BIOGRAFIA E DOCUMENTI - 1836

L'infatuazione per la compagna di studi non dura più di un anno; con l'inizio del 1836 Schumann le scrive avvertendola di ritenersi libera. Nel frattempo un amore più profondo e decisivo sconvolge Robert, quello per Clara Wieck. D'altronde già il ritratto di Chiama nel Carnaval anticipava, con quella lucidità premonitrice tipica del musicista, la futura grande passione che sarebbe scoppiata di lì a poco. Al suo confronto il brano dedicato ad Emestine nella medesima raccolta risulta ben altrimenti distaccato. Come accadrà altre volte, la musica di Schumann non solo si rivela strettamente legata alla sua vita, ma anzi preannuncia eventi e scelte future.
La figlia di Wieck, giovanissima pianista dalle qualità non comuni, ha appena quindici anni; Robert l'ha vista crescere, ha familiarizzato con lei bambina ed ora se ne trova irrimediabilmente attratto. L'infanzia è uno dei miti romantici da lui più sinceramente sentiti, in quanto età della purezza incontaminata, della sensibilità vergine, capace di cogliere verità sconosciute all'età adulta, ormai compromessa con le volgarità della vita pratica. L'infanzia quale età dell'oro troverà celebrazione musicale in due mirabili lavori pianistici, le Scene infantili op. 5 e il più tardo Album per la gioventù op. 68. Né Schumann è il solo a vivere questo ideale; molti romantici, letterati e musicisti, hanno creato quest'aura mitica attorno alla prima età della vita, e hanno idealizzato amori con donne-bambine come nel caso del poeta Novalis che vive un tragico amore per una ragazza morta quindicenne di tisi e alla quale dedica i celebri Inni alla notte.
Meno drammatica, coronata da un finale successo, ma comunque alquanto tormentata è la storia d'amore di Robert e Clara. Il padre, terribilmente geloso della figlia che vorrebbe destinata ad un futuro di grande concertista e non certo di moglie di un oscuro compositore, si oppone in tutti i modi a questa unione, obbligando la ragazza a lunghe tournées concertistiche pur di tenerla lontana da Robert. Né sembra ora più valere il generoso giudizio su Schumann espresso al barone von
Fricken: "Quante cose avrei da scrivere su questo essere un po' bizzarro, testardo ma nobile, splendido, entusiasta, mirabilmente dotato, di vasta cultura, scrittore e musicista geniale". Addirittura Wieck proibisce a Clara di scrivere a Robert; inizia allora un lungo rapporto epistolare clandestino, in cui la forzata lontananza dei due innamorati accende maggiormente l'enfasi e la passione contenute in quelle lettere. A ciò si aggiunge la morte della madre di Robert nel febbraio del '36, morte di una madre amica e confidente che lascia il giovane solo e ancor più desideroso di consolidare il suo legame con Clara a qualunque costo.

Scrive in quei giorni alla giovane "bloccata" a Dresda:

La tua immagine radiosa si libra al di sopra di queste tenebre e mi aiuta a sopportare tutti i miei dolori [...] Tuo padre ritirerà forse la mano quando gli domanderò la sua benedizione? E probabile che avremo molto da fare, molto da spianare prima di giungere alla felicità, ma io ho fiducia nel nostro buon genio. E il destino che ci ha segnati affinché siamo l'uno dell'altra. Io lo sapevo da gran tempo, solamente non m'ero ancor sentito abbastanza audace per confessarti i miei sentimenti ed essere compreso da te.

Parole profetiche: ci saranno molti ostacoli da spianare prima del sospirato matrimonio.

Nel giugno di quell'anno Wieck riesce a convincere la figlia a rompere con il giovane compositore e obbliga Robert a restituire tutte le lettere mentre gli fa riavere le sue. Clara è sempre più lontana, in giro per la Germania a suonare; un quarto personaggio poi si intromette: è Banck, l'organizzatore dei concerti della ragazza che instilla in lei il dubbio: il silenzio di Robert sarebbe segno di disinteresse; è inaffidabile, volubile, malato, nervoso; pensa solo a se stesso, come ha già dimostrato con Ernestine.
La disperazione e la solitudine di Schumann trovano sublime espressione in nuove, struggenti creazioni quali la Sonata in fa diesis minore op. 11, il Concerto senza orchestra op. 14 e la Fantasia op. 17, ovvero "ciò che ho scritto di più appassionato, un lungo grido d'amore per te" come ebbe a definirla l'autore. In effetti in quegli ultimi mesi del '36 Robert si sente abbandonato:

Non sapendo nulla dite volevo dimenticarti ad ogni costo. A quel tempo eravamo stati costretti a diventare estranei l'un l'altra. Mi ero rassegnato. Poi l'antica sofferenza esplose di nuovo, mi torcevo le mani spesso la notte imploravo Dio. [MURSIA-RAUSA]

Il 1º gennaio 1836 Schumann scrive a Ernestine von Fricken per annunciarle che si ritiene libero di disporre del proprio avvenire.
La fanciulla soffre. Robert non può farci nulla; è stato vittima di un errore. Egli, inoltre, ha paura della povertà di Ernestine. Questa paura vien rimproverata da parenti a Schumann come una mancanza di nobiltà d'animo. È dunque opportuno il considerare com'egli, nella ristrettezza economica, scorga soltanto un ostacolo alla carriera d'artista. Lui, che lavora tanto per guadagnar così poco, si vede incatenato, costretto alla schiavitù interminabile del pane quotidiano. Così prospettato (e così si deve prospettarlo) il conflitto balza su un piano singolarmente più alto. Miseria o benessere, che importa! Si tratta di creare, e il genio, per affermare la propria misura, esige talora una certa durezza di cuore.
Di ritorno da Zwickau, Robert e Clara si abbandonano al loro amore con foga appena repressa, con una prudenza da cui affiorano continue rivelazioni. Quando si parlano, tutti i loro sforzi non riescono a reprimere i loro sentimenti. Wieck non tarda a comprendere che i due giovani si amano. Egli non cederà mai ad alcuno colei che suole chiamare "la nostra Clara", quella che è per lui come una giovane dea uscita tutt'armata dal suo cervello, pronta a sbalordire la Germania musicale! Non fa gran differenza fra Schumann e il diavolo.
Mentre Schumann riprende la sua libertà nei confronti di Ernestine von Fricken, Wieck fa il possibile per rompere il legame che unisce l'allievo a sua figlia. Fin dai primi giorni di gennaio, manda Clara a Dresda e le proibisce di scrivere all'amico Robert, senza por tempo in mezzo, scrive a Becker, segretario delle Finanze a Dresda, ottenendo che le sue lettere vengano direttamente consegnate a Clara per mezzo di costui e che le risposte di Clara seguano la stessa via. Lo scambio di quelle prime missive clandestine rappresenta una grande consolazione in mezzo alla malinconia del sapersi separati, non per circostanze fortuite, ma per la volontà di un uomo, di Wieck. Alla consolazione, però, segue ben presto un immenso dolore: il 4 febbraio 1836 Johanna Christiana Schumann, la madre adorata, si spegne. Robert è come pazzo per il dolore; venuto a conoscere che Wieck starà assente per qualche giorno, si precipita a Dresda e là trova conforto fra le braccia di Clara. Dal 7 all'11 febbraio, essi conoscono una gioia piena d'angoscia, una specie di esaltazione dolorosa attraverso cui il loro amore prende coscienza della propria grandezza. Il 13 febbraio Schumann deve lasciare la fanciulla e recarsi a Zwickau per gli affari della successione. Dall'ufficio postale di questa città, il 13 febbraio 1836, alle 10 di sera, scrive a Clara:

Il sonno mi chiude gli occhi. Già da due ore attendo la diligenza. Le strade sono in così cattivo stato che dovrò forse aspettare fino alle due. Quanto mi sei vicina, mia amata, amata Clara; talmente, che quasi mi sembra di poterti toccare. Una volta sapevo esprimere con grazia a parole il mio attaccamento a qualcuno; ora non ne sono più capace. E se tu non lo sapessi non potrei dirtelo. Amami anche tu profondamente. Ascolta: io pretendo molto, perchè dò molto.
Oggi è stata una giornata piena d'emozioni: l'apertura del testamento di mia madre, dei dettagli sulla sua morte [57]. Per fortuna su tutte queste tenebre aleggia la tua immagine sfavillante, che m'aiuta a sopportare ogni cosa con maggior facilita.
Devo anche dirti che il mio avvenire si prospetta ora molto più sicuro di prima. Cioè, non potrò rimanere con le mani in mano e dovrò lavorar molto per raggiungere ciò che conosci .... se passi per caso davanti allo specchio. Nel frattempo, anche tu continuerai a dedicarti all'arte, è non farai come la contessa Rossi [58]; cioè anche tu sopporterai, lavorerai con me. Divideremo gioie e dolori. Scrivimi ciò che pensi in proposito.
A Lipsia, mia prima cura sarà di mettere in ordine le questioni materiali; in quanto al morale, è illibato. Forse tuo padre non ritirerà la mano quando gli chiederò la sua benedizione. Senza dubbio bisognerà ancora pensare, appianare molte cose. Ma confido lo stesso nella nostra buona sorte. Siamo certo destinati l'uno all'altra. E già da molto tempo che lo so, ma non osavo dirtelo prima, nè speravo d'esser compreso da te.
Ti spiegherò più tardi con chiarezza ciò che oggi ti scrivo così brevemente e saltuariamente. Verso la fine non potrai neppure decifrare ciò che scrivo. Sappi soltanto che t'amo indicibilmente.
Nella stanza fa sempre più buio. Alcuni viaggiatori dormono vicino a me. Fuori, nevica fitto. Voglio rincantucciarmi in un angolo, col capo affondato nel cuscino e non pensare che a te. Addio, mia Clara

Il tuo Roberto

Le chiede anche di scrivergli spesso, "tutti i giorni". Riceve infatti qualche messaggio; ma poi, improvvisamente, il silenzio avvolge Clara. In preda all'ansia chiede notizie a Becker, che gli fa sapere che Clara è partita alla fine di febbraio per la Slesia, impegnata in una serie di concerti; che "il Vecchio" (Wieck) ha scoperto l'esistenza della loro corrispondenza e che ha intimidito la figlia a tal punto da convincerla a interrompere ogni rapporto con l'amico.
Il 1º aprile scrive alla cognata Teresa Schumann:

Mia carissima Teresa,
anch'io ho pensato così intensamente a te durante la settimana trascorsa, che spesso ho creduto di poterti toccare con la mano. Non posso dirti quanto mi senta felice, sicuro e protetto al pensiero dell'affetto che hai per me. E questo, perchè hai un cuore forte e sai sopportare, incoraggiare, consolare. Io me ne andrei da qui [Lipsia] unicamente nel caso che mi si presentassero prospettive vantaggiose. Edoardo non ha che scherzato parlando di Vienna; sono soltanto progetti fatti in sogno. In nessun caso ciò avverrebbe prima di Natale. Pensa a quello che dovrei lasciare! Anzitutto, abbandonare la mia patria - possa il mio cuore non esser mai così insensibile da rimanere indifferente a ciò ! - poi i miei parenti, te, che posso raggiungere in un paio d'ore; e infine Lipsia stessa, ove tutto fiorisce e si espande; e Clara, e Mendelssohn, che ritornerà qui il prossimo inverno, e mille altre cose. Se il mio avvenire potesse venir consolidato da un cambiamento, non esiterei un minuto; ma certamente non lo intraprenderò alla leggera e senza garanzie! Ciò mi farebbe perder terreno, che poi mai più potrei riguadagnare. Non sopporterei di dover ritornare sui miei passi. Dunque, noi saremo riuniti almeno ancora un anno; anno che cercheremo di trascorrere lietamente e d'impiegare per il bene reciproco. Quest'estate verrò a passare una o due settimane da te; dopo che tu sarai venuta a trovarmi, naturalmente. Combineremo tutto ciò.
Se tu conoscessi a fondo la mia vita attuale, mi faresti molte lodi: siccome m'è sempre piaciuto presentarmi sotto aspetti eccezionali, dal fumatore e bevitore di birra impenitente che ero, son divenuto uno dei più moderati. Fumo al massimo quattro sigari al giorno e non bevo una goccia di birra da due mesi. Tutto procede alacremente, ed io me ne vanto parecchio. Dunque non lodarmi, perchè lo faccio anche troppo da me!
Mendelssohn [59] è per me come una cima elevata, verso la quale innalzo lo sguardo. È un vero dio; bisogna che tu lo conosca. Oltre a lui, sono in relazione con David [60], il direttore d'orchestra, con un certo dott. Schlemmer, che accompagna il giovane Rotschild, e con quest'ultimo. Tutti e tre saranno ancora a Lipsia quando tu ci verrai. Il dottore ti piacerà certamente: è un uomo di mondo da capo a piedi. Il dott. Reuter e Ulex [61] sono naturalmente i miei soliti compagni. Di Wieck e di Clara parleremo a voce; con loro mi trovo in una situazione critica, ed ora mi mancano la pace e il discernimento necessari per chiarirla. Le cose sono a tal punto, che o non potrò più rivolgerle la parola o ella sarà mia. Saprai tutto quando verrai qui, e m'aiuterai a trovare la via migliore.

Schumann, col, cuore gonfio di tristezza, aspetta un segno per potersi sfogare. Il segno viene ma dalla parte di Wieck. Nel mese di giugno: il "Vecchio" scrive imponendo a Schumann di rendere tutte le lettere ricevute da Clara, mentre lui, a sua volta, restituisce quelle di Schumann.
Schumann trova un qualche conforto nel fatto che la sua situazione di fronte a Clara è ben chiara: si tratta di non poter mai più rivolgerle la parola o di averla intieramente sua. Di riconquistarla in un avvenire più o meno lontano ha molta speranza. Ogni occasione per corrispondere con l'oggetto del suo amore è ansiosamente spiata, ma gli avvenimenti non sembrano favorevoli. Nel mese di agosto, Clara fa una comparsa a Dresda; Becker si precipita a cercarla ma non riesce a vederla da sola. Tosto la fanciulla riparte, si sposta continuamente, e lascia addirittura credere che non tornerà a Lipsia mai più.
Schumann ne perde le tracce, le ritrova, le perde di nuovo; si rivolge a parecchie persone e tutte rifiutano di trasmettere le sue lettere per paura di Wieck. Si ostina. Ha l'impressione che Clara si allontani stranamente da lui nel tempo e nello spazio, ma che il suo cuore non sia cambiato. È a questo punto che Banck, il "Serpentinus" della Neue Zeitschrift für Musik, si dà da fare per convincere Robert dell'indifferenza di Clara a suo riguardo. In tutta questa faccenda Banck ha veramente il ruolo del serpente. La sua parte è doppia; si rivolge a Schumann e lavora per staccarlo da Clara, poi si rivolge a Clara e mette a profitto la solitudine e lo smarrimento in cui essa vive per attirarla verso di lui. La compiange perché soffre per un uomo che si è disinteressato di lei, che avrebbe dovuto, se l'avesse amata sinceramente, superare ogni ostacolo per conquistarla e che invece si è abbandonato a una colpevole apatia: " Lei sa, dice a Clara, quanto Schumann sia entusiasta e pronto all'azione nei casi in cui giudica ciò necessario. Allora, perché tace, perché non cerca di vederla? Per conto mio, avendolo sempre giudicato instabile nei suoi sentimenti, nulla mi prova che egli non si interessi già di un'altra donna ".
Per "Serpentinus" nulla è più facile che sostenere in entrambi i due innamorati una fondamentale, reciproca indifferenza. In questo suo comportarsi con Clara, "Serpentinus" è aiutato dal Vecchio, il quale mette avanti abilmente il nome di Ernestine von Fricken. "Ti abbandonerà, come ha abbandonato quell'altra; non pensa che a sé, è nervoso, malato, incapace di fissare il suo cuore".
Clara è affranta. Le sembra, talvolta, che colui che ha amato sia morto, e che lei possa ormai abbandonare la testa sulla spalla del primo venuto, senza che ciò abbia alcuna importanza. A poco a poco, cede alle proposte di Banck, che si mostra premurosissimo, che le fa da guida attraverso il labirinto della produzione musicale, che si occupa di organizzare i suoi concerti. Quando rientra da una tournée, le prime persone che incontra sulla sua strada sono, invariabilmente, Banck e la matrigna. "Serpentinus" può ormai contare su un successo a portata di mano.
Quanto a Robert, egli, dapprima, rifiuta di credere che Clara abbia cessato di amarlo. Egli è andato a lei col cuore scoperto e ha trovato l'accoglienza che si attendeva: non son cose che si possono dimenticare. Wieck è riuscito, sí, a impedire i convegni e la corrispondenza; ma non a raffreddarne i sentimenti d'amore.
Qualche anno prima, scrivendo alla madre, Schumann aveva detto che la musica è come un linguaggio, ma un linguaggio nobilitato dal cuore. Ebbene, un tal linguaggio egli ha sempre il diritto di parlarloo a Clara. Ecco: finisce di comporre la Sonata in fa diesis minore e vi rinchiude dentro tutti i gridi della sua solitaria disperazione, tutte le confessioni della sua anima oppressa, tutta la speranza... Poi la dedica a Clara Wieck. Un appello formidabile, egli pensa, non potrà mancare di commuovere la fanciulla, di farla ritornare fra le sue braccia.
Ma la Sonata in fa diesis minore cade in un abisso di silenzio. Allora, a sua volta, Robert è preso dal dubbio. Passano i mesi, passano l'autunno, l'inverno, la primavera. La gente, intanto, come è facile immaginare, si è fatta premura di comunicargli l'inclinazione di Clara per Banck. Alla notizia del tradimento, egli ha creduto di impazzire. Si è dato allora a cercare contatti e consolazioni dovunque; ha aperto le porte del suo appartamento a tutti gli amici e li ha invitati a stringersi intorno a lui, solo sulla terra. Mendelssohn, Chopin, Lipinski
[Karol Lipinski (1790-1861), celebre violinista polacco; Paganini lo stimò, gli diede lezioni e suonò con lui. Dal 1839 al 1859 fu Konzertmeister (primo violino) all'orchestra dell'Opera di Dresda; suonò dunque sotto la direzione di Wagner (dal 1843 al 1849).] Louis Berger, Henriette Karl, il nipote di Goethe, l'adolescente Stamaty, William Sterndale Bennett lo circondano del loro affetto. Ma egli non può dimenticare.

Alla cognata Teresa Schumann

Lipsia, 15 novembre 1836

Mia cara Teresa,
quante volte ti vedo seduta, sola, vicino alla finestra, con la testa appoggiata al braccio, canterellando sottovoce una canzone, e chiedendoti forse se un certo Roberto è degno del molto amore di cui lo si colma! Varie ragioni m'hanno impedito sia di venire che di scrivere. Anzitutto Chopin [62], Lipinsky, Mendelssohn, la Carl, Luigi Berger [63] e cento altri. Sono arrivati l'uno dopo l'altro. Se tu fossi qui, come vorrei presentarteli tutti! Vedresti e conosceresti gente ben più interessante d quella che incontri a Zwickau! Ora c'è qui anche un giovane, Stamaty [64], che per me è come disceso delle nuvole: è un giovanotto intelligente, bellissimo, distinto e di ottimo cuore; nato a Roma da genitori greci, educato a Parigi, completa ora i suoi studi musicali con Mendelssohn. Egli ti piacerebbe molto. Avevamo fatto il progetto di venire assieme alla festa musicale di Zwickau, ma non l'abbiamo potuto realizzare. Rimarrà qui sino alla primavera; dunque lo vedrai quando verrai per la fiera, o forse noi verremo ancor prima da te. Per ora egli parla molto male il tedesco; tanto meglio per il mio esercizio di francese! Abbiamo pure nel nostro circolo quotidiano un giovane inglese, William Bennett [65], inglese da capo a piedi, anima bella e poetica, meraviglioso artista. Forse te lo condurrò pure. Mendelssohn ha una fidanzata, ed è totalmente preso da costei, che non è, però, della sua grandezza e amabilità. Non passa giorno che egli non esprima qualche pensiero degno d'essere incastonato nell'oro. La sua fidanzata si chiama Cecilia Jeanrenaud, è figlia di un pastore protestante e cugina del dott. Schlemmer. A Natale, egli andrà a trovarla a Francoforte, vuole condurmi con sè e forse lo seguirò. Pensati che il dott. Schlemmer è stato infine decorato d'un ordine dell'Assia elettorale! Ciò gli si adatta bene. Da lungo tempo io gli avevo predetto che non morrà senza una decorazione! Ora si trova a Heidelberg con Rotschild. David sposerà questa settimana e rimarrà direttore dorchestra malgrado i centomila talleri che sua moglie gli porta in dote. Oltre a tutti questi amici, abbiamo alla nostra tavola un giovane ricchissimo e pieno di talento. Franck di Breslau e il giovane Goethe [66] - nipote del grande - il cui carattere non dimostra per ora nessuna particolarità...
Così hai un quadro fedele della nostra vita esteriore. Ho trascorso una grande quantità di belle ore con Lipinsky, che m'ama, credo, come un suo figliuolo... La signorina Carl, che è ancora qui, non vale molto come artista, e la pubblicità che fanno intorno al suo nome è insopportabile. Ma, all'infuori di ciò, mi piace; non fa molti complimenti, parla con franchezza, si rende conto di ciò che le manca e ha conservato delle vecchie maniere di 'prima donna' che non le stanno, d'altronde, male...
Infine, mia cara Teresa, ti prego di serbarmi la tua tenerezza. Io penso quotidianamente a te con gioia e spesso con emozione. Allora mi sembra d'appoggiarmi a te e di sentir battere il tuo cuore...

***

Verso la metà di gennaio del 1836 Wieck portò Clara a Dresda, probabilmente per allontanarla da Schumann. Questo, a sua volta, fu richiamato il 4 febbraio a Zwickau dalla morte della madre e, approfittando di un'assenza temporanea di Wieck, poté incontrare Clara tra il 7 e l'11. Quando, al suo ritorno, ne fu informato, Wieck si infuriò con Clara e scrisse a Schumann per rompere ogni relazione con lui; può darsi che avesse intuito che Schumann era ammalato di sifilide. Quando infine padre e figlia fecero ritorno a Lipsia l'8 aprile, gli innamorati furono costretti a rimanere lontani; Clara ubbidì al padre e mostrò persino una certa inclinazione per Carl Banck, che Wieck aveva scelto per impartirle lezioni di canto e che poi sostituì Schumann presso di lei come insegnante di composizione. Da parte sua, Schumann «andò in cerca di Charitas» più e più volte e annotò in seguito che, nel gennaio 1837, la cosa ebbe «conseguenze».
Quando l'8 giugno la Sonata in Fa diesis minore op. 11 («Dedicata a Clara da Florestan ed Eusebius») fu pubblicata, Schumann ne mandò a Clara una copia ed ella rispose, senza dubbio perché costretta, restituendogli tutte le sue lettere e chiedendo che lui facesse altrettanto. Il 5 giugno Schumann completò un'altra sonata, quella in Fa minore op. 14, originariamente in cinque movimenti, che fu pubblicata nel corso dell'anno da Haslinger di Vienna senza i due Scherzi e con il titolo «Concert sans orchestre»; uno degli Scherzi fu reintegrato nel 1853, in occasione della seconda edizione, come Troisième grande sonate e l'altro fu pubblicato separatamente, su iniziativa di Brahms, nel 1866. Nello stesso mese Schumann abbozzò anche un'altra sonata per pianoforte, in Do, esprimendovi tutta la sua rassegnata disperazione; il lavoro, concepito anche come un contributo al progetto di monumento commemorativo di Beethoven a Bonn, fu sostanzialmente completato per l'inizio di dicembre e offerto il 19 dicembre a Kistner con il titolo di Ruinen, Trophäen, Palmen: grosse Sonate für das Pianoforte, für Beethovens Monument, von Florestan und Eusebius, con il suggerimento che cento copie fossero cedute alla Commissione di Bonn per la vendita; non se ne fece nulla e il lavoro, soprattutto l'ultimo movimento, col velato riferimento alla Settima beethoveniana, subì un considerevole rimaneggiamento prima di essere pubblicato come Phantasie op. 17 nell'aprile 1839.
All'inizio di agosto del 1836 Schumann stava «pensando a un quintetto per archi e a un pezzo per due pianoforti», ma il progetto non ebbe seguito. Un'altra visita di Chopin (il 12 settembre) sembra averlo riportato, la settimana successiva, ai suoi Etudes symphoniques; passò «l'intera giornata del 18 settembre al pianoforte», componendo «études con gran fervore ed eccitazione». Sembra che il finale attuale sia stato composto in un periodo ancora successivo, perché Sterndale Bennett,

il giovane discepolo di Mendelssohn che in quello stesso finale fu salutato musicalmente con una citazione di Marschner, giunse a Lipsia soltanto il 29 ottobre. Il primo soggiorno a Lipsia di Sterndale Bennett,

che si legò a Schumann di calda amicizia, durò fino al giugno dell'anno successivo; vi trascorse un secondo periodo dall'ottobre 1838 al marzo 1839. [ABRAHAM]

1836

UN MONUMENTO A BEETHOVEN
(4 opinioni in proposito)

I.

Il mausoleo del ricordo futuro sta innanzi a me già finito: una base abbastanza alta, con sopra una lira, l’anno di nascita e di morte, poi il cielo e qualche albero intorno.
Uno scultore greco, a cui s’eran rivolti per il piano d’un monumento ad Alessandro, propose di tagliare il monte Athos per fare la statua di lui; che in una mano teneva una città nell’aria; fu creduto pazzo ma, in verità, lo era meno di questi sottoscrittori tedeschi da un soldino. - Felice te, o imperatore Napoleone, che dormi lontano in mezzo all’oceano, ché noi tedeschi non ti possiamo inseguire con un monumento, per le battaglie che hai vinto contro di noi o con noi: tu sorgeresti dalla tomba col raggiante “Marengo, Parigi, passaggio delle Alpi, Sempione” e il mausoleo crollerebbe in frantumi! Ma la tua sinfonia in re minore, o Beethoven, e tutti i tuoi canti di dolore e di gioia non ci sembrano ancor grandi abbastanza, per risparmiarti un monumento, e non ti sottrarrai in alcun modo alla nostra stima!
Io capisco dal tuo aspetto, Eusebio, come le mie parole t’incolleriscano e come ti lascieresti impietrire, per pura bontà d’animo, in statua in uno Sprudel
[Sorgente bollente] di Carlsbad, se potessi con ciò esser utile al comitato.
Ed io non porto forse in me il dolore di non aver mai veduto Beethoven, di non aver mai premuta la mia fronte ardente sulla sua mano, anche se avessi voluto dare per ciò una gran parte della mia vita?... Salgo lentamente le scale della Schwarzspanierhaus n. 200; tutto è inanimato intorno a me; entro nella sua camera: egli si rizza, simile ad un leone, la corona sul capo, una spina nella zampa. Egli parla dei suoi dolori. Nello stesso momento mille incantati entusiasti s’aggirano fra le colonne del tempio della sua sinfonia in do minore. Ma le pareti potrebbero cadere in pezzi. Egli ha un gran desiderio di andar fuori, si lamenta che lo si lasci così solo, e che così poco si curino di lui. In questo momento i bassi riposano su quel suono profondissimo ch’è nello scherzo della sinfonia; non un respiro: i mille cuori pendono ad un capello su di un abisso insondabile ed ora il capello si strappa e lo splendore delle cose eccelse fa sorgere arcobaleni su arcobaleni, uno accanto all’altro. Noi corriamo per le strade: nessuno che lo conosca, che lo saluti. Rimbombano gli ultimi accordi della sinfonia: il pubblico si frega le mani, il filisteo esclama con entusiasmo: "Questa è vera musica!". Cosi lo festeggiavate nella vita; ma nessun accompagnatore, nessuna accompagnatrice che gli si sia offerta; egli morì nel modo più doloroso, come Napoleone, senza avere un bimbo al petto, nel deserto d’una grande città. Fategli dunque un monumento - forse lo merita; ma allora possano stare un giorno sul vostro piedestallo rovesciato, quei versi di Goethe:

Solange der Tüchtige lebt und tut,
Möchten sie ihn gern steinigen;
Ist er hinterher aber tot,
Gleich sammeln sie grosse Spenden
Zu Ehren seiner Lebensnot
Ein Denkmal zu vollenden.
Doch ihren Vorteil sollte dann
Die Menge wohl ermessen,
Gescheiter wär’s, den guten Mann
Auf immerdar vergessen.

[“Finché l’uomo genialmente operoso vive ed agisce, - lo vorrebbero lapidare volentieri; - ma appena è morto, - subito raccolgono grandi oboli - per innalzare un monumento - in onore della sua lotta per la vita. - La folla però dovrebbe ben - misurare il suo interesse - sarebbe più avveduto, il brav’uomo - dimenticare per sempre.”]

Florestano.


II.

Se qualcuno mai dovesse esser assolutamente sottratto all’oblio, si dovrebbe preferibilmente rendere un po’ d’immortalità ai critici di Beethoven, specialmente a quello che nella Gazzetta musicale universale, anno 1799, pag. 151 prevede: “Se il signor von Beethoven non volesse più smentire se stesso e seguire il corso della natura, col suo ingegno e colla sua applicazione egli certamente potrebbe darci molto di buono per uno strumento, che ecc.”.
Sì, certo, è nel corso della natura e nella natura delle cose! Trentasette anni son passati, frattanto: come un girasole del cielo il nome di Beethoven s’è sviluppato, spiegato, mentre il critico s’è appassito in una soffitta come un’ortica secca.
Ah! vorrei malgrado ciò conoscere il briccone, per aprire una sottoscrizione che gl’impedisse di morire affamato!
Börne dice: "Finiremo per fare un monumento anche al buon Dio". Io dico, già un monumento è una rovina minacciata per il futuro (come la rovina è, a sua volta, un monumento scomparso) ed è cosa che dà da pensare; e non parlo poi di due o tre monumenti…
Posto che Vienna abbia sentito gelosia per Bonn e che insistesse per fare un monumento, che ridere, quando ci si domanderà: ma ora qual è proprio il vero? Ambedue le città ne hanno diritto, il suo nome è nei registri delle due chiese; il Reno si proclama sua culla, il Danubio (triste gloria, veramente) sua tomba. I poeti forse preferiscono quest’ultimo, perché scorre verso l’Oriente e sbocca nel grande Mar Nero; ma gli altri vantano le beate rive del Reno e la maestà del Mar del Nord. Infine, s’aggiunge, quale centro della cultura tedesca, anche Lipsia, col merito speciale, fra i tanti che le ha fatto piovere la grazia del cielo, d’essersi interessata la prima alle composizioni di Beethoven. Io spero dunque su tre monumenti.
Una sera, andai al cimitero di Lipsia per cercare il luogo di pace d’un Grande: cercai per molte ore a destra e a sinistra, non trovai nessun “J. S. Bach” e quando interrogai su ciò l’interratore, egli scrollò il capo per l’oscurità del nome e disse: "Di Bach ve ne son molti!". Sulla via del ritorno mi dissi: come il caso qui opera poeticamente! Affinché noi non pensiamo alla polvere fugace, affinché nessun’immagine della morte comune ci sorgesse innanzi, il caso ha sparso la cenere al vento, e così non voglio più pensare a Bach in altro modo che seduto all’organo, dritto nel suo abito più elegante: e mentre sotto le dita freme lo strumento i fedeli guardano devotamente in su e forse gli angeli guardano in giù. - Al suo posto, o Felix Meritis, uomo dall’anima alta come la fronte, suonasti uno dei suoi corali variato, quello colle parole: “Fatti bella, anima mia”; intorno al canto fermo sono inserte corone di foglie dorate e vi è versata una tale beatitudine che tu stesso mi confessasti: "Se la vita t’ha presa la speranza e la fede, questo solo corale ti ridonerebbe tutto". Su ciò tacqui e tornai di nuovo, quasi macchinalmente, al cimitero e colà sentii un dolore pungente, perché io non poteva deporre sulla sua tomba nemmeno un fiore, così i leipzighesi del 1750 caddero dalla mia stima. Risparmiatemi d’esprimere i miei desideri su di un monumento per Beethoven.

Gionata.


III.

In chiesa si deve camminare in punta di piedi, perciò tu, Florestano, m’offendi col tuo entrare impetuoso. In questo momento mi stanno ascoltando molte centinaia di uomini; il problema è tedesco: è il più alto artista della Germania, il più alto fra i rappresentanti della parola e dello spirito tedesco, non eccettuato Jean Paul, che dev’essere celebrato; egli appartiene all’arte nostra; si lavora faticosamente da molti anni al monumento di Schiller, per quello di Gutenberg si è ancora al principio. Voi meritereste tutte le beffe di Janin, tutte le villanie d’un Börne, tutti i calci d’una sfrenata poesia di Lord Byron, se lasciate cadere la cosa in tal modo o la spingete innanzi così indolentemente!
Voglio porvi un esempio sotto gli occhi. Specchiatevi! - Quattro povere sorelle vennero, un tempo, dalla Boemia nella nostra città: suonavano l’arpa e cantavano. Possedevano molto ingegno, ma di studio regolare non sapevano nulla. Allora un uomo pratico dell’arte [Il Cantor della scuola di San Tommaso, Hiller (Sch.)] si occupò di loro, le istruì ed esse divennero, grazie a lui, donne distinte e felici. L’uomo era morto da lungo tempo e soltanto i più intimi si ricordavano di lui. Un giorno, forse vent’anni dopo, giunse da lontani paesi uno scritto delle quattro sorelle, che dava i mezzi sufficienti perché si potesse elevare al loro maestro un monumento. Questo sta sotto le finestre di J. S. Bach e quando i posteri s’informano di Bach li colpisce anche quel semplice monumen-to che, tanto al benefattore come alla gratitudine, assicura un commosso ricordo. Ed allora perché un’intera nazione di fronte a un Beethoven (che ad ogni pagina le insegna grandezza di sentimenti ed orgoglio di patria), non dovrebbe elevargli un monumento mille volte più grande? Se fossi un principe costrurrei per lui un tempio nello stile del Palladio: vi sarebbero dieci statue; Thorwaidsen e Dannecker non potrebbero crearle tutte, ma almeno potrebbero farle finire sotto i loro occhi; nove sarebbero le statue, come le Muse, per le sue sinfonie: Clio sarebbe l’Eroica, Talia la Quarta, Euterpe la Pastorale e così via, Egli il divino Musagete. Là dovrebbe raccogliersi di tempo in tempo il popolo dei cantori tedeschi, là dovrebbero tenersi gare, feste, là dovrebbero essere eseguite le sue opere nel modo più perfetto. Oppure, un’altra cosa: prendete centinaia di querce centenarie e servitevene per scrivere sul terreno con tale scrittura gigantesca il suo nome. Oppure scolpitelo in una forma colossale come il san Carlo Borromeo al Lago Maggiore, affinché Egli possa, come già faceva nella vita, guardare al di sopra di tutte le montagne, - e quando i battelli del Reno scorreranno e gli stranieri chiederanno che cosa significhi quel gigante, ogni fanciullo potrà rispondere: è Beethoven, - ed essi penseranno che sia un imperatore tedesco. O se volete esser utili ai viventi, fondate in suo onore un’Accademia intitolata “Accademia della musica tedesca”, in cui avanti tutto sia insegnato, il suo Verbo, il Verbo secondo il quale la musica non debba essere coltivata come un mestiere comune da chiunque; ma dischiusa dai sacerdoti come un mondo meraviglioso agli eletti; una scuola di poeti, più ancora, una scuola di musica nel significato greco. In una parola: sollevatevi una buona volta, lasciate la vostra flemma e pensate che questo monumento sarà ben pur il vostro!

Eusebio.


IV.

Alle vostre idee manca... il manico: Florestano manda in frantumi ed Eusebio lascia cader per terra. E’ certo che la più alta testimonianza d’onore come la più pura prova di riconoscenza per i grandi cari morti, è continuare ad operare secondo il loro spirito: ma tu, Florestano, devi ammettere che noi dobbiamo mostrare in un modo qualsiasi la nostra venerazione, sia pur esternamente, e che se non si comincia mai una volta, una generazione si appoggierà alla negligenza dell’altra. Sotto lo sfacciato mantello che tu, Florestano, getti sulla cosa, si potranno anche rifugiare qua e là tanto il senso comune e l’avarizia, quanto la paura d’esser presi in parola se si lodano un po’ troppo inavvedutamente i monumenti. Mettetevi dunque d’accordo!
In tutti i paesi tedeschi dovrebbero organizzarsi delle collette individuali, e accademie, concerti, rappresentazioni d’opera, esecuzioni religiose; ed anche non sembrerebbe inopportuno chiedere un dono in occasione di grandi feste musicali e vocali. Ries a Francoforte, Chéland ad Augsburg, L. Schubert a Koenigsberg hanno già cominciato più che lodevolmente. Spontini a Berlino, Spohr a Cassel, Hummel a Weimar, Mendelssohn a Lipsia, Marschner ad Hannover, ecc. ... - vedete un po’, che serie di degni artisti vi metto sott’occhio, e quali città, mezzi e forze rimangono ancora. E possa allora un alto obelisco o una piramide annunciare ai posteri: che i contemporanei d’un grand’uomo, i quali hanno onorato le opere del suo spirito sopra ogni cosa, si sono sforzati di dimostrare ciò con un segno straordinario.

Raro.

FEDERICO CHOPIN

Primo concerto per pianoforte con orchestra, op. 11.
Secondo concerto per pianoforte con orchestra, op. 21.

I.

Non appena vi trovate dinanzi degli avversari, rallegratevene! o giovani artisti; ciò dimostra la forza del vostro ingegno e stimate questo tanto più importante quanto quelli sono più ostinati. Rimane però sorprendente che in quegli anni così aridi anteriori al 1830, dove si sarebbe dovuto render grazie al cielo per ogni filo di paglia migliore, la stessa critica, che veramente verrà sempre in coda se non proviene da teste produttive, abbia indugiato tanto a lungo, scrollando le spalle, a riconoscere Chopin; anzi vi fu chi ebbe il coraggio di dire che le sue composizioni erano buone soltanto per essere stracciate.
Ma basta di ciò. Anche il duca di Modena non ha ancora riconosciuto Luigi Filippo, e se il trono delle barricate non è su piedi dorati, non è certo a causa del duca. Forse io dovrei qui citare incidentalmente una celebre rivista di ciabattini che, alle volte, come noi sappiamo per sentito dire (poiché non la leggiamo e ci lusinghiamo un po’ di rassomigliare in ciò a Beethoven: v. gli studi di B. ediz. Seyfried), alle volte, dunque, ci sorride di sotto la maschera con occhiate dolcissime come colpi di pugnale: questo, perché una volta ho detto ridendo ad uno dei suoi collaboratori (che aveva scritto qualcosa sulle variazioni di Chopin sul Don Giovanni) che lui, il collaboratore, aveva un paio di piedi di troppo, come un cattivo verso, e stesse attento perché glie li si voleva tagliare all’occasione!
Ma devo ricordare queste cose proprio oggi che ti- torno dall’aver udito il concerto in fa minore di Chopin? Neanche per idea. Latte contro il veleno, fresco latte azzurro! Infine, che cos’è un’intera annata d’una rivista musicale a confronto d’un concerto di Chopin? Il delirare d’un pedante in confronto a quello d’un poeta? Che cosa sono dieci pezzi grossi di redazione per un adagio del secondo concerto? E davvero, Fratelli di Davide, non vi stimerei degni d’un discorso di questo genere, se voi stessi non aveste fiducia di creare delle opere simili a quelle che volete criticare, eccettuate però alcune, come appunto questo secondo concerto, a cui tutti noi riuniti non potremmo accostarci per baciarne il lembo, anche soltanto colla punta delle labbra. Al diavolo le riviste musicali! Anzi, il trionfo e l’ultimo scopo d’una buona rivista dovrebb’essere (e molte lavorano già in tal senso) di sollevarsi così in alto che nessuno per la noia volesse più leggerla, e che il mondo davanti a così eccessiva produttività non volesse più udir nulla di quel ch’è stato scritto; - lo sforzo più alto di critici sinceri (come molti si affaticano a farlo) sarebbe di rendersi affatto superflui; - la miglior maniera di parlar di musica sarebbe di tacere. Allegri pensieri sono quelli dei redattori di rivista, che non dovrebbero presumere d’essere i buoni dèi degli artisti, perché questi li potrebbero lasciar morire di fame. Al diavolo le riviste! Se si eleva, la critica, è sempre un passabile concime per le opere future; ma il sole di Dio fa germinare sufficientemente anche senza di questa. Ancora una volta, perché scrivere su Chopin? Perché costringere i lettori alla noia? Perché non attingere alla sorgente, suonare, scrivere, comporre noi stessi? Per l’ultima volta al diavolo le riviste musicali, quelle speciali e le altre!

Florestano.


II.

Se le cose andassero secondo la testa di questo bel matto di Florestano, egli sarebbe capace di chiamare quanto sopra una recensione e di por fine con essa all’intera rivista. Ma rifletta che noi dobbiamo ancora adempiere un dovere verso Chopin, di cui nei nostri fogli non abbiam ancor notato nulla, e il mondo potrebbe prendere alla fine il nostro mutismo per tutt’altra cosa che venerazione. Se una glorificazione con le parole (la più bella gli è già stata condivisa- da migliaia di cuori) è rimasta in sospeso fino ad ora, è per queste ragioni: per un verso, la tema che coglie uno allorché tocca un soggetto su cui s’indugia spessissimo ed assai volentieri con tutta la sua mente, la tema cioè di non saper parlare con sufficiente proporzione della dignità del soggetto afferrandolo da ogni parte, in tutta la sua profondità ed altezza, - per altro verso, per le intime relazioni artistiche con cui noi riconosciamo di essere con questo compositore; finalmente poi anche perché Chopin nelle sue ultime composizioni non sembra battere una strada diversa, ma più elevata, sulla direzione e sulla presumibile meta della quale noi speravamo di venirne prima più illuminati, per renderne conto ai nostri amati fratelli stranieri...
Il Genio crea regni in cui poi i piccoli stati vengono divisi da un intelletto supremo fra gli ingegni, affinché questi organizzino i particolari portandoli a compimento: cosa che al primo è impossibile di fare nella sua attività mille volte attraente e più straripante. Come un tempo, ad esempio, Hummel seguì la voce di Mozart rivestendo i pensieri del maestro d’un più brillante velo svolazzante, così Chopin segui quella di Beethoven. Oppure, senza immagine: come Hummel elaborò lo stile di Mozart pel godimento di chiunque e pel virtuoso di un determinato strumento, così Chopin condusse lo spirito di Beethoven nella sala da concerto.
Chopin non s’introdusse con un esercito orchestrale come fanno i grandi geni; egli possiede soltanto una piccola coorte, ma gli appartiene tutta intera fino all’ultimo eroe.
Egli formò la sua istruzione sui Grandi: Beethoven, Schubert, Field. Supponiamo che il primo abbia sviluppato il suo spirito nell’arditezza, l’altro il suo cuore nella delicatezza, il terzo la sua mano nell’abilità.
Così egli si trovava fornito di tutte le profonde conoscenze della sua arte, pienamente armato di coraggio nella coscienza della sua forza, quando nel 1830 si sollevò la grande voce dei popoli dell’Occidente. Centinaia di giovani aspettavano il momento: ma Chopin fu uno dei primi a salire sul bastione dietro cui giaceva nel sonno una vile Restaurazione e un nano filisteismo.
Appena caddero i colpi a destra ed a sinistra, i Filistei si svegliarono arrabbiati e gridarono: "Guardate gli sfrontati!". Ma altri, dietro gli assalitori ribattevano: "Che magnifico coraggio!".
Ma oltre a ciò ed alle favorevoli congiunture del tempo e della situazione, il destino fece ancora qualcos’altro per rendere Chopin conosciuto e interessante davanti a tutti, gli diede cioè una nazionalità forte ed originale: quella polacca. E poiché questa povera Polonia va ora in neri abiti a lutto, essa ci commuove ancor più fortemente nell’artista meditativo. Beato lui, cui nel primo momento la neutrale Germania non corrispose troppo favorevolmente e che così il suo genio condusse subito verso una delle capitali del mondo, dov’egli poté liberamente comporre e incollerire. Perché se il possente autocrate del Nord sapesse come nelle opere di Chopin, nelle semplici melodie delle sue mazurke, lo minaccia un pericoloso nemico, egli proibirebbe la musica. Le opere di Chopin sono cannoni sepolti sotto i fiori.
In questa sua origine, nel destino della sua terra riposa dunque la spiegazione dei suoi pregi, come pure dei suoi difetti. Se si parla di fantasticheria, di grazia, o di presenza di spirito, di fiamma o di nobiltà, chi non penserebbe allora a Chopin? ma chi non vi penserebbe pure parlando di bizzarria, di eccentricità morbosa, di odio anzi e di ferocia?
Tale è l’impronta di spiccatissima nazionalità che portano le prime composizioni di Chopin.
Ma l’arte chiedeva di più. Il piccolo interesse della zolla su cui egli è nato, doveva esser sacrificato al cosmopolita, e già si perde nelle sue opere più recenti quella fisionomia sarmatica troppo speciale; la sua espressione s’inclinerà a poco a poco verso quella ideale e universale, di cui i divini Greci già da lungo tempo sono stati da noi considerati come i creatori, cosicché noi, pur seguendo un’altra strada, finiamo per ritrovarci in Mozart.
Ho detto "A poco a poco"; perché egli non rinnegherà completamente la sua origine e non lo dovrà. Ma quanto più se ne allontanerà, tanto più la sua importanza per l’arte in generale dovrà aumentare.
Se dovessimo in qualche modo spiegare a parole l’importanza che Chopin ha già raggiunta in parte, dovremmo dire ch’egli concorre a quel riconoscimento, la cui fondatezza appare sempre più necessaria; e cioè: che un progresso dell’arte nostra deve prima avvenire con un progresso degli artisti verso un’aristocrazia spirituale, per gli statuti della quale non sia solamente richiesta, ma già presupposta, la conoscenza del “mestiere inferiore”, e per cui nessuno vi sarebbe ammesso se non apporta tanto ingegno da effettuare ciò che esige dagli altri, come fantasia, sentimento e spirito... E tutto questo, per far nascere l’epoca più alta d’una cultura musicale universale, dove mai un dubbio qualsiasi dovrà dominare sulla verità, né sulle molteplici forme nelle quali essa potrebbe apparire, e dove, per musicale, dovrebb’essere compreso quel profondo e vivo accordo, quella fattiva simpatia, quella facoltà del presto ricevere e rendere, affinché nell’unione della produttività e della riproduttività della comunità artistica sempre più ci si possa avvicinare ai più alti scopi dell’arte.

Eusebio.

FELIX MENDELSSOHN BARTHOLDY

Tre Capricci, op. 33.

Sovente sembra che quest’artista, che il caso ha dotato fin dal battesimo d’un giusto nome, prenda alcune battute, anzi degli accordi dal suo Sogno d’una notte d’estate per svilupparli e ritoccarli nuovamente in opere staccate, così come press’a poco un pittore riproduce la sua Madonna in ogni sorta di teste d’angelo. In quel Sogno i più cari desideri d’un artista son corsi tutti insieme alla meta; è il risultato della sua esistenza - e quanto sia bello e significativo, noi tutti sappiamo. Due dei citati capricci devono appartenere ad un tempo ormai passato; infatti potrebbero esser scritti anche da altri maestri, ma in quello di mezzo, ch’è di data più recente, sta su ogni pagina come in grandi caratteri: F. M. B.; - questo è il capriccio the amo, amo sopra tutti e vedo in esso un genio furtivamente venuto in terra.
Qui nulla v’è di teso o di sforzato, non apparizioni di spettri, non burle di fate; dappertutto si cammina su solido suolo, un suolo fiorito, tedesco; è un volo estivo di Walt sopra la terra, come in Jean Paul. Sebbene io sia quasi persuaso che nessuno possa suonare questo pezzo con così inimitabile grazia come il compositore stesso, e dia ragione ad Eusebio il quale pen-sa “che (il compositore) con questo potrebbe rendere infedele in pochi momenti la ragazza più innamorata”, credo che nessuno possa sopprimere interamente queste venature così trasparenti, questo colorito ondeggiante, questa delicatissima movenza di tratti. Quanto diversi sono gli altri Capricci e quasi in nessun rapporto con quello di mezzo! Nell’ultimo specialmente si sente come una rabbia muta, trattenuta, che si calma abbastanza verso la fine, ma poi erompe con pieno sfogo. Perché? - Chi lo sa! Alle volte si è cupi, senza saper precisare per quale ragione, e si vorrebbe “con pugno dolcissimo” mandar tutto in frantumi e fuggire dalla terra stessa, se giusto non vi fosse da sopportare ancora di queste cose. Ad altri il capriccio farà un effetto diverso, su di me così: lasciamolo com’è. Invece, saremo d’accordo sul primo: noi proveremo un dolore leggero, che dalla musica, dove s’è gettato, chiede e riceve sollievo. Di più non vogliamo dire. Ed ora il primo sguardo del lettore voli sul fascicolo stesso.

SIX ETUDES DE CONCERT COMP. D’APRÈS
DES CAPRICES DE PAGANINI par R. S., Oe. X.

Assegno un numero d’opera a questi studi, perché l’editore m’ha detto ch’essi “andranno” meglio: una ragione davanti a cui tutte le mie molte obbiezioni dovevano cedere. In silenzio riguardavo questo X (poiché non sono ancora alla nona Musa) come il segno della grandezza sconosciuta: e la composizione (eccettuati i bassi, le parti medie più dense, eccettuati anche i ripieni armonici e qua e là la forma resa più morbida) mi sembrava ancora una vera opera di Paganini. Se è lodevole l’aver ascoltato in se stessi amo-rosamente i pensieri d’un grande, averli lavorati e di nuovo portati alla luce, forse a me spetta quest’elogio.
Paganini stesso deve stimare il suo ingegno di compositore più che il suo genio eminente di virtuoso. Benché si possa, almeno fino ad ora, non essere in ciò completamente d’accordo con lui, nelle sue composizioni però e specialmente nei Capricci per violino (da cui son tratti i sopraddetti studi e che da un capo all’altro sono nati e concepiti con una rara freschezza e leggerezza) vi sono tanti diamanti si che l’incasto-natura più ricca richiesta dal pianoforte potrebbe rafforzarli piuttosto che volatilizzarli. Ma questa volta procedetti ben in altro modo che nella edizione d’un mio precedente fascicolo di studi secondo Paganini, dove io copiai l’originale, forse a suo danno, quasi nota per nota, sviluppando solo la composizione armonica. Mi liberai dunque dalla pedanteria d’una traduzione letteralmente fedele e volli che la presente rielaborazione desse l’impressione d’una composizione per pianoforte affatto indipendente, sì da far dimenticare l’origine violinistica, senza che però l’opera ne avesse a scapitare in idee poetiche. Che io, per ottener questo, abbia dovuto mutare molto specialmente a riguardo della forma
[È necessario sapere in che modo gli Studi siano nati e come rapidamente siano stati messi a stampa, per indulgere a parecchie cose dell’originale. Lipinski ha raccontato ch’essi sono stati scritti in tempi e luoghi diversi e regalati manoscritti da P. a suoi amici e come, quando più tardi l’editore Ricordi richiese da P. la raccolta per un’edizione, questi in fretta li abbia trascritti a memoria (Sch.)] e dell’armonia, tralasciando delle cose o inserendone delle altre, ben si comprende, ma naturalmente l’ho fatto sempre con tutta l’attenzione dovuta ad un così potente e onorabile spirito. M’occorrerebbe troppo spazio per citare tutti i cambiamenti e le ragioni del perché io l’abbia fatto; se poi sia sempre ben riuscito, lascio decidere agli amici dell’arte che vi s’interessano con un confronto dell’originale, cosa che non può non esser fruttuosa.
Coll’epiteto “da concerto” ho voluto distinguere questi studi da quelli sopra ricordati, apparsi precedentemente ed anche perché per il loro carattere brillante s’addicono in ogni modo all’esecuzione pubblica. Ma poiché essi corrono per lo più dritti al loro scopo principale, cosa a cui un pubblico misto di concerto non è abituato, il meglio sarebbe di farli precedere da un libero preludio, breve e adatto.
Desidererei ancora che si facesse attenzione ad alcune osservazioni.
Nel n. 2 ho scelto un altro accompagnamento perché il tremolo dell’originale stancherebbe troppo l’esecutore come gli uditori. Io ritengo del resto questo numero specialmente bello, delicato e sufficiente per sé solo ad assicurare a Paganini un posto di prim’ordine fra i moderni compositori italiani. Florestano lo definisce un fiume italiano che sbocca sul suolo tedesco.
Il n. 3, per la sua difficoltà, non fa abbastanza effetto; chi però se ne sarà ben impadronito, vi troverà molte altre cose.
Per l’esecuzione del n. 4 aleggiò nel mio spirito la marcia funebre della sinfonia Eroica di Beethoven. Ognuno proverà forse la stessa impressione. L’intero pezzo è pieno di romanticismo.
Nel n. 5 ho trascurato apposta ogni indicazione per l’interpretazione, affinché lo studioso ne cerchi egli stesso l’altezza e la profondità. Questo procedimento dovrà apparire molto indicato per esaminare la facoltà di comprensione dello scolaro.
Quanto al n. 6 dubito che chi abbia suonato i Capricci per violino, possa riconoscerlo lì per lì. Eseguito senza errori come pezzo per pianoforte, appare grazioso nella sua onda armoniosa. Osserverò ancora che la mano sinistra incrociante la destra (fino alla 24.ma battuta) ha sempre da toccare soltanto la nota più alta (scritta colla coda verso l’alto). Gli accordi risuonano più pieni, se il dito incrociato della mano sinistra s’incontra proprio nello stesso momento col quinto della mano destra. L’allegro che segue, era difficile da armonizzare. Son riuscito ad addolcire un po’ soltanto quel non so che di duro e di un po’ piatto della ripresa in mi maggiore; altrimenti, si sarebbe dovuta ricomporre interamente.
Gli Studi sono, nessuno eccettuato, di estrema difficoltà e ciascuno ha la sua propria particolare. Coloro che li prenderanno in mano la prima volta, faranno bene a leggerli prima coll’occhio, perché anche degli occhi e delle dita veloci come il lampo sarebbero appena in condizioni di seguire la melodia, in un tentativo a prima vista.
Non bisogna quindi aspettarsi che il numero di quelli che potrebbero padroneggiare magistralmente questi pezzi sia molto grande; essi contengono però troppe cose geniali, perché coloro che li avranno uditi una volta completamente, non debbano ripensarvi spesso con favore.