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LE PRIME RECENSIONI

 

 
 

Colombani
Corriere della Sera

Dopo la prima romana

 

Non discuteremo il genere dell'opera, che certamente non appartiene al genere noioso. S'intitola melodramma questa «Tosca», ma non lo è propriamente. Nel melodramma, quale italianamente noi intendiamo, i confini della musica sono assai meno ristretti dalle esigenze dell'azione, rapida, incalzante, precipitosa; e la profumata poesia del melodramma ha più largo campo per effondere la sua fragranza squisita. Qui invece il rivestimento musicale deve imporsi la massima sobrietà, poiché il libretto non consente ornamenti convenzionali che in pochi punti. Le frasi, forzatamente sommarie e brevi, devono invece spesso adattarsi ad un dialogo rotto, lesto, concitato.
Gli avvenimenti si succedono quasi tumultuariamente (come ognun sa, tutti i personaggi principali muoiono durante i tre atti) e la musica non può concedersi indugi... [Puccini] rimane sempre elegante; e questo è proprio veramente singolare in questa Tosca che per l'azione potrebbe suggerire le più riprovevoli volgarità. Con tutta la deferenza pel grande drammaturgo francese, io vorrei affermare che il suo lavoro fu migliorato prima dall'Illica e dal Giacosa, che ne affinarono i principali elementi, poi dal Puccini che con una tavolozza delicata e aristocratica ne nobilitò la rappresentazione.
Ma - per quanto abilmente mascherato - il difetto originale del dramma a tinte troppo forti, e povero di ogni elemento psicologico, rimane visibile ostacolo ad una libera estrinsecazione della fantasia musicale di Giacomo Puccini. E questo è forse il punto debole della sua Tosca. Si trova certamente nello spartito - e non poteva supporsi diversamente - più espressione drammatica che consistenza musicale ma lo spettacolo è senza dubbio interessante e congegnato per piacere....
 

La Perseveranza

Dispacci telegrafici dislocati
tra il tardo pomeriggio e le 1,20 del mattino.

 

20.30: parla dell'attesa per la prima di «Tosca» e del gran concorso di pubblico.
21: registra la presenza al Costanzi di tutta l'aristocrazia romana e del numeroso corpo diplomatico: «in un palco vedesi l'Ambasciatore francese, in un altro quelli degli Stati Uniti e di Germania».
21.30: appena iniziata l'esecuzione si avverte un tramestìo nel pubblico, tra ripetute grida di «Alla porta, alla porta!» Si cala il sipario fra applausi generali e risa ironiche, ma gli urli e il baccano continuano ancora per un pezzo [Si trattava di una semplice protesta contro i ritardatari disturbatori ma La Perseveranza tace su ben altre preoccupazioni della serata: la polizia, avuto sentore della minaccia del lancio di una bomba in teatro, era intervenuta presso il maestro Mugnone invitandolo ad attaccare, ove del caso, la marcia reale per frenare il panico. L'intervento allo spettacolo della regina Margherita poteva far temere infatti un attentato; del luglio seguente sarà il regicidio di Monza].
22.15: successo del primo atto: bis di «Recondite armonie» e due chiamate a Puccini dopo la romanza [nelle usanze del tempo l'autore era chiamato alla ribalta anche durante gli atti], e applausi per 'Non la sospiri la nostra casetta', «che certamente diverrà una canzone popolare». E alla fine dell'atto «scoppia un urrà con applausi fragorosi, interminabili; gli attori e il maestro Puccini sono chiamati due volte al proscenio fra urrà senza pari». Si replica il finale con il Te Deum: «l'impressione generale è promettente per il resto dell'opera».
23.15: «la scena finale riesce un po' raffreddata dall'azione mimica di Tosca che colloca le candele e il Crocifisso presso il cadavere di Scarpia, ciò che rende il quadro assai lugubre e meno espansive le accoglienze del pubblico. Infatti, calato il sipario, non si hanno che tre chiamate agli artisti e all'autore».
01.00: «Il terzo atto si apre con un movimento orchestrale giudicato troppo lungo e monotono»; bis di 'E lucean le stelle', e due chiamate a Puccini. «Il duetto piace mediocremente; però è buona la stretta finale che provoca un bis e una nuova chiamata a Puccini. L'atto brevissimo giudicasi inferiore agli antecedenti, malgrado ci sia maggiore unità fra musica e canto». Alla fine altre sei chiamate agli artisti e a Puccini.
01.20: «l'impressione del pubblico si è che l'opera non corrisponde completamente alla aspettativa legittima dopo il successo della 'Bohème'. La tetraggine del libretto nuoce allo svolgimento lirico. Nei momenti in cui il libretto presenta situazioni adatte al carattere e alla tendenza musicale di Puccini, il maestro si innalza con composizioni bellissime, ma che però non corrispondono perfettamente alle parti eccessivamente tragiche. Nel primo e nel secondo atto l'autore trova effetti musicali bellissimi, e nel terzo rivela talvolta un poco di fretta per giungere alla fine. Nuocciono al maggior successo dell'opera l'assenza dei cori e la parsimonia del canto, mentre hanno eccessiva prevalenza i recitativi e gli accompagnamenti orchestrali. La poca varietà ritmica del libretto, fatto quasi tutto a endecasillabi, ne rende enormemente difficile la musicabilità».
Nel numero del giorno successivo «La Perseveranza», dopo aver informato che l'incasso della serata è ammontato alla cospicua cifra di 27.900 lire, pubblica alcune impressioni suscitate dallo spettacolo: «Si dice che Puccini abbandonò i suoi ordinari elementi di successo e adottò l'abolizione del ritmo musicale [sic]».
Il Giorno

«Puccini ebbe torto di credere che basti il dramma e occorra il meno possibile di musica»; invita poi il maestro «a tornare al genere schietto e sincero che gli valse i precedenti successi».

Il Messaggero trova Tosca «più perfetta di 'Bohème' e di 'Manon Lescaut'; la nuova opera mostra che - «se Puccini non possiede il completo fascino dell'originalità, ha però le dolcissime malìe della forma, la limpidezza del ritmo e la scienza del dolore...»
La Tribuna rispetto a 'Manon Lescaut' e alla 'Bohème' «la mano fu più leggera. Non più perorazioni, non più l'affastellante incontro dello strumentale, non più esagerazioni negli effetti e nelle voci, a non più lo sforzo nella ricerca delle armonizzazioni... La base melodica è più allargata, la linea del pensiero è più ampia [sic], lo stile più elevato, l'orchestra ancor più forbita, certi espedienti di non perfetta lega sono spariti, e il sentimento drammatico è più robusto. Per contro v'è una quantità di ispirazione minore, una distribuzione degli effetti meno felice, i contrasti più bruschi e la composizione in se stessa è meno equilibrata...»
 

Il 20 febbraio 1900 «Tosca» è di scena al Teatro Regio di Torino, con gli stessi interpreti vocali, ma con la direzione di Alessandro Pomé, il maestro che sette anni prima aveva condotto al trionfo «Manon Lescaut». L'opera ottiene un successo molto più caloroso di quello romano.

 

 

Colombani
Corriere della Sera

 

Finalmente il 17 marzo 1900 «Tosca» approda alla Scala. Di nuovo Colombani sul «Corriere della Sera»: «l'accento vigoroso, eroico di questo ottimo artista, la cruda risuonanza del suo timbro, le disuguaglianze - pur altre volte sì efficaci - nelle emissioni di voce hanno concorso a una inadatta rappresentazione del personaggio ed hanno impedito a molte frasi melodiche d'essere subito apprezzate dall'uditorio... [...] D'una facile accusa voglio anche scagionare il simpatico nostro maestro. Si è detto che la rassomiglianza di qualche spunto della «Tosca» con altri della «Bohème» e soprattutto della «Manon» denota in lui povertà d'ispirazione, esaurimento di vena.
Ora io vorrei domandare a sì rigidi censori se non hanno mai riscontrato negli spartiti di Bellini, Rossini e Donizetti - per stare agli esempi più facili - qualche cosa di molto analogo... Non abbiamo avuto al mondo che un solo artista capace di trasformare continuamente il discorso di ciascun personaggio, di imprimere a ciascun eroe una speciale caratteristica melodica, di far sì che l'amore di Desdemona non avesse nulla in comune con quello di Gilda, di Violetta e di Aida. Ma chi può pretendere che nasca un secondo Verdi?
Il primo atto non diede luogo a manifestazioni di alcun genere sino in fondo. Al calar della tela soltanto scoppiarono gli applausi, che ripetendosi procurarono agli esecutori e al maestro quattro chiamate. Nel secondo atto riscosse approvazioni la scena della tortura, fu bissato il brano lirico di Tosca, e infine si ebbero tre chiamate. Nel terzo atto un altro bis alle strofe del tenore, applausi alla stretta del duetto d'amore, e cinque chiamate alla chiusura dell'opera. Un successo buono, dunque - concluse Colombani - ma senza tutto il calore che s'ebbe a Roma, né l'entusiasmo del pubblico torinese...»
 

La Perseveranza

 

«L'assemblea non ha creduto di lasciare a casa quel suo rigido, quasi teutonico sussiego con cui è solita accompagnare le prime rappresentazioni scaligere, e più ancora le opere che vengono a chiedere la conferma di altri giudizi. Forse anche l'abitudine contratta per l'esecuzione di opere wagneriane, le quali non consentono interruzioni d'applausi, il fatto si è che quell'atto primo che a Roma e a Torino fruttò due o tre bis e parecchie chiamate al maestro, fu accolto in silenzio, tranne un timido applauso alla dolcissima aria di Cavaradossi.
L'applauso, calata la tela, fu caloroso e generale, ma siamo stati ben lontani dagli entusiasmi romani e torinesi, tant'è vero che del pezzo non venne richiesta la replica...». (G.B. Nappi, ) E analogamente per il secondo e il terzo atto. Per quanto riguarda la valutazione dell'opera, il Nappi cede la parola al suo non meglio identificato collega Tom del «Nuovo Fanfulla»: «Puccini è stato sedotto dal dramma potente dello scrittore francese; ma con la seduzione ha dovuto anche subire la tirannia. E non si è accorto che il tiranno, stringendolo nella sua morsa, avvolgendolo nelle sue spire, penetrandogli nel cervello e nella fantasia, lo sopraffaceva in taluni momenti, lo soffocava in altri, gli dettava ad ogni modo la sua volontà, le sue leggi.
Il maestro armato in guerra ha sfidato e assalito in più punti il terribile seduttore, ma ha anche dovuto ritirarsi in buon ordine. Tornando vittorioso all'assalto, ha ottenuto segnalate vittorie... Ma seduzione e tirannia congiunte insieme hanno nuociuto alla musica... La parola del librettista, parafrasata sulla prosa francese, s'è imposta ed ha costretto ad abbozzare qua e là più che a scolpire, e a dare pennellate di colore più che a provarsi a un disegno lineare; a girare intorno ad un soggetto quasi timidamente più che ad agguantarlo per il petto e a costringerlo a parlare il divino linguaggio della musica...»
 

Il Secolo

 

«Il secondo atto ha talune belle pagine ma è, nei suoi momenti culminanti, raccapricciante e fuori dal dominio dell'arte musicale. L'ultimo atto è - a nostro modo di vedere - da arena. L'ingegno gentile del Puccini non poteva trovare per questa 'Tosca' le sue migliori ispirazioni! Nel primo atto siamo in chiesa, tuttavia la musica non è diversa dalla solita del Puccini; è 'La Bohème' che ha cambiato domicilio. Qual bisogno di ritmi saltellanti come quelli del sagrestano: ecché costui doveva forse ballare un trescone? Né il musicista ci parve felice nella prima romanza di Cavaradossi: vi manca la trovata di una linea melodica seducente.
È musica ben fatta, ecco tutto. Ma ciò non basta. Nel caso di quest'atto vediamo impiegati i Leitmotive, o motivi conduttori, ma siamo talmente lontani dall'arte di Wagner che crediamo bene di non tener conto di come se ne vale Puccini. In mano sua mancano di sviluppo, mancano di efficacia, e non concorrono affatto al polifonismo della partitura... Non è per far dello spirito - non abbiamo mai avuto queste pretese - la cosa migliore dell'atto, non tenendo conto di uno spunto del «Parsifal» e d'altri... ricordi, è diciamo il Te Deum, e precisamente al punto in cui duecento voci intonano la omofonia liturgica attribuita da taluni a sant'Ambrogio, da altri a San Nicezio. Oltre quindici secoli di vita nulla hanno tolto della sua sublime bellezza a quel canto immortale che attesta la grandezza dell'arte antica.
Vorremmo saltare a pié pari il secondo atto, come quello che ci ripugna all'anima. Saremo in errore, ma per noi il campo dell'arte - e in ispecie della musica, che ci viene, nella sua grandezza educatrice, dal cielo - non è quello che ci si presenta nella Tosca. Quei gridi del torturato, lo strazio di Florìa, l'efferato [sic] linguaggio di Scarpia; tutto ciò nulla ha a che vedere con la dolcezza del canto, con il fascino della musica, colla idealità che dobbiamo chiedere all'arte, a questo supremo cimento di civiltà. Tanto varrebbe portare la corrida alla Scala. Eppure è in questo atto che si sprigiona una cantilena deliziosa - e che ieri sera si volle ripetuta anche per merito della Darclée - cantilena che si svolge su una melodia già udita nel primo atto.
Nell'ultimo atto non mancano alcuni buoni momenti: primo fra tutti quello della romanza del tenore, traboccante di dolore... Anche nel successivo duetto - pezzo fuor di posto - fra Cavaradossi e Tosca fa capolino qualche frase che ricorda le migliori cose della musica pucciniana. Non ci è punto piaciuta la marcia funebre che sembra fatta da burla! La scena finale è degna di tempi... barbari. Ecché, siamo tornati all'epoca del Basso Impero? In nome dell'arte! Che il Puccini non si lasci più sedurre da siffatti soggetti troppo truci, antiestetici, antimusicali, e che invece di ravvivare la fantasia, la uccidono".
  Materiali desunti da Guido PIAMONTE, «Tra il Costanzi e la Scala le prime fortune di Tosca», nel Programma di Sala della Scala di Milano dedicato a «Tosca», Stagione lirica 1979-1980, pp. 59 - 65.
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