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Rubens Tedeschi

L'«ULTIMA TRIONFALATA»:

PUCCINI, TOSCA

E LA «GIOVANE SCUOLA»

 

Iniziato nella primavera del 1890 con «Cavalleria» il decennio verista si chiude il 14 gennaio 1900 con la rappresentazione di «Tosca» al Costanzi di Roma. Tutto quello che la giovane scuola e i suoi tardi imitatori produrranno in seguito è soltanto ripetizione di formule già sperimentate.
Al momento nessuno ci bada. Il travolgente successo di Puccini sembra aprire una nuova fioritura operistica. L'unico a comprendere i rischi dei tempi è proprio il fortunato maestro che, terminato il lavoro, va già pensando al prossimo e lo esige pieno di «attriti drammatici, quasi epici" perché "il faut frapper le public!» Ci vuole qualcosa di insolito, sempre, in teatro. Il pubblico ha sete di nuovo.
Parole addirittura spaventate attraverso cui si vede la posizione dell'artista costretto a servire il pubblico che divora una novità solo per reclamarne un'altra. L'ultimo decennio ha visto bruciare in un amen i generi più diversi. Dalla «Cavalleria» alla «Bohème», dall'«Andrea Chénier» all'«Iris» è un'unica corsa affannosa per catturare l'attenzione del pubblico, accrescendo l'impatto emozionale dello spettacolo senza alterarne i componenti di fondo: il canto e la melodia.
Il musicista, insomma, è come un cuoco tenuto a preparare piatti sempre nuovi coi medesimi ingredienti. Perciò aumenta le spezie, le salse, a detrimento della sostanza; e il consumatore, soddisfatto al momento, si trova ben presto più affamato di prima.
Puccini, nella sua estrema sensibilità, avverte il disagio di una situazione impossibile. Dotato, a differenza dei colleghi, di senso autocritico, sente di aver raggiunto con «Tosca» un limite oltre il quale gli è vietato procedere. Tosca, in effetti, ricavata al pari di «Fedora» dal teatro di Sardou, porta al culmine il romanzo passionale-erotico-avventuroso in musica. L'accumularsi dei fatti è tale da limitare ogni sviluppo di sentimenti. Se ne accorge Giuseppe Giacosa che, lavorando con Illica al libretto, non ne è convinto: «Il guaio più grave sta in ciò che la parte, dirò così, meccanica, cioè il congegno dei fatti che formano l'intreccio, vi ha troppa prevalenza a scapito della poesia. È un dramma di grossi fatti emozionali, senza poesia. Ben altro era la 'Bohème', dove il fatto non ha importanza, mentre invece sovrabbonda il movimento lirico e poetico. Nella 'Tosca', invece, bisogna mettere in rilievo la concatenazione degli avvenimenti e ciò prende molto più spazio che non dovrebbe e ne lascia poco allo sviluppo dei sentimenti.»
Tra l'evasione, la tortura, l'assassinio, la fucilazione e il suicidio non c'è molto margine per una maturazione psicologica: i personaggi occupano sin dall'inizio il loro posto esatto: la donna amante, l'uomo amato, il malvagio. Naturalmente l'amante è più femmina di tutte le femmine, più appassionata, generosa, gelosa, materna, mentre il malvagio è un condensato di tutti i vizi: avido, bigotto, sadico, traditore. Tra i due, il povero Cavaradossi non è che una vittima: la sua unica azione è quella di prestare il casino fuori porta all'amico fuggiasco; poi è sballottato tra l'amore di Tosca e la libidine di Scarpia. Non stupisce che, anche in musica, la sua fisionomia resti generica: sovente si limita a riprendere i motivi di Tosca, come un'eco devota.
Potrebbe essere una debolezza e invece anche questo contribuisce all'estrema semplificazione da cui l'opera trae forza. Eliminata qualsiasi evoluzione dei personaggi, questi si fronteggiano in modo spietato, caratterizzati da motivi tesi alla massima espressione. Non temi da elaborare, ma citazioni che orientano l'ascoltatore, conducendolo, con la voce, riescono di gran lunga più aggressivi della finezza della scrittura. Anche se è vero, come assicura il Carner, che vi sono ben settanta temi musicali nella «Tosca», destinati a descrivere personaggi, oggetti, situazioni, è altrettanto vero che, in questa foresta, soltanto una decina, e forse meno, sono i temi decisivi: quelli che si condensano nei grandi duetti e nelle arie, mettendo a fuoco il dramma e imprimendosi nell'orecchio. La regola non patisce eccezioni: persino Scarpia - questo Jago da sacrestia per cui Puccini inventa modi tutti particolari di espressione, diversi da quelli di Tosca, di Cavaradossi - deve ricadere almeno un paio di volte nell'aria o nell'arioso enfatico («Va Tosca! Nel tuo cuor s'annida Scarpia», «Ella verrà... per amor del suo Mario!») affinché il personaggio acquisti il necessario rilievo.
Il difficile equilibrio tra volgarità e finezza è poi ulteriormente insidiato dalle esigenze del grosso pubblico, mai sazio di effusioni vocali. Se ne rende interprete Giulio Ricordi, l'editore che ha fatto di Puccini il cavallo di razza della scuderia, ma che vorrebbe vederlo correre con maggiore impegno sulle strade maestre del melodramma.
Giulio Ricordi era cresciuto con Verdi, con Boito, con Ponchielli, e non capiva perché il nuovo pupillo non riuscisse a progredire nel campo del grande romanticismo, aggiornato possibilmente a D'Annunzio. In quest'ottica il terzo atto della «Tosca» gli appare fiacco e scarsamente drammatico. Le critiche di Ricordi sono contenute in una lettera famosa (10 ottobre 1899) citata in tutte le biografie pucciniane. Esse si possono riassumere in breve: Primo, il duetto Tosca-Cavaradossi è «frammentario, a piccole linee che impiccioliscono i personaggi.» Secondo, il famosissimo «O dolci mani» è «sottolineato da una melodia pure frammentaria e modesta, e per colmo, un pezzo talis et qualis dell'Edgar!!» Terzo, l'inno latino o inno d'amore è ridotto a poche battute.
In conclusione, il terzo atto, secondo Ricordi, manca di forza e disperde l'effetto dei primi due. Puccini si difese con molta decisione e il pubblico continua a dargli ragione da tre quarti di secolo. È significativo, comunque, che il signor Giulio, facendosi interprete del cattivo gusto del tempo, rimproverasse a Puccini l'eccesso di misura, proprio nell'opera che ne ha meno. Perché qui Puccini si spinge sino all'estremo bordo del baratro verista, e si può discutere, semmai, se non vi cada dentro!
Del pari sintomatica è la faccenda dell'inno latino che avrebbe dovuto essere, secondo un'idea rimasticata all'infinito con Illica e Giacosa, una tirata passionale sulla romanità offesa, a mo' di addio dei due amanti alla vita. Di questa «ultima trionfalata», come la giudicava Puccini, rimase una traccia in quella breve stretta a due voci sulle parole «trionfal, / di nuova speme / l'anima freme / in celestial / crescente ardor. / In armonico vol / l'anima sale / all'estasi d'amor.» Non stupisce che il musicista non abbia trovato niente di meglio di una progressione ottocentesca per questi orribili versi.
Ciò che tuttavia è significativo è il fondo nascosto della contesa. L'idea dell'Inno a Roma (che Puccini, definendolo «una bella porcheria», scriverà poi per compiacere Jolanda di Savoia) è già nell'aria all'inizio del nuovo secolo. E il prodotto della retorica del D'Annunzio e del Pascoli, in gara come vati nazionali, e corrisponde allo stendardo issato da Sardou su Castel Sant'Angelo. Parole o bandiere al vento.
Rubens TEDESCHI, «Addio fiorito asil», Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 113-116
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