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Laureto Rodoni

«Die Zauberflöte» o dell'antitesi

Nuovo, raffinato allestimento all'Opernhaus di Zurigo
del capolavoro mozartiano

Versione non ridotta della recensione
pubblicata sul

 

«Die Zauberflöte», opera ultima di Mozart, andata in scena per la prima volta il 30 settembre 1791 sotto la direzione del compositore stesso (che sarebbe morto un paio di mesi dopo, all'età, giova ricordarlo, di 35 anni!), è senza dubbio una delle creazioni più enigmatiche e affascinanti di tutto il repertorio lirico. Molti quesiti connessi alla genesi e allo sviluppo di questo singolare capolavoro nell'ambito dell'iter creativo mozartiano e alla paternità dell'elemento massonico, che si inserisce senza stridori in una fiaba orientaleggiante, sono tuttora irrisolti: è noto che la moglie Constanze censurò a posteriori, perché compromettenti, molte lettere del marito, di capitale importanza per comprendere lo svolgersi del pensiero e del lavoro mozartiani: atteggiamento, questo, che rivela fino a che punto il compositore salisburghese fosse caduto in disgrazia dopo la prematura morte, nel 1790, di Giuseppe II, contrastato sia dai cattolici sia dagli aristocratici che ambivano alla riconquista dei rispettivi privilegi, in parte persi proprio per le riforme introdotte da questo illuminato Imperatore. Come appare da molte lettere, Mozart era violentemente contrario a tali privilegi e la sua adesione agli ideali massonici, avvenuta nel 1785, deve essere intesa anche come sostegno alla politica riformista di Giuseppe II: questa adesione, com'è noto, contribuì in modo decisivo al trasferimento del compositore da Salisburgo a Vienna e gli facilitò i contatti con l'ambiente di corte, in cui vi erano influenti consiglieri che appartenevano appunto all'ala progressista della massoneria.
Proprio le simpatie per il progressismo radicale diffuso a Vienna negli ambienti intellettuali e l'interesse per ciò che stava accadendo a quel tempo a Parigi (è probabile che Mozart fosse favorevole alle concessioni costituzionali di Luigi XVI) contribuirono non poco a metterlo in cattiva luce nel breve periodo in cui egli visse, drammaticamente, la "restaurazione" caldeggiata dalla chiesa e dalla nobiltà e non certo osteggiata dal successore di Giuseppe II, l'opportunista Leopoldo II che tuttavia non gli revocò la carica, peraltro di scarso rilievo, di "compositore da camera". Non è un certo caso che, proprio nei giorni successivi alla prima rappresentazione di "Zauberflöte", il nuovo Imperatore avesse ordinato un'inchiesta di polizia sull'Ordine degli Illuminati, la più importante Loggia Massonica di Vienna di cui Mozart fece parte nell'ultimo periodo della sua vita.
Quanto alla summenzionata paternità dell'elemento massonico, sembra oggi prevalere l'ipotesi che Emanuel Schikaneder, il librettista, anche per suoi limiti culturali in questo ambito, fosse in realtà soltanto l'autore della parte favolistica e che un ruolo determinante nella stesura del testo l'abbia avuto il compositore stesso, con una consulenza scientifica d'eccezione: quella del capo dell'Ordine degli Illuminati, l'insigne mineralogista Ignaz von Born, autore, tra l'altro, di un saggio sugli antichi misteri egizi.
Bastino queste scarne annotazioni per far comprendere al lettore quanto complesso fosse il contesto storico, sociale, culturale e umano in cui nacque «Die Zauberflöte» e quanto ostico sia il compito dei registi e degli scenografi che la vogliono allestire con serietà.
Per le rappresentazioni zurighesi del dopo-Ponnelle, Alexander Pereira ha affidato l'allestimento a due prestigiosi e colti esponenti del teatro britannico: Jonathan Miller e Philip Prowse.
Quando il pubblico, anche con largo anticipo, entra nel teatro, nota con stupore che lo spettacolo è già cominciato: la scena è aperta, alcuni personaggi si muovono attorno a un marmoreo tempio massonico, sopra il cui ingresso è incisa la parola SAPIENTIA, racchiuso da una fittissima libreria semicircolare, sulla quale ne incombe, letteralmente, un'altra, stipata e talmente alta che non se ne vede la fine. Libri anche sulla scena, in mano ai personaggi che li sfogliano con attenzione e ne discutono il contenuto con evidente passione e interesse. Il libro è quindi un protagonista inanimato di questo «Zauberflöte» zurighese. Siamo agli antipodi rispetto alla concezione di Jean-Pierre Ponnelle, autore con Nikolaus Harnoncourt del mitico allestimento precedente che è ormai entrato, trionfalmente, nella storia dello spettacolo teatrale del Novecento.
Che Miller volesse imboccare una strada diversa appare chiaro anche dopo l'Ouverture quando si comprende che il mostro che minaccia Tamino è il suo rovello interiore, il suo travaglio: una lotta soprattutto contro le tentazioni della «luxuria» e della «voluptas», impersonate da una altezzosa e algida donna avvolta nelle spire di un inquietante serpente: personaggio di dantesca indifferenza che passa dinanzi allo sconvolto Tamino con cinica lentezza e che non si cura minimamente delle minacce delle tre Dame sopraggiunte a soccorrere lo sventurato. L'«Ich bin verloren» («Sono perduto») di Tamino è da intendere quindi in senso spirituale e non in senso fisico: perdita di una integrità morale e intellettuale, non della vita tout court. L'aspetto favolistico, che pure è presente nel libretto, viene quindi dal regista emarginato, per non dire soppresso. Operazione legittima, poiché un testo di tale complessità ed eterogeneità impone delle scelte decise e dolorose, che certo possono anche non essere condivise, ma che tuttavia stimolano alla riflessione e soprattutto alla rivisitazione di un capolavoro che non cessa mai di stupire, di commuovere, di lacerare, di sconvolgere.
Nell'ottica privilegiata dal regista, gli elementi massonici, illuministici, filosofici e rivoluzionari sono preponderanti. Da questo punto di vista l'approccio alle problematiche sollevate da Schikaneder e da Mozart sono tutto sommato tradizionali: aggettivo, quest'ultimo, che, sia ben chiaro, va inteso senza la benché minima connotazione negativa, talmente elevato è lo spessore culturale e artistico dello spettacolo. Miller ha semmai messo in maggiore risalto le antitesi, già presenti nel libretto: la Regina della Notte e le sue tre messaggere o ministre che dir si voglia, impersonano le correnti più retrive e oscurantiste della Chiesa cattolica della fine del Settecento al servizio dell'Ancien Régime; Sarastro è l'illuminato, il sapiente, il tollerante, il difensore degli ideali umanitari massonici (e della della Rivoluzione Francese prima del Terrore) di cui sia Mozart sia Schikaneder erano propugnatori entusiasti. Per evidenziare il contrasto tra questi due mondi inconciliabili, Miller aggiunge delle comparse femminili che fanno da contraltare ai membri della massoneria guidati da Sarastro e fa intervenire con anticipo i tre Geni che si oppongono alle tre Dame della Regina della Notte.
Nettissimo, poi, il contrasto tra la principesca eleganza di Tamino e la buffa trivialità di Papageno, rappresentante di una umanità semplice e molto vicina alla natura; tra lo Sprecher rigoroso e solenne che guida nelle prove di iniziazione Tamino e il Priester (una vera e propria macchietta: non per nulla il ruolo è stato affidato al tenore buffo Peter Keller) che, non senza qualche cedimento... nervoso, ha il compito ingrato per non dire disumano di occuparsi dell'aspetto spirituale di Papageno. Altre evidenti antitesi, a livelli differenti, si stabiliscono tra la rozza slealtà, unita a una bieca cattiveria, di Monostatos e la bonaria schiettezza e simpatia di Papageno; tra l'alterigia della vecchia Regina della Notte e la dolcezza della bellissima figlia Pamina; tra le varie scene che compongono i due atti, strutturate seguendo alcuni principi della numerologia massonica; tra i colori dei costumi (bianchissimo quello di Pamina, nero con risvolti rossi quello di Pamino, per non fare che un esempio): tutto questo alternarsi di antitesi e chiaroscuri confluisce nell'abbagliante e rasserenante fulgore del Finale... a sorpresa che chi scrive non intende rivelare per rispetto di coloro che vogliono assistere a questo superbo spettacolo, curato nei minimi dettagli, di grande suggestione.
Nel cast primeggia Malin Hartelius, una Pamina immacolata come il suo abito candido; incantevole nella sua mitezza, nella sua bontà, nella sua indulgenza e nel suo dolore quando viene a sapere della malvagità della madre e quando le sembra che Tamino non corrisponda al suo amore; incantevole pure la sua voce dal timbro bellissimo, luminoso, sorretta da sicura tecnica.
Facile immaginare, per chi ha familiarità con il mondo della lirica, l'autorevolezza anche in questo caso vocale (soprattutto timbrica, in tutti i registri) e teatrale (dolce, indulgente, severo e ieratico nel contempo) di Matti Salminen, uno dei più grandi Sarastro della nostra epoca. Anton Scharinger tout simplement è Papageno: basti questo grassetto per segnalare la sua interpretazione memorabile (la numero 380... circa). Buono, ma suscettibile di ulteriori miglioramenti (soprattutto nel fraseggio, nel quale si vorrebbero più sfumature, meno monotonia) il Pamino di Steve Davislim, e anche il Monostatos di Volker Vogel. Elisabeth Magnuson è una Regina della Notte efficace e convincente sul piano drammaturgico sia quando è in preda al dolore per il rapimento della figlia da parte di Sarastro, sia quando urla la sua brama di vendetta, sia quando fa esplodere la sua rabbia per la dignità oltraggiata. Vocalmente la sua prova è stata nel complesso valida e godibile, anche se non impeccabile (del resto, si sa, l'astrale tessitura della vendicativa Regina è al limite dell'eseguibile). Buoni il resto del cast e il coro diretto da Jürg Hämmerli.
Mi si permetta, per concludere, di tessere le lodi dei tre bambini (ma perché non mettere il loro nome sulla locandina?) che hanno impersonato i tre Geni: vocalmente pressoché perfetti, intonatissimi, calati con convinzione nel meraviglioso ruolo di teneri, astuti e sbarazzini (splendidi i loro sobri costumi) antagonisti delle tre possenti, vocalmente e... fisicamente, Dame. Bravissimi! Senza dimenticare i meriti del loro maestro e del regista che li ha saputi così ben guidare.
L'interpretazione del concertatore e direttore d'orchestra Franz Welser-Möst rispecchia con intelligenza l'austera visione teatrale di Jonathan Miller: colori orchestrali ora cupi (nei momenti drammatici), ora luminosi (in quelli solenni); costante tensione che alimenta il sempre fluente fraseggio; asciuttezza del suono che non sconfina però mai nell'aridità; freschezza, effervescenza, brillantezza, frenesia ritmica nelle parti buffe e allegre. Il maestro austriaco, che, è giusto evidenziarlo, grazie al suo rigore e alla sua autorevolezza, sta portando l'Orchester der Oper Zürich a livelli artistici inauditi, ha saputo destreggiarsi con rara perizia nell'intricato labirinto del composito stile mozartiano che alterna, come detto, il buffo al solenne, il grottesco al tragico, il triviale al sublime, il patetico al gioioso, al goliardico; ma anche il parlato tipico del Singspiel al recitativo accompagnato di origine italiana, il Lied popolare a quello aristocratico. Una partitura miracolosa che ha ispirato non pochi capolavori nell'Ottocento e nel Novecento.
Uno degli ultimi, purtroppo poco conosciuto, il «Doktor Faust» di Ferruccio Busoni, fervente ammiratore della «distaccata serenità» mozartiana. Su «Die Zauberflöte» scrisse il compositore empolese: «Mi sovviene di un solo esempio che si avvicina moltissimo al mio ideale [di opera teatrale] ed è 'Die Zauberflöte'. Esso riunisce in sé l'elemento educativo, spettacolare, sacrale e divertente: al che una musica affascinante si aggiunge, o piuttosto si libra su tutto e tutto comprende. 'Die Zauberflöte' è secondo me l'opera per antonomasia e mi son sempre meravigliato che almeno in Germania non sia stata piantata come l'indicatore stradale dell'opera in genere.» Come dargli torto? Tra le righe, sia detto tra parentesi, una possente stoccata all'aborrito Gesamtkunstwerk (l'opera d'arte totale) wagneriano.
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