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ATTO II

 

Scena I. Nell'atrio del tempio, Sarastro parla ai sacri ministri e dice che per le mura del tempio stesso erra un giovane principe che vuole squarciare il velo dell'errore che gli hanno trasmesso gli avi e poter contemplare la luce sacra. Si noti anche qui il contrasto a cui ci porta la vicenda: Tamino era partito per liberare Pamina dal feroce Sarastro ed ora, invece, proprio nel regno di Sarastro aspira a purificarsi. La situazione è capovolta e l'apologia dei principi massonici è evidente. Del resto Sarastro definisce il suo tempio come la reggia del vero. L'oratore fa le domande rituali e chiede se Tamino abbia costanza, sia capace di silenzio e di santo fraterno affetto, le qualità che deve possedere un aspirante alla setta degli iniziati. Sarastro se ne fa garante e spiega che rapì la dolce e virtuosa Pamina perché gli dei l'hanno destinata al giovane principe e accusa la regina di voler ingannare il popolo con l'illusione e la superstizione e distruggere il tempio. Ciò non deve accadere - dice Sarastro Tamino deve aiutarci a rafforzarlo.
Dopo i necessari insegnamenti dati a Tamino e Papageno perché possano superare le prove, la scena si conclude con una bella invocazione a Iside ed Osiris di Sarastro e del coro, che dimostra come Mozart abbia voluto conferire ai personaggi del tempio un'espressione di solennità e religiosità. La invocazione di Sarastro, che è un'aria in fa maggiore, si svolge nelle solenni sonorità proprie del registro basso ed punteggiata da interventi del coro.
Scena II e III. Tamino e Papageno stanno per essere ammessi nel tempio. L'oratore e il secondo sacerdote rivolgono ai due iniziandi le domande rituali. Tamino risponde che solo amicizia e amore sono le sue aspirazioni e che accetta di conquistare queste virtú a costo della vita. Papageno, anche in questa occasione, si rivela il semplice che è, dichiarando che non pretende di pervenire alla saggezza, ma che s'accontenta di mangiar, bere e dormire.
Scena IV. Papageno e Tamino rimangono soli e al buio. Papageno ha paura: i tuoni e i fulmini rendono più spaventoso il luogo. Incomincia qui la scena delle prove e dell'iniziazione e continua (scena V) il sottile giuoco fra la favola e il rituale massonico, poiché improvvisamente ricompaiono le tre ancelle della Regina della Notte, che già furono le salvatrici di Tamino. Quando esse lo esortano a uscire da quel luogo di terrore, sembrano preoccuparsi di avvertirlo di un pericolo, ma in effetti compiono il tentativo di farlo mancare ai suoi giuramenti. E annunciano anche la vendetta della Regina, ma Tamino resiste, il che, al tempo di Mozart e Schikaneder aveva un chiaro significato relativo ai rapporti fra la Massoneria e i suoi nemici, e quindi anche sociale e politico. In tutta la scena si avvicendano le minacce delle tre ancelle, le reazioni di Tamino e le paure di Papageno. Alla fine, l'arrivo di Sarastro e dell'Oratore fa sprofondare le tre ancelle (ne segue l'ascolto).
Scena VI. L'Oratore si compiace delle prove sostenute da Tamino e gli dice che dovrà ancora molto soffrire, ma che vincerà. E aggiunge un'altra di quelle sentenze moraleggianti che costituiscono la filosofia del libretto: «Sorride favorevole il Cielo all'alme grandi». La scena si conclude con il rinvenimento di Papageno disteso sul pavimento e quasi morto di paura.
Scena VII. Pamina è addormentata nel giardino. Entra il negro Monostato, che non ha rinunciato al proposito di possederla. Mentre la guarda, canta un'Aria che val la pena ascoltare, perché è di un'eleganza e di una vivacità veramente sorprendenti. Anche lo strumentale è leggerissimo e «frusciante».
Ascolto della Cavatina di Monostato.
Scena VIII. Monostato pensa dunque che quello sia il momento di abbracciare Pamina, ma giunge inaspettatamente la Regina della Notte a guastargli la festa. La Regina, oltre che per salvare la figlia da Monostato, appare nel giardino del tempio per indurre la figlia a uccidere Sarastro e le consegna il pugnale vendicatore. Questa scena si conclude con la famosa «Aria degli angui d'inferno», in cui la Regina esprime i suoi propositi di vendetta contro Sarastro e il suo furore contro la figlia, se non saprà colpirlo. Segue l'ascolto dell'aria «Der Hölle Rache Kocht in meinem Herzen», nota in Italia come Aria degli angui d'inferno, che è un banco di prova delle possibilità vocali dei soprani leggeri. Va notato che dietro l'apparente bravura dei vocalizzi, si celano espressioni drammatiche molto appropriate all'ira della Regina della Notte.
Scena IX. Pamina pensa che non può uccidere Sarastro. Sorpresa da Monostato è da lui ricattata. Che cosa chiede in cambio? Amore. Ma Pamina rifiuta decisamente.
Scena X. A Sarastro Monostato rivela il piano della Regina e della figlia, che è quello di ucciderlo, ma Sarastro si dimostra indifferente e lo congeda. Monostato, comunque, continua a sognare di possedere Pamina e a tal fine decide che è meglio abbandonare Sarastro e passare al servizio della Regina, perché - egli dice - «se il bisogno consiglia, si può servir la madre per la figlia».
Scena XI. Sarastro perdona Pamina e nella bell'aria «Alla Regina ti toglie il Cielo, eppur colà sotterra armi prepara (la Regina) e guerra», egli definisce i principi morali del suo regno, che si ispira alla bontà, all'amore fraterno, alla pietà verso l'errore, che sono anche i principi massonici del tempo.
Segue l'ascolto dell'Aria di Sarastro, che per il suo andamento tranquillo infonde un senso di pace ed è in netto contrasto con l'aria esprimente l'odio e i propositi di vendetta della Regina.
Scena XII. L'oratore e un altro sacerdote lasciano Tamino e Papageno e indicano loro il cammino che devono compiere da soli, iinponendo loro di nuovo il silenzio.
Scena XIII. L'elemento comico di questa scena è dato dalla fatica di Papageno a osservare il silenzio, in contrasto con la serietà di Tamino impegnato a zittirlo. Papageno parla allora con se stesso; rimpiange i suoi boschi e lamenta che quei signori (i sacerdoti) non gli diano nemmeno due gocce di acqua fresca.
Scena XIV. Appare allora una vecchia bruttissima con un grande bicchiere d'acqua in mano per Papageno. Segue un buffo parlato durante il quale la vecchia dice di avere diciotto anni e due minuti e spaventa Papageno quando gli dice che il suo amore è proprio lui.
Scena XV. Ricompaiono i tre Geni, cioè le tre guide, i quali danno per la seconda volta il benvenuto a Tamino e a Papageno, e restituiscono al primo il flauto d'oro e al secondo la cassetta dei campanelli, che furono loro tolti all'entrata nel tempio. Offrono loro anche un pranzo, che rallegra molto Papageno, il quale (Scena XVI) mentre Tamino riprende a suonare il flauto, mangia a quattro palmenti.
Scena XVII. Pamina ha udito il suono del flauto ed è accorsa, ma Tamino, impegnato a superare la prova del silenzio, le fa cenno di allontanarsi. L'afflizione di Pamina è grande per questo inaspettato atteggiamento di Tamino, e canta la bell'Aria «Ah! tu non m'ami! Io col mio pianto importuna mi rendo...» durante la quale Papageno crea ancora un contrasto comico, continuando a mangiare e mugulando.
Segue l'ascolto dell'Aria di Pamina, in cui è molto efficacemente espresso il suo dolore per quello che essa crede l'abbandono di Tamino. È nella tonalità di sol minore e l'espressione è tutta concentrata nella melodia vocale. L'orchestra, cioè, vi ha solo un semplicissimo accompagnamento di sostegno.
Scena XVIII. Parlato di Papaoreno e Pamina.

Scena XIX. Sarastro e i sacerdoti cantano un inno a Iside e Osiris e commentano che il giovane principe conoscerà ben presto una vita nuova: ne sarà degno - dicono - perché lo guidano onestà e valore. Questo coro è a tre voci ed ha un carattere eminentemente religioso. Ha forma di corale, vale a dire seriza movimenti contrappuntistici. È stato rilevato che qualcosa di simile si nota nel corale di Hans Sachs nei «Maestri Cantori» e in molte opere tipicamente tedesche.

Scena XX. Sarastro elogia Tamino per la sua condotta e l'informa che gli restano ancora due prove da superare. Pamina si angoscia per i pericoli che dovrà affrontare Tamino e teme di non rivederlo piú, ma Sarastro la rassicura che tornerà.
Scena XXI. Papageno intanto ha perduto Tamino e lo rincorre affannosamente. L'oratore gli dice che i suoi errori saranno perdonati dagli Dei, ma non speri per questo di essere ammesso alle gioie celesti degli iniziati. Papageno risponde che un buon bicchier di vino sarebbe, per lui il piú celeste piacere. Quando l'Oratore gli dice: «Va stolto. E ben l'avrai», Papageno canta un'aria tipicamente mozartíana, in cui dice che se trovasse una donna, allora il bere e il mangiare sarebbero deliziosi, allora sarebbe uguale ai príncipi e gli parrebbe di essere agli Elisi.
Scena, XXII. Ricompare la vecchia che aveva precedentemente dissetato Papageno. Questa volta balla, appoggiandosi al bastone. La scena è comica, ma ha un finale tenero e sentimentale. La vecchia infatti ha parole dolci per Papageno, che ne ha ribrezzo; ma alla fine si trasforma in ragazza giovane e bella, vestita come Papageno, il quale trova cosí la sua Papagena. La canzone di Papageno ha, come quella precedente, un carattere popolare viennese, quel carattere, con-le osserva il Labroca, da allegri bontemponi che, come s'è detto, si riscontra in altre arie mozartiane. E ascoltiamo anche la simpatica scena parlata fra Papageno e la vecchia, prima che si trasformí nella giovane Papagena.
Scena XXIII. Nel momento però in cui stanno per abbracciarsi, interviene l'Oratore a impedirlo, perché - dice - «costui d'esser tuo sposo, ancor degno non è». Ma poiché Papageno vuole seguire Papagena a costo di sprofondare, la terra trema e Papageno sprofonda veramente. In questa aria Papageno si accompagna col glockenspiel.
Scena XXIV. I tre Geni arinunciano che gli errori e le superstizioni stanno per essere sconfitti e che la saggezza vincerà. Chiedono che la pace discenda nel cuore degli uomini. Allora la terra sarà come un regno celeste e i mortali uguali agli dei. Vedono Pamina disperata, perché crede che il suo amore sia disprezzato e la salvano nel momento in cui sta per suicidarsi (Scena XXV). L'assicurano poi che Tamino è salvo e l'invitano a seguirli nella sua ricerca. La scena si conclude con una delle solite sentenze moraleggianti: «Due cuori presi d'amore, nessuna potenza umana può separarli. Le forze nemiche sono vane, poiché gli dei stessi li proteggono».
Scena XXVI. Tamino deve ancora superare le prove piú terribili: quella del fuoco, dell'acqua, dell'aria e della terra. La scena rappresenta due grandi montagne: sull'una c'è una cascata d'acqua; l'altra lancia lingue di fuoco. Tamino è accompagnato da due uomini in armatura nera ed è senza scarpe, secondo il rito massonico dell'iniziazione. C'è anche una piramide sulla quale si legge che «colui che sa vincere questi pericoli, si slancerà dalla terra al cielo, potrà ricevere l'ispirazione e consacrarsi interamente ai misteri di Iside». I due uomini leggono la scritta e intonano un duetto che è degno d'una pagina del Requíem. Mentre Tamino dichiara di non temere la morte e di voler proseguire il cammino della virtú, si ode la voce di Pamina dall'interno. I due uomini in armatura nera ricongiungono i due innamorati e acconsentono che Tamino sia accompagnato da Pamina, anch'essa degna, per non temere né la notte, né la morte, di essere consacrata. Pamina consiglia a Tamino di suonare il flauto magico durante il cammino, quel flauto che fu tagliato da suo padre nel profondo di una quercia millenaria, in un momento magico di lampi e di tuoni, di tempesta e di fragore. Si ode un lungo assolo di flauto, durante il quale Tamino e Pamina passano indenni attraverso i pericoli delle fiamme e dell'acqua. La scena si conclude col coro dei Sacerdoti, i quali esultano per la vittoria di Tamino e Pamina, che vengono accolti nel tempio.
Ascolto della parte dei due uomini in armatura nera e di quella di Tamino, nel momento in cui díchiara di non temere ipericoli del cammirio che ancora deve percorrere.
Scena XXVII. Si ritorna al giardino, dove è rimasto Papageno, il quale è angosciato per aver perduto la sua Papagena e tenta di impiccarsi ad un albero; ma arrivano i tre Geni, i quali lo invitano a riflettere che si vive una volta sola e gli consigliano di suonare i suoi cainpanelli. Difatti una suonatina di glockenspiel, e Papagena ritorna. I due danno luogo ad una scena buffa, chiamandosi a vicenda e sillabando il nome. Il duetto che cantano, in cui si augurano un mucchío di Papagenini, è anticipatore di molte pagine ottocentesche del genere.
Segue l'ascolto della disperazione di Papageno, l'intervento dei tre Geni, il suono del flauto di Pari, il glackenspiel magico, e il duetto con Papagena.
Scena XXVIII. Siamo alla scena finale. Monostato guida la Regina della Notte e le tre ancelle nel tempio di Sarastro. Raccomanda di far piano, perché devono sorprendere gli empi e distruggerli. La Regina ha promesso a Monostato Pamina. Si odono intanto in distanza tuoni e rumori di cascate d'acqua che spaventano la Regina e le tre damigelle. Ad un tratto la scena si trasforma nel Tempio del Sole. Sarastro siede sul suo trono e Tamino e Pamina, vestiti da iniziati, sono in mezzo a due file di sacerdoti. In mezzo a tuoni e fragori, la Regina e Monostato, che in sostanza simboleggiano l'oscurantismo e il malgoverno, vengono inghiottiti nell'abisso e scompaiono dalla scena. Sarastro, il gran Sacerdote del Tempio, esulta per il ritorno del sole e della luce, che hanno respirito la notte e le potenze demoniache.
L'opera si conclude col coro dei sacerdoti, i quali esprimono la loro gioia agli iniziati e ringraziano Iside e Osiris per aver fatto trionfare la bellezza e la saggezza per l'eternità.
Il «Flauto magico» di Mozart, dunque, s'impernia sopra questi valori umanitari, cioè sulla lotta contro le superstizioni e le ristrettezze spirituali, sull'amore per la verità, la mutua solidarietà, la fraterna giustizia e la tolleranza. In questi valori Mozart credeva e il libretto di Schikaneder profondamente lo ispirò. A questo proposito, è importante la conclusione del Paumgartner: «Il suo temperamento aperto, allegro e socievole, la necessità di discutere argomenti profondi in un ambiente int,imo ed amico, l'animo suo aperto a tutti gli ideali umani e, malgrado la fede sincera, sempre teso, anche quasi inconsciamente, ad affrancarsi da ogni dogmatismo morale e religioso, fecero sí che quell'ordine di idee gli apparisse come una rivelazione provvidenziale e benefica, specialmente nel confronto dell'oppressiva grettezza del piccolo mondo salisburghese al quale s'era appena sottratto».
«Il cerimoniale segreto, le solennità, i riti nei quali la musica aveva non poca parte, fecero il resto suggestionando la fantasia dell'artista».
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