Gluck in Francia

 

Gluck e le teorie operistiche francesi

Iphigénie en Aulide

Caratteristiche delle opere parigine di Gluck

Iphigénie en Tauride

Echo et Narcisse

[In Martin Cooper, «L'opera in Francia», cap. de «L'età dell'Illuminismo», in «Storia della Musica Oxford», vol. VII, Milano, Feltrinelli, pp. 261-265]

Gluck e le teorie operistiche francesi
Gluck in realtà era in musica più un radicale del secolo XVIII che operava per una società chiusa e ancora in gran parte autocratica, che un profeta del secolo XIX rivolto al pubblico della borghesia. La sua «riforma» dell'opera italiana dovrebbe in realtà esser vista come una parte del medesimo movimento che aveva condotto Händel dall'opera aristocratica all'oratorio borghese e portato Haydn ad impressionare con la «straordinaria ingenuità e brio» dei suoi primi quartetti, e a suscitare discorsi sulla «degradazione della musica per amore di sciocchezze».
Ciò che offendeva la buona società musicale era l'accento plebeo della musica di Haydn e lo stesso rimprovero fu fatto, con la stessa motivazione, al recitativo secco italiano, quando venne introdotto in Francia dai bouffons. Caux de Cappeval afferma esplicitamente:

Le plat récitatif des Romains adopté
Est le simple disccurs du bas peuple emprunté.
Quando Gluck scriveva le sue opere parigine, non pensava essenzialmente all'effetto che potevano avere sulla Corte o neppure alla sua allieva di un tempo Maria Antonietta, ma a Rousseau, Grimm, Holbach, Alembert e al ristretto ma enormemente influente gruppo di pubblicisti, littérateurs e philosophes della borghesia che potevano creare o distruggere una fama. Questi uomini erano senza eccezione degli entusiasti della musica italiana e, anche se consapevoli del suo carattere plebeo, ne erano più che tolleranti.
Non era indispensabile che Gluck in Francia insistesse sulle teorie che egli aveva formulato nella prefazione all'«Alceste», poiché quasi in ogni caso esse facevano parte di teorie operistiche francesi già esistenti, anche se talvolta in pratica trascurate. Nell'opera francese la musica era già sottoposta alla poesia, l'aria col da capo era rara, l'ouverture era già collegata come carattere e spesso come materiale alla parte essenziale dell'opera, e quei gorgheggi che erano permessi ai cantanti avevano nella maggior parte dei casi per lo meno una parvenza di giustificazione drammatica.
In un certo senso, dunque, la riforma dell'opera italiana di Gluck era semplicemente un invito ad applicare le teorie francesi all'opera seria italiana, dove dominava indiscussa la musica (o piuttosto i cantanti). Non era mai stata messa in discussione la superiorità della musica drammatica italiana o dei cantanti come tali. Ciò che gli intellettuali parigini volevano era «un'arte in cui la maggior parte delle tradizioni francesi fosse conservata, ma dove il chant fosse italiano... Vino italiano in bottiglie francesi».
Ciò che si presentò a Gluck nell'opera francese era una forma d'arte che risentiva di un eccesso di razionalizzazione proprio come l'opera italiana risentiva di un eccesso di musica indifferenziata. Gli apologisti dell'epoca di Lully erano molto chiari nell'asserire che l'opera non era una fusione di diverse arti - ciò che più tardi Wagner doveva dichiarare come Gesamthunstwerk - ma semplicemente una «tragedia cantata».
Secondo Lecerf de la Viéville il compito di un compositore in un'opera era di illustrare il testo poetico («repeindre la poésie») e niente di più. Nella struttura essenziale della tragédie lyrique in realtà non era permesso alla musica di esistere per se stessa in modo indipendente, ma trovava rifugio nelle scene accessorie: balletti, divertissements di ogni genere, temporali, interludi pastorali o marziali e cose simili.
Coloro che erano abituati allo spontaneo fascino melodico dell'opera italiana, in cui le parole non erano che dei pretesti per le note, trovavano la tragédie lyrique sprovvista in modo deludente di un interesse e di uno stimolo puramente musicale e l'inflessione popolare e discorsiva del recitativo secco italiano faceva sembrare il formale stile cortigiano del recitativo francese insopportabilmente pomposo, modellato sul linguaggio di Corte così come era stato portato in teatro da Corneille e da Racine.
J.-J. Rousseau, attaccando il recitativo dell'opera francese, asseriva che Lully e Rameau non riuscivano nemmeno a cogliere il vero carattere della lingua francese nei loro recitativi, e la sua affermazione che ciò si sarebbe potuto ottenere soio mantenendo una severa semplicità di linea ed evitando tutti gli intervalli ampi fu poi effettivamente rivendicata, anche se centocinquant'anni dopo, da Debussy. Interessato soltanto al potere della musica di commuovere i cuori e di descrivere situazioni e stati d'animo, Rousseau credeva esclusivamente nel più semplice tipo di «melodia.» «La musique ne saurait aller au coeur que par le charme de la mélodie», egli scriveva; ed era questo suo modo strettamente teorico di pensare che lo induceva a condannare come «innaturale» la polifonia e ogni elaborazione puramente musicale.
L'incomprensione di Rousseau per ogni caratterizzazione nell'opera o l'averla confusa con una semplice descrizione di stati d'animo lo poneva in realtà fra gli ultimi difensori dell'opera italiana. Né questi né gli intransigenti sostenitori della tradizionale tragédie lyrique di Lully e Rameau potevano logicamente accettare Gluck, che si era attirato l'ammirazione dei moderati di ambedue le parti, quella francese e quella italiana, e ancor più di quegli amatori di musica che istintivamente riconoscevano il suo genio e non erano ostacolati dalle opposte opinioni dei teorici.
Una valida spiegazione della diversità fra la concezione viennese dell'opera (cioè italiana) e quella francese si può trovare nelle modifiche apportate da Gluck alle versioni originali dell'«Orfeo ed Euridice» e dell'«Alceste» quando volle rappresentarle a Parigi nel 1774 e 1776. Nell'Orfeo la voce di castrato fu sostituita da quella di tenore, l'orchestra si arricchì (specialmente con un uso accresciuto di trombe), la scena presso i cancelli dell'Ade e quella ai Campi Elisi fu ampliata e a Cupido ed Euridice furono date nuove arie.
Nell'«Alceste» si era soprattutto impegnato a dare maggiore movimento e verosimiglianza all'intreccio e lo realizzò cambiando l'ordine di diverse scene, togliendo le due confidenti di Alceste e aggiungendo il nuovo personaggio di Ercole. Tutti questi cambiamenti possono essere spiegati dalla consapevolezza di Gluck dell'interesse dei francesi per il dramma e lo spettacolo drammatico e della maggior importanza data a Parigi all'orchestra. Questo gli può esser stato spiegato a fondo dal librettista dell'«Iphigénie en Aulide», du Roullet (Le Blanc du Roullet), il cui protettore di Parigi, Le Riche de La Pouplinière, era una delle persone più importanti che si adoperavano per introdurre in Francia la musica dei sinfonisti di Mannheim.
Dopo la sua carica di direttore musicale alla Corte di Vienna nel 1754, il nome di Gluck era diventato ben noto a Parigi; l'abbiamo visto infatti adattare e rielaborare lavori di Favart per spettacoli a Schönbrunn e a Laxenburg durante gli anni tra il 1755 e il 1760.
Nel 1760 il conte Durazzo, sovrintendente dei teatri imperiali e a cui Gluck doveva la sua carica, mandò a Favart due dei lavori francesi di Gluck, «La Cythère assiégée» e «L'Isle de Merlin» e Favart rispose complimentando il compositore per la sua prosodia francese. Due anni dopo Durazzo fece pubblicare una partitura di «Orfeo ed Euridice» a Parigi e, sebbene soltanto nove copie fossero state vendute durante i tre anni seguenti, Philidor e Mondonville furono tra i compositori che la comprarono, e nel 1765 Blaise inserì arie tolte dall'«Orfeo» e da «La Rencontre imprévue» nel suo «Isabelle et Gertrude».
Il fatto che una delle allieve reali di Gluck, la principessa Maria Antonietta, era diventata dauphine di Francia ed era salita al trono come regina nel 1774 era solo l'ultimo anello in una catena di avvenimenti che rendevano sempre più probabile la venuta di Gluck a Parigi. Da parte sua aveva molti incentivi - il miraggio di farsi un nome nella capitale culturale d'Europa e il risarcirsi delle gravi perdite finanziarie nelle quali era incorso nel 1769 come compartecipante alla gestione del Burgtheater di Vienna, come pure la prospettiva di sviluppare i suoi ideali operistici in un ambiente nuovo e comprensivo.
L'opera francese probabilmente lo aveva interessato fin dal 1745, quando egli era stato a Parigi durante il suo viaggio a Londra e può darsi che avesse ascoltato una delle opere di Rameau. Ranieri Calzabigi, suo librettista per l'«Orfeo», aveva passato circa sette anni a Parigi prima di giungere a Vienna nel 1761, e certamente deve aver descritto a Gluck molto diffusamente le condizioni dell'opera francese, le probabilità di far rinascere un interesse per la tragedia lirica e pertanto di farsi una fortuna, un argomento questo in cui Calzabigi era in un certo senso un'autorità, avendo egli nel 1757 istituito una lotteria sotto la protezione di Madame de Pompadour.
In modo più indiretto Gluck era venuto in contatto con gli ideali e con la pratica operistica francese attraverso le opere di Tommaso Traetta (1727 -1779), maestro di cappella alla Corte dei Borboni di Parma. Traetta si recò due volte a Vienna per dirigervi delle sue opere. Non sarebbe esagerato dire che verso il 1758, quando Traetta ebbe questo incarico, Parma era una delle ultime roccaforti della tragédie lyrique francese. Il sovrintendente era un francese, du Tillet, ed egli non solo fece eseguire la musica di Rameau nel teatro di Corte ma fece tradurre i libretti di «Hippolyte et Aricie» e di «Castor et Pollux» in italiano e li fece musicare nel 1759 e 1760 da Traetta.
La fama di Parma tra gli appassionati di musica italiani la si può cogliere da una lettera scritta nel 1758 dal conte Agostino Paradisi ad Algarotti, il cui «Saggio sopra l'opera in musica» (1755) è una delle prime difese della riforma operistica. «A Parma sono stato all' opera,» egli scrive »dove trovai molte cose di mia piena soddisfazione... la via mi è sembrata aperta per un rinnovamento dei miracoli di quell'arte che tanto apprezzavano i Greci.»
Le due opere di Traetta per Vienna hanno dei titoli rivelatori - «Armida» (1761), su un libretto tratto da Quinault e «Ifigenia in Tauride» (1763), su un libretto di Marco Coltellini.
Iphigénie en Aulide
L'occasione di mettere in pratica il progetto di rinnovare la tragedia lirica francese proprio in Francia fu data a Gluck da un addetto all'Ambasciata francese di Vienna, Francois du Roullet. Coetaneo di Gluck, du Roullet aveva passato molto tempo durante gli anni Cinquanta nella casa di Le Riche de La Pouplinière, un fermier-général che aveva speso molto della sua enorme ricchezza a favore della musica e delle arti. Rameau, e più tardi Gossec, frequentavano la sua casa, dove Voltaire, Rousseau e Marmontel erano intimi; e il compositore di Mannheim Johann Stamitz fu ospite del banchiere durante il suo soggiorno a Parigi nel 1755. Du Roullet era quindi stato al centro della vita musicale parigina e conosceva bene tanto la tradizione della tragédie lyrique quanto i suoi decisi oppositori tra gli Enciclopedisti. Sapeva che Algarotti e Diderot avevano consigliato l'«Iphigénie en Aulide» di Racine come un soggetto d'opera ideale ed egli si accinse a creare un libretto con l'obiettivo di dimostrare la falsità dell'asserzione di Rousseau che il francese era una lingua non adatta ad essere cantata.
Questo era l'argomento principale esposto da Du Roullet nella lettera apparsa sul «Mercure de France» il 1° ottobre 1772 allo scopo di sollecitare interesse intorno all'opera di Gluck; e quest'argomento fu ripreso da Gluck stesso nella sua lettera al medesimo giornale quattro mesi dopo. In questa Gluck nega di preferire una qualunque lingua - «poiché meglio mi si adatterà sempre quella in cui il poeta mi offrirà le più varie possibilità di esprimere le passioni»; e cercò di disarmare Rousseau perorando una sua collaborazione nel creare «una musica adatta a tutte le nazioni» e libera da «le distinzioni ridicole della musica nazionale.» Dauvergne, allora direttore dell'Opéra, accondiscese ad esaminare la partitura del primo atto dell'Iphigénie en Aulide, e ne fu cosí colpito che fece pressione perché Gluck si impegnasse a comporre sei opere dello stesso genere, «poiché quella sola era tale da far piazza pulita di tutte le opere francesi.»
Non fu che nell'aprile del 1774 che l'«Iphigénie an Aulide» fu rappresentata per la prima volta e ciò non sarebbe mai accaduto se Gluck non fosse stato capace di ottenere l'interesse e l'influenza di Maria Antonietta. Al suo arrivo egli aveva trovato l'Opéra in condizioni disastrose di esecuzione.
I cantanti non sapevano che »urlare o salmodiare», il coro era una massa di automi in guanti bianchi e l'orchestra sommersa dalla routine. I violinisti d'inverno suonavano con i guanti; i flauti suonavano un'ottava sotto i flautini ma con una differenza di quarto di tono; i corni da caccia e le trombe militari costituivano la sezione degli ottoni e una sezione dei violini suonava i tamburi. Sfumature di qualunque genere sembravano sconosciute. L'organico normalmente impiegato era di ventiquattro violini, cinque viole, diciassette bassi (violoncelli e contrabbassi), sei flauti e sei oboi, due clarinetti, otto fagotti, due corni, una tromba e un clavicembalo.
Il fatto che Gluck presenziasse alle prove, che durarono sei mesi, indubbiamente garantì la qualità dell'esecuzione, ma indusse a incertezze riguardanti la partitura scritta, che hanno messo in imbarazzo i futuri revisori: annotazioni «col basso» erano incerte come durata e applicazione, a solo di fiati di cui non era specificato lo strumento ad esso destinato, e scambi di parti non chiare dato l'uso dello stesso rigo per due diversi strumenti.
Prima di esaminare dettagliatamente il carattere delle opere parigine di Gluck, sarà bene stabilire la cronologia della sua quinquennale collaborazione con la capitale francese. «Iphigénie en Aulide» ebbe la sua prima rappresentazione all'Opéra (Académie Royale de Musique) il 19 aprile 1774. All'inizio del successivo agosto venne dato «Orphée et Eurydice», la nuova versione francese dell'«Orfeo», e al principio dell'autunno Gluck tornò a Vienna. Alla fine del 1774 morì Luigi XV e nel successivo febbraio «Iphigénie en Aulide» fu ripresa in una versione riveduta, con un nuovo dénouement che faceva apparire Diana in scena. Gluck venne da Vienna per dirigere questa rappresentazione e quelle delle sue «L'Arbre enchanté» e «La Cythère assiégée», entrambe rivedute.
Egli lavorò ad una versione francese dell'«Alceste» e tornò a Vienna con due libretti di Quinault, «Roland e Armide». Nel marzo del 1776 egli era nuovamente a Parigi per la prima rappresentazione dell'«Alceste», ma tornò a Vienna ai primi di giugno profondamente scosso per la morte della figlia adottiva.
Nel frattempo la fazione italiana, capeggiata da Marmontel e da La Harpe, aveva dato l'incarico al napoletano Niccolò Piccinni di musicare il «Roland» di Quinault, con l'intenzione di mettere a confronto sullo stesso terreno i due compositori. Gluck ebbe sentore di ciò e scrisse una lettera sdegnata a du Roullet, che la pubblicò, senza il consenso di Gluck, sull'«Année littéraire»; questo incidente iniziò non ufficialmente la polemica tra «Gluckistes» e «Piccinistes». Gluck distrusse i suoi abbozzi per il «Roland», ma tornò a Parigi nel maggio del 1777 e nel settembre di quell'anno fu presente alla prima rappresentazione della sua «Armide». Egli rimase a Parigi per il «Roland» di Piccinni, dato nel gennaio del 1778, e tornò a Vienna nel mese di marzo.
Fu di nuovo a Parigi in novembre, portando la sua «Iphigénie en Tauride», che venne data il maggio seguente. Dopo l'insuccesso del suo «Echo et Narcisse» nel settembre dello stesso anno (1779), partì per Vienna, dove rimase fino alla sua morte avvenuta nel 1787.
Caratteristiche delle opere parigine di Gluck
Quali erano le caratteristiche che avevano procurato tanto successo alle opere parigine di Gluck? Dobbiamo cercare di non tener conto delle cricche e degli intrighi sociali e giornalistici, degli agenti pubblicitari e delle critiche malevoli che avevano gettato una cortina di fumo intorno alle opere stesse. Quando Romain Rolland asserí che Gluck era un uomo, mentre i suoi rivali erano semplicemente dei musicisti, aveva messo il dito sulla piaga. Gluck conquistò il pubblico parigino con l'audace semplicità della sua musica, una qualità non sempre apprezzata da molti musicisti che trovano le sue partiture ritmicamente poco interessanti e strumentalmente deboli, ma tale da accattivarsi gli ascoltatori facendo presa sui loro gusti letterari e razionalistici piuttosto che su quelli semplicemente musicali.
Egli pose termine alla disputa tra i sostenitori della musica francese e quelli della musica italiana riunendo le qualità essenziali di ambedue le scuole e componendo musica italiana in forme francesi. La «riforma» dell'opera italiana che precedentemente era durata circa quindici anni consisteva, come abbiamo visto, in massima parte nell'applicazione di principi tratti dalla pratica francese esistente, ma la stessa formazione di Gluck e tutti i suoi primi lavori erano stati esclusivamente italiani ed era impensabile che egli potesse mai abbandonare ciò che in realtà era il fondamento di tutto il suo carattere musicale.
Come molti geni, egli non si sentiva obbligato ad essere coerente nella pratica con le proprie teorie. Nelle sue opere parigine egli spesso usa forme «chiuse,» compresa l'aria col da capo; le parole vengono ripetute per ragioni semplicemente musicali; il recitativo è spesso a mala pena distinguibile dal recitativo secco italiano; e nel caso di «Armide» (come nel primo «Orfeo») l'ouverture non mostrava nessuna organica connessione col dramma che segue. Queste non erano delle concessioni consapevoli (benché Gluck fosse pronto a farne anche di queste, come è dimostrato dall'aria di bravura di Achille «J'obtiens Iphigénie»), quanto dei ritorni a un genere, e ciò può preoccupare solo gli storici o i teorici dell'opera.
Le opere italiane «Orfeo» e «Alceste» avevano le qualità statiche di un fregio o di una serie di dipinti di soggetto drammatico, ma Gluck sapeva che il pubblico francese reclamava (e i librettisti francesi procuravano) un dramma ricco di avvenimenti. Du Roullet non aveva ecceduto introducendo brani non pertinenti che alteravano la semplice economia della tragedia di Racine: il personaggio di Patroclo (per procurare una voce di basso al quartetto) e l'intrigo col quale Agamennone cerca di discreditare Achille agli occhi di Clitemnestra e di Ifigenia.
Anche i divertissement, sebbene non imposti solo dal gusto francese (come ci si può rendere conto dall'«Orfeo»), indeboliscono il lavoro per l'ascoltatore di oggi quando li trova messi al posto di un vero dénouement drammatico. Una volta riconosciuti tutti questi difetti, «Iphigénie en Aulide» rimane ancora nella storia dell'opera una delle grandi tragedie umane. Già la tensione tragica si sente con la prima frase dell'ouverture, tolta dal precedente «Telemacco» di Gluck (e forse da una Messa di Feo, benché in realtà simili frasi, che possono essere trattate contrappuntisticamente, sono comuni in tutta quanta la musica da chiesa del secolo XVIII). Quando riappare, in «Diane impitoyable» di Agamennone, ci accorgiamo che i ritardi sono adoperati nella musica come un simbolo della tragica indecisione nella mente di un uomo il cui pubblico dovere lo spinge a lottare, senza alcuna speranza di rimedio, con i suoi sentimenti umani di padre. [...]
Il brano che segue nella medesima scena dove l'oboe fa eco a «le cri plaintif de la nature» era qualcosa di completamente nuovo nell'opera, uno strumento aggiunto, per cosí dire, alle dramatis personae. Una scena altrettanto bella appare solo al terzo atto, dove «Quels tristes chants se font entendre!» di Clitemnestra, contrapposto a un coro fra le quinte ci fanno presentire molte scene di opere del secolo XIX: la «Médée» di Cherubini, il «Lohengrin» di Wagner, «Les Troyens» di Berlioz e l'«Aida» di Verdi. Proprio Ifigenia è la più francese dei protagonisti. La sua musica oscilla sempre tra il recitativo e l'aria o l'arioso, e in due occasioni Gluck le dà un petit air francese (o air de monvement per il suo ritmo più regolare) situato in un recitativo. Niente è più francese, nella forma e nel sentimento, di questo brano [...]
Altri brani dell'«Iphigénie en Aulide» con caratteristiche schiettamente francesi sono la passacaglia dell'Atto II e la ciaccona finale; il ballet de caractère (dove l'«Air pour les esclaves», con il suo monotono basso pizzicato, viene chiamato »tirolais ou cosaque») e gli abbellimenti della linea vocale con le appoggiature «espressive». Nell'opéra comique questa era una normale caratteristica, come abbiamo visto, derivata dalla comédie larmoyante [...].
Per la ripresa del 1775, quando Gluck aggiunse al dénouement il personaggio di Diana, furono fatte considerevoli aggiunte alla partitura, tutte tolte da precedenti opere: da «La clemenza di Tito» il coro «Que d'attraits» nell'Atto II; e «Cythère assiégée», «Don Juan», «Telemacco» e (due volte) «Paride ed Elena» furono tutte saccheggiate per procurare danze e cori all'Atto II.
Dopo aver sfrondato e riadattato l'«Orfeo ed Euridice» al gusto francese, Gluck, come abbiamo visto, si ritirò a Vienna con due libretti d'opera, «Roland» e «Armide». «Roland» non fu mai terminato; ma «Armide» fu rappresentata il 23 settembre 1777. In quest'opera Gluck fu forzatamente portato in piena epoca barocca dal libretto di Quinault (scritto per Lully nel 1686), con le sue personificazioni, il suo simbolismo e la sua passione per la grandiosità spettacolare. Gluck come uomo non era altro che un professionista e un abile affarista ed egli avrebbe accettato qualsiasi libretto ragionevole a condizione di ritenerlo vantaggioso per sé il farlo. Ma è significativo che egli si serví qui di un materiale derivato in gran parte da altre opere più di quanto fece in qualunque altra opera della sua maturità.
L'ouverture fu presa quasi integralmente da «Telemacco» che fornì anche la musica a «Esprits de haine et de rage» (Atto II) e a «Plus on connait l'amour» dell'Atto III, pur avendo attinto anche da altre più antiche opere, come l'«Ippolito» (1745), e «Le Feste d'Apollo» (1769). Il ricorrere al proprio passato non (come nell'«Iphigénie en Aulide») per dare con danze e cori maggior consistenza a una scena convenzionale, ma per musicare alcuni dei momenti più cruciali dell'opera, fa pensare che Gluck non si fosse completamente impegnato nell'Armide ma che egli avesse maggior interesse a completare l'opera che sapeva dover essere pronta per far fronte alla sfida di Piccinni nella gara progettata dai pubblicisti parigini. I momenti grandi e precorritori in «Armide» sono il doppio coro che chiede vendetta alla fine dell'Atto I con i suoi ritmi puntati, martellanti, una scena drammatica tale come Meyerbeer svilupperà sessant'anni più tardi; l'a solo dell'oboe con le viole divise, i bassi pizzicati e le terzine staccate dei violini, che presagiscono quelle della danza delle silfidi di Berlioz; la ciaccona e la sconfitta finale di Armida nel quinto atto. Wagner si era ricordato di Armida quando creò Kundry e la scena del giardino incantato di Klingsor. In realtà l'importanza di «Armide» è l'essere stata come una miniera per i futuri creatori di opere.
Iphigénie en Tauride
Con l'«Iphigénie en Tauride», apparsa alla fine della carriera di Gluck e forse la sua massima opera, ci muoviamo in un mondo completamente diverso; ancora quello della tragedia classica francese ma penetrato da acutezze psicologiche e presentato con un'economia di mezzi molto piú vicina all'originale di Euripide che non all'«Iphigénie en Aulide» di du Roullet.
Il librettista di Gluck era Nicolas-Francois Guillard, che si dice abbia scritto il suo dramma sotto l'influenza dell'«Iphigénie en Aulide» e lo abbia mandato a du Roullet, che lo fece pervenire a Gluck con una forte raccomandazione. Guillard non aggiungeva nessuna di quelle confidantes o di quei complotti, motivazioni o ornamenti supplementari con i quali il secolo XVIII normalmente «modernizzava» i suoi modelli greci; e Gluck s'impadronì con entusiasmo di un poema la cui serenità d'espressione e la chiara, semplice struttura richiedeva proprio quella musica che lui solo poteva dare. Il risultato è indubbiamente un capolavoro e l'ultima grande opera di «tipo classico», poiché quando Chernbini compose solo diciotto anni dopo la sua «Médée», la Rivoluzione francese aveva affrettato e intensificato la crescita di quel Romanticismo che già aveva cominciato a penetrare l'opéra comique, benché Gluck ne fosse appena stato sfiorato.
Dal temporale che dà inizio all'opera e che conduce direttamente alla prima scena, sino alla fine del primo atto, non c'è un' esitazione, non una battuta superflua. Ik sogno terrificante d'Ifigenia conduce con naturalezza al coro compassionevole delle sacerdotesse e alla sublime preghiera di lei («O toi qui prolongeas mes jours») nella quale l'oboe svolge di nuovo il suo ruolo abituale. Toante è rappresentato come un barbaro re superstizioso e il suo «De noirs pressentiments» presenta il piú alto contrasto sonoro e ritmico col trasfigurato mondo della religione ellenica di Ifigenia, eticamente colorato. L'arrivo di Oreste e Pilade è accolto da una serie di efferati cori e danze che concludono l'atto con brutale subitaneità, nella tonalità minore relativa a quella maggiore (Re maggiore-Si minore).
Il secondo atto, che ci mostra Oreste e Pilade in prigione, inizia con una citazione presa dal balletto «Semiramide» (1765) di Gluck. Anche in questo balletto è rappresentato un parricidio ed è significativo che Gluck ricorra nuovamente ad esso immediatamente prima che il sacrificio di Oreste sia interrotto da Ifigenia, che lo riconosce come suo fratello. Il contrasto fra Oreste e Pilade, per quale dei due debba morire, può sembrare a un gusto moderno eccessivamente prolungato, benché fosse una situazione molto apprezzata dal pubblico del secolo XVIII, il cui desiderio per tali esibizioni di sentimenti elevati era insaziabile. Il «Dieux, qui me poursuivez» di Oreste, che è tenuto nel registro acuto ed è orchestrato in modo pesante (corni, trombe, timpaní) suggerisce l'ipertensione di uno psicopatico e la scena seguente è una magistrale rappresentazione psicologica di una crisi nervosa.
Lasciato solo, Oreste invoca deliberatamente la punizione degli dei, cade al suolo e perde evidentemente conoscenza. Quando rinviene, sembra per un momento sollevato, sebbene il tumultuoso battito del suo cuore, espresso dalla figurazione sincopata della viola [...] contraddica le parole con le quali egli cerca di tranquillizzare se stesso. Egli cade spossato in un sonno agitato ed è immediatamente assalito dalle Furie. Il loro coro, con il trombone che accompagna all'unisono le voci con una inesorabile scala ascendente, è anch'esso preso dalla «Semiramide», dove il brano si presenta quasi subito dopo l'inizio della prima scena. Oreste chiede pietà, ma ogni volta (cinque in tutto) le Furie ripetono la loro accusa «il a tué sa mère».
La stessa Clitemnestra appare in un momento terrificante e quando Ifigenia entra Oreste si alza bruscamente e scambia la sorella viva con la madre morta, un momento questo di toccante verità. Ifigenia lo interroga e apprende la verità sulla loro famiglia, meno che in un punto su cui egli l'inganna dicendole che Oreste è morto. I cori elegiaci delle sacerdotesse e lo sfiduciato lamento d'Ifigenia «O malheureuse Iphigénie» - in cui la tonalità di Sol maggiore ne accentua la disperazione pur infondendo quasi un senso di sollievo in quanto ormai nulla di più orribile poteva venire appreso - chiudono l'atto serenamente. Nell'aria Gluck torna al suo preferito avvicendamento dell'oboe a solo con la voce, anche se la musica è tolta dalla sua «La clemenza di Tito», cosí come il coro finale dell'atto è un arrangiamento di «Que d'attraits, que de majesté» dell'«Iphigénie en Aulide».
Il terzo atto è il piú debole dell'opera, forse perché Gluck stesso non riusciva a mantenere vivo il suo interesse nella contesa fra Oreste e Pilade sul diritto all'autosacrificio. C'è però un esempio interessante del suo ininterrotto debito ai moduli dell'opéra comique francese nel terzetto dal ritmo accentuato «Je pourrais du tyran» e in «Divinités des grandes ames» di Pilade, col suo carattere armonico del tutto privo di ogni novità e con la ripetizione delle cadenze nelle quali Gluck sembra voler mirare al nobile, statico effetto da oratorio che Beethoven userà nell'ultimo atto del «Fidelio».
L'ultimo atto inizia con un'aria di genere «brillante» affidata a Ifigenia, «Je t'implore et je tremble», che Gluck aveva usato sia nel «Telemacco» che nell'«Antigone». Ma la versione definitiva del dénouement, che procurò al compositore tanta preoccupazione e che raggiunse la sua forma finale soltanto alla prova generale, dopo che due precedenti versioni erano state scartate, rivela l'arte drammatica di Gluck nel suo momento piú elevato, piú semplice, piú conciso. E soltanto quando Ifigenia alza il pugnale sacrificale per colpirlo, Oreste, in un patetico a solo, rivela la sua identità. [...]
Nella scena seguente era originariamente Oreste e non Pilade che uccideva Toante.
Il coro finale è preso da Paride ed Elena e Gluck permise che la musica del balletto «Les Scythes enchainés» di Gossec-Noverre fosse adoperata per i divertissement finali.
Echo et Narcisse
«Iphigénie en Tauride» è l'ultima e sotto molti aspetti la piú insigne opera ancora nella tradizione di Racine-Lully, tradizione che, sotto il suo impulso, godette ancora di altri dieci anni di popolarità, prima che la Rivoluzione del 1789 la spazzasse via insieme alla società che l'aveva creata. Gluck stesso scrisse soltanto un'altra opera prima del suo ritorno definitivo a Vienna. «Echo et Narcisse» fu scritta per i ballerini Vestris e La Guimard, con la coreografia di Noverre, ma Gluck dichiarò con sdegno che non era un ritorno allo stile pastorale dell'antico opéra-ballet. Egli concepiva il mito come una «vera tragedia», e benché non fosse aiutato dal debole libretto fornitogli da un altro diplomatico, il barone Tschudi (un loreno di origine svizzera), vi si notano segni di un nostalgico desiderio di ricreare lo stile trasfigurato, statico da fregio antico dell'Orfeo.
Solitamente poco fantasioso nel modo di trattare l'orchestra, Gluck sembra qui preoccuparsi piú del solito per la qualità puramente timbrica della musica; il suo modo di trattare la doppia orchestra nell'ouverture e gli effetti di eco sparsi dappertutto, richiamano un'affinità con la «festa teatrale» barocca. Se malgrado i suoi occasionali momenti felici «Echo et Narcisse» fu un insuccesso, Gluck non poteva che biasimare se stesso. Aveva abituato i suoi ascoltatori ad avere soddisfazioni musicali e drammatiche piú profonde e piú forti ed essi non si contentavano piú di qualcosa che fosse meno che emozionante.