; ma essa mi sembra voluta troppo apertamente; Mendelssohn avrebbe dovuto cercare per questa scena le sue più fresche armonie; qui dove la musica poteva raggiungere il più grande effetto, io m’ero atteso qualcosa di originale, di nuovo. Cerca d’immaginare la scena dove gli Elfi, entrando da tutti i buchi e da tutte le fessure della casa ballano la loro ronda, mentre Droll
[È il Puck shakespeariano] sta a “scopare l’atrio lucente e candido” ed Oberon sparge la sua benedizione: “La pace sia in questo castello” ecc. - e dirai che certo non si poteva pensare una cosa più bella da metter in musica! Se Mendelssohn volesse ancora comporre qualcosa di meglio per questo passo!
Così m’è parso che nel finale fosse mancato il più alto effetto del pezzo; questo si è subito notato perché ci si ricordava della incantevole musica dei numeri precedenti, per esempio la testa d’asino di Zettel può ancor oggi divertire molti, l’incanto della verde notte nella foresta e la confusione che segue, restano indimenticabili per molto tempo; l’insieme però ha fatto l’impressione d’esser più che altro una “rarità”. Del resto, credimi pure, la musica è fine, ricca di spirito, fin dal primo apparire di Droll e degli Elfi, burlesca e scherzosa negli strumenti, come se li suonassero gli Elfi stessi, e si sentono dei suoni interamente nuovi. Estremamente amabile è ancora il canto degli Elfi che segue tosto, con le parole finali: “Ed ora buona notte, fa la nanna”; e così sempre quando sono in scena le fate. Dovresti ancora ascoltare una marcia (la prima, credo, che Mendelssohn abbia scritto) prima del finale dell’ultimo atto, che ricorda un po’ la marcia della Consacrazione dei suoni di Spohr: e per quanto avrebbe potuto esser più originale, contiene un “trio” molto grazioso. L’orchestra suonò eccellentemente sotto la direzione di M. D. Bach, gli attori non si son risparmiata nessuna fatica: gli scenari invece furono quasi pietosi...

NIELS W. GADE

In un giornale francese si leggeva recentemente:
“Desta l’attenzione in Germania un giovane compositore danese; si chiama Gade, viaggia spesso da Copenhagen a Lipsia e viceversa, col violino sul dorso, e rassomiglia a Mozart in carne ed ossa”. La prima e l’ultima frase sono perfettamente esatte; in quella di mezzo s’è inserito qualcosa di romantico. Il giovane danese, con la sua testa di Mozart dalla forte capigliatura che par scolpita in pietra, venendo in realtà qualche mese fa a Lipsia (sebbene tanto lui quanto il violino in carrozza) ben ha corrisposto alle simpatie che già avevano destato fra i nostri musicisti la sua ouverture per l’Ossian e la sua prima sinfonia.
Della sua vita esteriore v’è poco da dire. Nato a Copenhagen nel 1817, figlio d’un fabbricante di strumenti di quella città, nei suoi primi anni deve aver sognato piuttosto fra gli strumenti che fra gli uomini. Egli ricevette la sua prima istruzione musicale da uno dei soliti maestri che, ovunque, badano soltanto alla diligenza meccanica e non all’ingegno, e si dice anzi che il mentore non dev’esser stato particolarmente contento dei progressi dell’allievo. Egli imparò a suonare la chitarra, il violino e il pianoforte: ma senza distinguersi straordinariamente in nessuno di questi strumenti. Più tardi soltanto, ebbe in Wexschall e in Berggreen maestri più seri ed ebbe anche più volte consigli dall’eccellente Weyse. Produsse opere di diverso genere, di cui ora il compositore non vuol tener conto, perché sono, secondo lui, esplosioni d’una orribile fantasia. Più tardi egli entrò come violinista nella real cappella di Copenhagen, dove ebbe occasione di strappare agli strumenti tutti i loro segreti, segreti che qualche volta ci narra nelle sue opere strumentali. Questa scuola pratica, negata a tanti, inavvedutamente utilizzata da molti, lo educò principalmente a quella maestria dell’istrumentazione che dev’essergli riconosciuta senza discussione. L’ouverture Ricordi d’Ossian, che per giudizio di Spohr e di Schneider fu coronata del premio proposto dalla Società di musica di Copenhagen, deve avergli attirata l’attenzione del re, amatore dell’arte; cosicché egli ricevette, come molti altri ingegni suoi compatrioti, uno stipendio veramente regale per un viaggio all’estero ed egli cominciò da Lipsia, che per la prima l’aveva introdotto nel gran pubblico musicale. Egli v’è ancora, ma fra breve si recherà a Parigi, e di là in Italia. Approfittiamo dunque del momento, in cui la sua figura ci sta ancor fresca dinanzi, per dare alcuni tratti della personalità artistica di quest’uomo notevole, quale da tempo non s’è presentata ancora, fra i giovani.
Chi dalla sua rassomiglianza con Mozart, che ha davvero qualcosa di sorprendente, volesse conclude-re anche una rassomiglianza musicale, s’ingannerebbe di molto. Ci sta innanzi un carattere d’artista affatto nuovo. Sembra che le nazioni confinanti con la Germania vogliano emanciparsi dal dominio della musica tedesca: ciò forse potrà dispiacere a un teutomane, ma al pensatore dall’occhio acuto e al conoscitore dell’umanità parrà invece una cosa naturale e da rallegrarsene. Così Chopin rappresenta la sua patria, Bennett l’Inghilterra; I. Verhulst in Olanda dà speranze di divenire un degno rappresentante della sua patria, e in Ungheria si fanno valere egualmente delle aspirazioni nazionali. E poiché tutti considerano la nazione tedesca come la loro prima e più cara maestra nella musica, nessuno deve dunque meravigliarsi se essi vogliono tentar di parlare per la loro nazione una lingua propria, senza perciò rendersi sconoscenti agli insegnamenti della loro maestra. Giacché nessun paese del mondo ha dei maestri che possano paragonarsi ai nostri grandi, e nessuno ha fi-nora voluto negarlo.
Anche nell’Europa del Nord abbiam già veduto manifestarsi tendenze nazionali. Sindblad, di Stoccolma, ci ha tradotto i suoi vecchi canti popolari, Ole Bull pure, per quanto non sia un ingegno creatore di prima grandezza, ha tentato di renderci familiari gli accenti della sua patria. Gl’importanti poeti della Scandinavia, recentemente apparsi, devono pur aver dato un potente impulso al suo ingegno musicale anche se i monti, i laghi e le aurore boreali di lassù non gli abbiano ricordato che il Nord poteva ben parlare una sua lingua particolare.
I poeti della sua patria hanno ispirato pure il nostro giovane musicista; egli conosce e ama tutti; i vecchi racconti e le vecchie saghe lo accompagnavano nelle sue escursioni da ragazzo e l’arpa eolica d’Ossian gli risonò dalle sponde dell’Inghilterra. Così si mostra per la prima volta nella sua musica, e special-mente in quell’ouverture d’Ossian, un carattere nordico decisamente impresso; ma certo Gade stesso non negherà quanto deve ai maestri tedeschi. Essi hanno ricompensato la sua grande diligenza e il grande studio dedicati alle loro opere (egli conosce quasi tutte le loro composizioni) col dono ch’essi concedono a tutti coloro che si mostrano loro fedeli: cioè, con la consacrazione della maestria.
Fra i nuovi compositori è specialmente riconoscibile l’influsso di Mendelssohn in certe combinazioni strumentali, ciò risulta particolarmente nei Ricordi d’Ossian; invece nella sinfonia, parecchie cose ci ricordano F. Schubert; ma ovunque si fa valere uno stile melodico interamente originale come finora non s’era ancor presentato in un modo così popolare nei generi più elevati della musica strumentale. In genere, la sinfonia si solleva sull’ouverture sotto ogni rapporto; sia nella forza naturale, come nel magistero della tecnica.
C’è da desiderare ancora una cosa: che l’artista non si perda nella sua nazionalità e che la sua fantasia “creatrice d’aurore boreali” (come la definì qualcuno) si mostri ricca e varia, tanto da poter figger lo sguardo anche in altre sfere della natura e della vita. Così si potrebbe dire a tutti gli artisti, di raggiungere prima l’originalità per poi rifiutarla; a guisa di serpente l’artista si spogli quando l’abito vecchio comincia a sdrucirsi.
Ma l’avvenire è oscuro; accade che il più delle cose vada altrimenti di come pensiamo; per ora possiamo soltanto esprimere la speranza che noi attendiamo da questo ingegno distinto opere più solide e più belle. Come se già il caso del nome [G-a-d-e = sol-la-re-mi], come Bach, l’avesse spinto verso la musica, le quattro lettere del suo nome formano in strana guisa le quattro corde vuote del violino. Nessuno contesterà questo piccolo segno d’un più alto favore, e nemmeno quest’altro ancora: che il suo nome si può scrivere in quattro chiavi con una nota sola, che sarà facile da trovare per i cabalisti.
Entro questo mese attendiamo ancora una seconda sinfonia di Gade; essa è diversa dalla prima, cioè più delicata e leggera: e ci fa pensare alle piacevoli foreste di faggi della Danimarca.