Giovanni Carli Ballola

Niccolò Piccinni a Parigi

 

Molto è stato scritto a proposito della scelta di Piccinni quale campione del partito italianista (capeggiato dal marchese Domenico Caracciolo, ambasciatore del re di Napoli a Parigi, e fomentato dall'abate Ferdinando Galiani), da contrapporre al tedesco infranciosato Gluck. Si è obiettato che tale scelta si sarebbe potuta orientare con maggior assennatezza su Traetta, il solo musicista italiano che i precedenti creativi e la
vocazione rendevano idoneo a fronteggiare adeguatamente Gluck e la fazione gluckiana. Ma nel 1776, (per l'esattezza, il 31 dicembre), quando Piccinni giunse a Parigi con la famiglia, Traetta non era che l'ombra del forte creatore degli anni di Mannheim e Vienna; inoltre era in comprensibile odore di eresia presso i fautori della melodia italiana, che gli preferirono Piccinni, di poco più giovane di Gluck e al culmine del successo come operista serio e buffo di puro stampo tradizionale.
Nella fattispecie, il lavoro che attirò l'attenzione di Parigi sul maestro barese fu un «Alessandro nelle Indie» prodotto nel 1774 per le scene napoletane e magnificato dal Galiani in una lettera a Madame d'Épinay: «Piccinni ha appunto dato un'opera nel nostro grande teatro» - scrisse l'arguto Abate alla sua amica, il 15 febbraio di quell'anno - «Essa sorpassa quanto abbiamo udito finora in fatto di buona musica. L'«Orfeo» di Gluck, dato a Corte negli stessi giorni, fu tremendamente eclissato... ». Capziosa era la notizia del presunto insuccesso dell'«Orfeo»; autentici, di contro, i pregi dell'«Alessandro», un'opera ricca di bellissime pagine (accentrate soprattutto nel personaggio di Cleofide), pur nell'ambito di un'estetica melodrammatica ineccepibilmente metastasiana e tradizionalistica.
Sbalzato da Napoli a Parigi col miraggio di vantaggi economici, più che con l'animo del competitore - e competitore di un uomo, come Gluck, dalla tempra indomita - il mite Piccinni segnò la pausa di un anno, durante il quale si impratichì alla meglio della prosodia francese sotto la guida di Jean-François Marmontel, discutendo nel contempo i particolari del libretto che il poeta gli andava apprestando. Una rielaborazione da Quinault - il collaboratore letterario di Lully, tornato in auge sotto il regno di Luigi XVI -, più che un lavoro originale, questo «Roland», in cui Marmontel si era limitato a condensare in tre atti i cinque dell'originale, conservando tuttavia in massima parte la primitiva versificazione.
Per Piccinni, l'accostarsi al magico e cavalleresco favoleggiare di Quinault significò un brusco volgere di spalle al verosimile e razionalistico di quella melodrammaturgia zeno-metastasiana nella quale era stato educato il suo sentire di operista serio. C'era per di più da affrontare il problema, squisitamente morfologico, della tragedie-lyrique. Giacché, e in ciò consisteva l'equivoco di fondo dei «piccinnisti», era scontato che il maestro pugliese si sarebbe dovuto produrre sulle scene parigine come campione della musica italiana in un travestimento francese, rivestendo cioè di note «italiane» un soggetto e un testo poetico della più tipica tradizione melodrammatica francese.
Ciò significava svuotare del suo logico significato l'antagonismo Piccinni-Gluck, artificiosamente montato dalle diatribe da palchetto e da gazzetta della querelle célèbre: costretto a scendere in campo come autore di tragédies-lyriques, e non di drammi seri di tipico stampo italiano, Piccinni veniva a muoversi sullo stesso terreno di Gluck - quello, appunto, dell'operista italiano per formazione e francesizzante per proposito -, rinunziando al «genere» di espressione melodrammatica che gli era familiare e che meglio avrebbe fatto risaltare le sue peculiarità di compositore «napoletano».
L'opzione, anzi, in tal caso, l'imposizione delle strutture della tragédie-lyrique rappresentò infatti per Piccinni uno sforzo di adattamento infinitamente maggiore di quello che sarebbe costato a Traetta, forte delle esperienze attuate alla corte parmense, o di quello che costerà, dieci anni dopo, a Cherubini, per formazione e inclinazione propria già predestinato a staccarsi per tempo dal grembo materno dell'opera italiana.
«Roland», rappresentato nel 1778 all'Academie Royale de Musique con discreto successo, è il documento di tale sforzo, non solo creativo, ma altresì psicologico. Documento commovente fin nella dedica alla regina Maria Antonietta,
pubblicata in testa alla partitura a stampa:

«De tout les talents que Votre Majesté daigne animer de ses regards et faire fleurir autour d'Elle, aucun n'a ressenti cette favorable influence aussi vivement que le mien. Transplanté, isolé dans un pays où tout était nouveau pour moi, intimidé dans mon travail par mille difficultés réunies, j'avais besoin de tout mon courage, et mon courage m'abandonnait... »

Davvero, in questa così patetica e poco diplomatica confessione di debolezza riconosciamo tutto il «très-honnête homme» descritto dal sagace Galiani, il quale non si era tuttavia peritato di gettarlo in ore leonis: il destino di un honnête homme valeva bene una buona querelle artistica!
Sarebbe peraltro inesatto esagerare le difficoltà e le amarezze incontrate da Piccinni in terra francese; e altrettanto inesatto sarebbe parlare di «sconfitta» nei suoi rapporti con Gluck e con i gluckisti. In realtà, dopo lo scontro frontale tra le due «Iphigenies» (e fu uno «scontro» per modo di dire, giacché le due opere vennero rappresentate a tre anni di distanza e con buon esito da entrambe le parti) la stella di Piccinni fu in continua ascesa, culminando col duplice trionfo della «Didon»; né mancarono, al Nostro, riconoscimenti e onori ambitissimi, come quello di essere nominato direttore di quella scuola di canto, accompagnamento e composizione destinata a costituire il nucleo originario del futuro Conservatorio parigino.
D'altro canto Gluck, seccatissimo per l'insuccesso di «Écho et Narcisse», il suo canto del cigno, dall'ottobre I779 aveva lasciato per sempre Parigi scotendo la polvere dai calzari, e da Vienna inviava di tanto in tanto lettere piene di corruccio senile, atteggiandosi, vedi caso, a genio sconfitto ed offeso.
«Roland», dunque (fatalmente preceduto di soli quattro mesi dall'«Armide» gluckiana, anch'essa su testo di Quinault), fu il primo approccio, pieno d'incertezze, di Piccinni con l'opera francese. Facile riscontrare i difetti di questa partitura massiccia e prolissa, dove il fin troppo fluente melodizzare napoletano si stende con dolce uniformità lungo il maldestro adattamento della vecchia pièce quinaultiana. Talora Piccinni, stanco di applicare diligentemente i moduli di Rameau, se ne esce con pompose arie di coloratura all'italiana (aria di Médor: «En butte aux fureurs de l'orage» atto II); e le sue evidenti simpatie vanno ancora per la vecchia forma tripartita, utilizzata di rado, ma negli episodi salienti della vicenda, come nel grande soliloquio di «Roland», all'atto III («Que l'insolent qui m'outrage»).
Talora, per contro, la sua diligenza nell'uniformarsi allo «stile francese» lo porta a deliziosi, piccoli capolavori di imitazione dal vero, come la paysannerie inserita nell'atto III, con i suoi cori agresti e le sue bergerettes che potrebbero recare la firma di un Monsigny appena un poco mouillé nel golfo di Napoli.
Ricca, squisita ed appropriata è poi quasi sempre la cornice decorativa dei cori e degli airs de ballet, toccando un vertice di autentica poesia nell'incantevole scena d'apertura dell'atto II («Coeurs des amants enchantés»), il cui sensuale fascino melodico fa impallidire molti luoghi analoghi dell'«Armide» gluckiana. Ma sono bellezze che girano a vuoto in una totale assenza di coerenza drammatica e nel contesto di una inventività generalmente incline al ripetersi e all'adagiarsi sull'ovvio e sul prevedibile.
Un «Phaon», su testo di C.-H. Watelet (I778), e un «Atys», ancora su versi di Quinault nell'adattamento di Marmontel (1780) non migliorarono sostanzialmente la posizione precaria di Piccinni nei confronti della tragédie-lyrique, della quale pareva avere captato solo il gradevole décor coreografico-corale e la delicata sensibilité lirica. Sfuggiva ancora, al maestro barese, quel severo ritmo da bassorilievo tragico che pulsa, sotto gli ori del fasto spettacolare, nelle architetture di ogni dramma di Rameau, e che aveva trovato piena rispondenza in un autentico temperamento di trageda come quello di Gluck.
Ma le doti acquisite, sia pure con lentezza e non senza commoventi incertezze, alla fine si affermarono, nella coscienza creativa di Piccinni, accanto a quelle native: il che, in arte, è contrassegno di vera grandezza. «Iphigénie en Tauride», su libretto di A. du Congé Dubreuil (1781), segna già un consistente progresso sulla via della conquista di quella continuità drammatica neppur tentata nei lavori precedenti: soprattutto l'atto III, con il grandioso Terzetto di Iphigénie, Oreste e Pilade, con l'aria di Oreste «O cruel», con le robuste scene d'assieme al cui riverbero le commosse effusioni liriche della protagonista, improntate al migliore melos napoletano, assumono un toccante contrasto, rappresenta un esito senza precedenti nel teatro serio del maestro italiano, e schiude il varco al prossimo capolavoro.
Tale, senza mezzi termini, deve considerarsi «Didon», e non solamente nel quadro della produzione di Piccinni, ma altresì di tutta l'opera seria settecentesca. Con «Didon» (1783) Piccinni ritornava, in un certo senso, sui propri passi: quattordici anni prima egli aveva infatti già rivestito di note lo stesso soggetto secondo le forme correnti dell'opera seria italiana. Si trattava, naturalmente, del famoso e arcimusicato testo di Metastasio, che Marmontel non poté non tenere sott'occhi e che, in effetti, non si peritò di parafrasare in più luoghi. Il risultato, questa volta, fu di gran lunga migliore dei precedenti adattamenti quinaultiani: essenziale e relativamente conciso lo svolgimento del dramma, sostanziale e mai decorativo l'intervento del coro, trascurabile e ridotto al minimo necessario quello delle parti di fianco. La minuta schermaglia sentimentale e la gesuitica casistica in cui, nel corso dei tre atti metastasiani, si diluisce il conflitto tra amore e dovere, cedono il posto, in Marmontel, a quella fatalistica inesorabilità delle passioni umane ereditata dalla grande tradizione tragica francese.
Inoltre, il dramma di Didon ed Enée è sbalzato in primo piano sullo sfondo del dramma di due popoli in guerra; quest'ultimo sembra, anzi, prendere vita da quello, e quando il primo divampa violento (come nel finale dell'atto II), il secondo esplode nel coro disperato dei Cartaginesi incalzati dalle milizie di Jarbe. L'invenzione musicale, quasi tutta di alto, quando non altissimo livello, si condensa in architetture relativamente concise ed agili, rispetto alla dispersività dei precedenti saggi drammatici: le arie, quasi sempre nella forma bipartita o di cavatina, si dipartono dal recitativo e vi rifluiscono senza sensibile soluzione di continuità, secondo una prassi ancor più radicale di quella gluckiana; d'altro canto, gli italianismi melodici, lungi dal risultare mortificati, risplendono in tutta la loro fascinosa sensualità, non senza ricorso a moduli belcantistici, là dove l'illuminazione psicologica del personaggio lo richieda, come nell'aria di Didon «Ah, que je fus bien inspirée», nell'atto II.
Episodi come questo, o come (sempre nella parte di Didon) «Hélas! pour nous il s'expose», atto III, violenta esplosione passionale pervasa da una tesa, corrusca concitazione già cherubiniana, sono qualcosa di più che felici momenti creativi, quali è dato trovare anche nella più convenzionale opera seria settecentesca. Qui e altrove, il delicato psicologismo del cantore di Cecchina riesce finalmente a fare breccia tra le rigide categorie caratteriali dell'opera seria, tradizionalmente destinate alla retorica tipologia degli «affetti», ravvivandole di un raggio benefico di verità umana.
Ma tutto ciò avviene per vie squisitamente culte, ossia mediante l'attenta assimilazione di quell'esprit de finesse che governa la dialettica delle passioni nella drammaturgia classica francese. Si pensi alla scena della «Phèdre» raciniana (atto II) in cui la timida Aricie insinua la propria passione per Hippolyte nelle lodi alla sua magnanimità di principe e di guerriero, circonfondendole di una delicata aura amorosa. Non diversamente, nelle arie sopra menzionate di Didon, la passione amorosa della regina appare dissimulata e traluce per vie traverse; nelle lodi al «dolce figlio di Citèra» difensore di una debole donna e del suo nascente regno; nel timore per i pericoli che egli incontrerà nella guerra contro Jarbe. Ed anche nel barbaro re dei Numidi, riscattato dal tradizionale eroismo di maniera, Piccinni ha saputo illuminare un fondo di accorata amarezza, di delusa protervia che ne fa, dopo quella della protagonista, la più forte caratterizzazione dell'opera.
Non sono, questi, che brevi e incompleti accenni al ricco sostrato di questa affascinante partitura la quale, paragonata alle maggiori di Gluck o di Traetta (per tacere del quasi coevo «Idomeneo» mozartiano) potrà apparire di una disarmante semplicità, soprattutto quanto a coloriti armonici ed orchestrali. Ma proprio da questa classica e «italiana» chiarezza «Didon» trae l'incanto delle sue pagine migliori e l'alta suggestività del suo maggior momento drammatico: quell'epilogo scandito sulla terribile calma di una trenodia sacerdotale implacabilmente dolce e serena, come gli Elisi prossimi ad accogliere la dolente regina. Nei «Troyens à Chartage», un'ottantina d'anni dopo, Berlioz si atterrà fedelmente, fino alla parafrasi, al disegno di questo grande episodio, ma anziché seguire il vecchio Piccinni nel suo temerario volo sulla glaciale desolazione di quel mi bemolle maggiore, preferirà incupire le tinte del proprio affresco sinfonico corale con pennellate cruente, come i veristici lamenti della regina agonizzante.
L'avvento di «Didon», sul cui esito si trovarono d'accordo gluckisti e piccinnisti, segnò virtualmente la fine della querelle célèbre.
«Gli zelanti di Gluck, questi nemici cosi ingiusti e sconfortanti del genio del suo rivale, sono i più grandi sostenitori della «Didon» e pretendono che Piccinni sia divenuto gluckista; essi non fanno attenzione che la grande trasformazione avvenuta nel far musica di questo grande compositore è essenzialmente prodotta dall'interesse del soggetto, dall'orientamento drammatico del poema, dalla sua struttura più affine a quella di cui l'«Iphigénie en Aulide» ha offerto un eccellente modello. Non possiamo tuttavia dissimulare che Piccinni abbia in quest'opera curato più il recitativo, che vi abbia posto più studio, più varietà, e soprattutto più accento di passione e di sensibilità. Le sue arie, sempre cosi melodiose, sempre così tornite... vi congiungono ancora una varietà ed un'energia d'espressione di cui i suoi detrattori lo credevano incapace... ».
Sono, queste, parole di Grimm (Correspondance littéraire, XI): e ben raramente Piccinni - ed anche Gluck - ebbero in sorte commenti altrettanto sereni ed avveduti alla loro opera. Né «Diane et Endymion», su libretto di J.-F. Espic de Liroux (1784), nonostante le lodi dello stesso Grimm, né «Pénélope», versi di Marmontel (1785) tennero testa a «Didon», vertice e conclusione dell'esperienza francese di Piccinni; il quale nello stesso periodo, accanto alla tragédie-lyrique coltivò con minor successo alla Comédie Italienne il genere leggero: «Le fat méprisé» (1779), «Le dormeur éveillé» (1783), «Le faux lord» (1783), «Lucette» (1784), «Le mensonge offcieux» (1787).
Compose, nel 1787, anche un «Enlèvement des Sabines» e una «Clytemnestre», che però non furono mai rappresentate. Sopravvenuta la Rivoluzione e perduta la più parte dei propri emolumenti, nel 1791, Piccinni si risolse a lasciare Parigi per Napoli; farà ritorno alla capitale francese nel 1798, per morirvi due anni dopo.
Giovanni Carli Ballola, «Niccolò Piccinni», in «Accademismo e Classicismo», «Storia dell'opera», vol. I, 2, Torino, UTET, pp. 113-117.