Elvio Giudici

Le 4 versioni di Don Carlos

Ci sono capolavori che nascono di getto, perfetti e compiuti in ogni loro parte; e ce ne sono altri che costruiscono la propria statura attraverso una gestazione laboriosa, ricca di ripensamenti a volte anche contraddittori. Alla seconda categoria appartiene senza dubbio il Don Carlo: che, come nessun'altra opera sua, spinse Verdi al tormento di rielaborazioni o riscritture d'interi brani, spie di quanto profonda fosse la rispondenza tra la propria sensibilità e il coacervo drammatico del lavoro di Schiller. Tormento, tuttavia, che ha finito col concretarsi in un'opera che a mio parere non solo sopravanza di non poco - in termini di drammaturgia e psicologia dei caratteri - quella dello stesso Schiller, ma sta in cima al pur tanto ricco e variegato corpus del teatro verdiano.
La complessità della gestazione non ha mancato di riflettersi sulla storia esecutiva: stentata, giacché il pubblico ha tardato ad accorgersi della grandezza dell'opera (negandole tuttora, se è per questo, l'adesione spontanea riservata ínvece a titoli sicuramente inferiori), in ciò poco aiutato dalla critica e pochissimo dalla musicologia, responsabile fino a tutti gli anni Cinquanta, in Germania e Inghilterrra soprattutto, di edizioni - non solo teatrali ma addirittura editoriali - a dir poco obbrobriose nel loro clisinvolto impiego di tagli, rielaborazioni e spostamenti interni. Sicché non mi pare fuor di luogo un rapido riassunto dell'odierna situazione editoriale del «Don Carlo», dal momento che questa, com'è ovvio, getta importanti riflessi sulla sua discografia.

Edizione I

Il 12 marzo 1867 andò in scena a Parigi il «Don Carlos», opera in cinque atti su testo francese di Camille Du Locle, che giunse in Italia - a Bologna - il 26 ottobre dello stesso anno, tradotta in italiano da Achille de Lauzières e col titolo mutato in «Don Carlo».

Edizione II

Nel 1872, sul corpo musicale della versione italiana, Verdi intervenne in occasione della prima rappresentazione a Napoli, modificando profondamente il duetto Filippo-Posa e praticando un taglio (la sezione «Si, l'eroismo è questo») nel duetto Elisabetta-Carlo dell'ultimo atto.

Edizione III

Nel 1882, in vista delle recíte previste a Vienna, Verdi ritornò con tagli e sostituzioní sullo spartito (attenzione: spartito francese) dell'opera, facendosi comporre nuovi versi da Camille Du Locle, che vennero subito tradotti in italiano da Zanardini, il quale per l'occasione revisionò a fondo la precedente versione ritmica di de Lauzières, con interventi che divennero definitivi per tutte le successive rappresentazioni. Fu un lavoro che tenne Verdi impegnato er ben nove mesi, concluso non più a Vienna crisi a Milano nel gennaio 1884 quando alla Scala - in traduzione italiana - si ebbe in pratica un secondo battesimo dell'opera: tanto incisive ne erano le modifiche, tutte condotte su nodi drammatici vitali. Come puntualizza la musicologa Ursula Günther, difatti, «con la sua radicale revisione Verdi eliminò più della metà dell'opera precedente, e cioè: l'atto primo; i duetti Carlo-Rodrígo e Filippo-Rodrigo dell'atto secondo; inizio dell'atto terzo col successivo balletto; gran parte della scena Filippo-Elisabetta dell'atto quarto col successivo Quartetto; alcune battute della scena Elisabetta-Eboli; il finale quarto, a partire dalla morte di Rodrigo; la conclusione dell'atto quinto. In sostituzione di tale musica, nella partitura - una copia della stesura francese del 1867 - vennero inseriti sette nuovi brani, per complessive 268 pagine autografe».

Edizione IV

Nel dicembre 1886 infine, a Modena, senza intervento diretto di Verdi ma ovviamente con la sua approvazione, andò in scena un «Don Carlo» che ripristinava il primo atto così come era stato pubblicato da Ricordi - in traduzíone italiana - subito dopo la prima parigina, e seguendo in ogni punto, dal second'atto in poi, le modificazioni apportate per la versione scaligera di due anni prima.
Di tali edizioni, quelle importanti da un punto di vista esecutivo avrebbero dovuto essere tre: la parigina e le versioni italiane in quattro e cinque atti (dopo il rifacimento dell'84, lo spartito 'napoletano' ha interesse esclusivamente storico). Si dice avrebbero dovuto perché, in realtà, l'originale francese ha sempre attratto scarsa per non dir punta attenzione: nel quadro, oltre a tutto, dell'interesse senz'altro assai modesto rivolto all'opera stessa. Alla quale, fin dal apparire fu riservato uno dei tipici successi di stima rivolti ai lavori non capiti di tuttavia molto amati: da qui all'infliggergli insulti editoriali di livello quasi inaudito, il passo è brevissimo.
Tanto per fare un po' di horror-story, nel 1932 Franz Werfel - proprio il terzo marito di Alma Mahler, ovvero colui indicato come uno degli artefici della Verdi-renaissance tedesca - non pago d'aver proposto e spesso ottenuto l'obbrobrio di spostare la Sinfonia della «Forza del destino» prima della scena del convento, sovrintendeva alla pubblicazione (ed è inutile sottolineare l'enorme differenza che intercorre tra un rappresentazione teatrale, sempre contingente, e il punto fermo rappresentato dalla stampa d'una revisione non propriamente critica dello spartito. Che prevedeva all'ínizio dell'opera Carlo addormentato davanti a un arazzo presentante Fontainebleau che, sulla musica del Preludio all'atto terzo - prendeva vita sintetizzando in maniera distorta il senso narrativo e drammatico del prim'atto; poi, definitiva sanzíone di pesanti riarrangiamenti musicali nell'auto-da-fè, nonché di una lunghissima messe di tagli: ripresa del coro dei frati all'atto secondo, l'intera canzone del velo, le riprese della perorazione di Rodrigo e dell'aria di EIisabett al second'atto, un'intera sezione del duetto Carlo-Elisabetta, finale del duetto Filippo-Posa; il tutto, terminava poi con Carlo che si pugnala sulla tomba del nonno, mentre non compare il frate misterioso bensì un esplicito Carlo V che impone di portar via il cadavere, mentre l'Inquisitore se ne esce con un «Nun hati Gott selbst gerichtet», Ora Dio stesso ha giudicato, inventato di sana pianta.
Tagli e riarrangiamenti che hanno condizionato le esecuzioni dell'opera in terra tedesca fin nel cuore degli anni Settanta, se solo si ricorda che Karajan - onde giustificare l'edizione che era solito proporre in teatro, che appunto tali massacri accoglieva in gran parte - ebbe una volta a definirla «tradizione viennese dell'opera»: e perché mai debba considerarsi valido, per il «Don Carlo», una tradizione viennese, resta mistero dei più imperscrutabili.
Quanto all'Inghilterra, ancora nel 1951 non solo si praticavano tagli d'ogni tipo, lunghezza e assurdità, ma si spostava l'aria di Carlo addirittura al terz'atto, prima del suo incontro con Eboli: e si introduceva pure una scena in cui Eboli consegna in gran segreto a Filippo lo scrigno dei gioielli di Elisabetta, su di una disinvolta rielaborazíone della musica che - nella versione parigina - apriva l'atto terzo.
Vennero poi le celebri esecuzioni al Maggio Musicale Fiorentino del '50, dirette da Serafin con le scene di Sironi, la cui larga eco si ripercosse in un risveglio d'interesse per l'opera. Ma ancor più decisivi furono i due spettacoli di New York e di Londra (il primo fu quello inaugurale della gestione-Bing al Metropolitan, e il secondo il celeberrimo allestimento Giulini-Visconti al Covent Garden), entrambi citate di continuo - e non sempre a proposito, come vedremo nella discografia dal momento che di entrambe esiste la registrazione - come modello d'interpretazione verdiana ideale. Le edizioni fiorentine e londínesi, dopo sessant'anni di dominio della versione in quattro atti, riportavano alla luce quella modenese in cinque: che conobbe la sua prima scaligera soltanto nel 1960, diretta da Santini in un allestimento con la regia di Margherita Wallmann. Da quegli anni, indubbiamente la fortuna critica del «Don Carlo» si è sempre più vigorosamente innalzata (molti, e io tra questi, la considerano anzi il capolavoro di Verdi) parallelamente a una maggiore conoscenza - ma certo ancora non popolarità - a livello di pubblico.
A smuovere con forza le acque d'una situazione editoriale che sembrava non nascondere sorprese particolari sono poi giunte le conclusioni d'una brillante ricerca condotta da Andrew Porter (critico musicale dell'inglese Financial Times) e dai musicologi Ursula Günther e David Rosen. I quali hanno scoperto, negli archivi dell'Opéra, otto brani musicali per ben 504 battute complessive, mai eseguite perché Verdi, alla vigilia della prima, fu forzato a espungere dall'opera quasi venti minuti di musica in quanto lo spettacolo non sarebbe altrimenti terminato in tempo per consentire agli spettatori di salire sugli ultimi treni per le periferie.
Questi venti minuti di musica furono uditi la prima volta in un'esecuzione dell'opera in forma di concerto a Boston, nel '72; e nel '73, con la direzione di John Matheson, la BBC fece ascoltare per la prima volta (nonché unica, scandalosamente) il «Don Carlos, quale fu concepito - ma non eseguito, e certo non per volontà di Verdi bensì per contingente necessità - nel 1867: in lingua francese e con gli otto brani che in tale edizione s'inserivano con perfetta logica. In seguito, gli esperimenti di 'montaggio' sono stati diversi, ma tutti caratterizzati da quello che - filologicamente parlando - è un errore di fondo: ognuno di questi otto brani veniva inserito nell'edizione del 1884, che rispetto alla precedente (e precedente di ben diciassette anni della piena maturità d'un artista di questo calibro) ha subito rimaneggiamento tanto sostanziale da configurare in pratica un organismo teatrale differente.
Per completezza di discorso - e per aiutare a orientarsi laddove nella discografia uno o più di questi pezzi compaiono - ecco l'elenco degli otto brani che Verdi espunse (ribadisco non per suo autonomo ripensamento bensì per banali cause di forza maggiore) dal «Don Carlos» nei pochi giorni intercorsi tra la prova generale e la prima.
I. Il primo taglio corrisponde proprio all'inizio dell'opera: la quale non principiava con la fanfara dei cacciatori cui siamo stati adusi, ma con ben 207 battute di coro. Sono i boscaioli che si lamentano d'una guerra tanto lunga da sembrare ormai eterna, e che incontrano Elisabetta: la quale, al racconto della miseria d'una vecchia vedova coi figli al fronte, le dona una catena d'oro e induce tutti a sperare in una pace che ritiene ormai prossima.
II. Il duetto Carlo-Posa dell'atto secondo era strutturato in diversa maniera: e in quel contesto s'inseriscono 35 battute durante le quali Rodrigo racconta diffusamente di come abbia visitato, al seguito dell'armata spagnola, la Fiandra oppressa dal dominio del Duca d'Alba, dove «il sangue cola a fiotti» e si attende proprio dall'Infante la liberazione.
III. Il duetto tra Posa e Filippo è la pagina che forse più d'ogni altra risulta intimamente diversa sotto il profilo musicale e quindi psicologico dei due caratteri posti a confrontarsi. Proprio alla fine di esso, Verdi tagliò 42 battute: ma la fretta fu cattiva consigliera, facendone sortire un pastrocchio dal momento che Filippo annuncia «Il core mio svelarti voglio intero», e poi non svela proprio nulla attaccando subito con Posa l'unisono che dipinge la diversa loro reazione a una rivelazione restata solo nelle pagine espunte. Dopo Parigi, per inciso, il contesto in cui tali battute ritrovate dovrebbero inserirsi è del tutto alterato.
IV. L'inizio del terz'atto metteva in scena i preparativi d'una festa nel corso della quale si svolgeva il balletto «La Peregrina»: un lungo e articolato brano (nell'84 soppresso in toto e sostituito con un Preludio dalle fruscianti, misteriose sonorità) al cui interno Verdi poté agevolmente tagliare 32 battute di coro fuori scena.
V. L'ingresso di Elisabetta nello studio di Filippo che ancora risuona del tremendo suo colloquio con l'Inquisitore, era meno fulmineo e convulso, disteso su otto ampie battute orchestrali anticipanti la melodia «Son nella corte tua crudelmente trattata».
VI. Finito il quartetto, Eboli confessa il furto dello scrigno e rivela il pro per Carlo. A questo punto seguiva un duetto tra le due donne articolato su 93 battute, il cui taglio fu suggerito a Verdi anche dalla necessità di soccorrere un mezzosoprano in larga misura inadeguato (e che in questo brano deve scendere frequentemente e pericolosamente sotto il rigo, laddove il canto di Elisabetta si espande verso l'altoin accordo con la propria invocazione al cielo di perdonare gli «amères regrets» di Eboli): alla prima confessione faceva quindi subito seguito la seconda - quella d'essere l'amante del Re - che diversamente da come sarà nella revisione è tutta tenuta sotto voce e in zona grave, gli smozzicati sospiri di Eboli troncati da un «Orrore!» di Elisabetta, che se ne va per far posto al Conte di Lerma - a vero dire entrato non si sa bene da dove, a meno che non origliasse dietro la porta - il quale spedisce Eboli in convento.
VII. - VIII. Quanto segue alla morte di Posa è assai diverso nelle edizioni del '67 e dell'84. Nella prima, difatti, Carlo si rivolge a Filippo con maggiore ampiezza di concetti e di insulti; poi, al suonare della campana a martello annunciante la rivolta, mentre Carlo segue il cadavere di Rodrigo portato via giunge Elisabetta per incitare alla fuga Filippo, che invece fronteggia la folla incitandola a «sgozzare un vecchio Re e rendere omaggio calpestando il suo corpo sanguinante, al figlio rivestito del mantello regale»: arrivo dell'Inquisitore, ed evaporazione dei bollenti spiriti popolari. In questa scena Verdi praticò - e, mi piace crederlo, con particolare rincrescimento - i due ultimi tagli.

Il primo s'innesta dopo le invettive di Carlo contro il padre, ed elimina così una maestosa trenodia che, avviata da Filippo e ampliata col concorso di tenore e coro, sviluppa una sorta di grandioso epicedio funebre per Posa: brano tra i più impressionanti di tutto Verdi il quale, non certo a caso, volle in seguito rifonderlo nel «Lacrymosa» del Requiem. E siccome la rielaborazione dell'84 seguiva a tamburo battente la prima esecuzione del «Requiem», il reinserimento di tale sublime episodio nel tessuto donde era nato prestava il fianco a troppi problemi d'opportunità pratica: problemi viceversa ininfluenti al giorno d'oggi.

Il secondo brano si colloca subito dopo che Filippo ha apostrofato la folla con tutto il suo regale sarcasmo. In esso compare Eboli travestita da paggio, che si avvicina a Elisabetta confidandole di essere stata lei l'artefice della rivolta: è riuscita a salvare Carlo, e ora il chiudersi in convento le sarà più beve. Il tutto, mentre la folla si calma sotto gli occhi di Filippo: si potrebbe quindi fare benissimo a meno d'un Inquisitore che giunge a giochi quasi fatti, assumendo così rilievo assai minore rispetto al suo piombare in scena - nella versione dell'84 - al culmine della rivolta col tonante «Sacrilegio infame».

Da questi ritrovamenti, di cui si rendeva urgente la pubblicazione, prese le mosse la decisione di riorganizzare tutto il materiale esistente dell'opera: un poderoso ed esemplare lavoro portato a termine - nella sua veste per canto e piano - da Ursula Günther e Luciano Pettazzoni, edito dalla Ricordi in due volumi. È dunque disponibile a tutti l'intero materiale musicale esistente del «Don Carlos» e del «Don Carlo», con ogni loro brano - ciascuno completo di eventuali varianti - inserito nella posizione che aveva in origine, il tutto con testo francese e italiano (Piero Faggioni ha curato la traduzione ritmica di otto brani ritrovati a Parigi): tale pubblicazione capitale per ogni appassionato, permette quindi ogni sorta di reinserimento o passaggio dall'una all'altra delle quattro successive tappe compositive (è dífatti compresa anche quella napoletana). Ma circa la versione da seguire, integralmente oppure con commistioni, i pareri sono stati e tuttora sono assai controversi.
Prima di tutto, la versione parigina. In essa non credo possa esserci ombra di dubbio che dovrebbero venir reinseriti i venti minuti di musica distribuiti negli otto brani espuntí, e che appartengono de jure a questa versione: solo a questa, aggiungerei, giacché mi pare avesse perfettamente ragione Fedele D'Amico quando, criticando l'inserimento di alcuni di essi nel corpo della versione dell'84 (un corpo dalle forme troppo mutate rispetto a quelle del '67), defini il risultato finale «un deplorevole ircocervo».
È stato sostenuto che nel francese «Don Carlos» Verdi pagasse un pesante tributo alle convenzioni e costrizioni dell'ambiente musicale parigino, montando di malavoglia un grand opéra la cui struttura gli sarebbe stata estranea, appunto smantellandola nell'italiano «Don Carlo» diciassette anni dopo. La musicologia recente ha fatto giustizia di tante approssimazioni e inesattezze, tra l'altro evidenzíando come tutto quanto di 'parigino' ci fosse nel Don Carlos (autoda-fè, sommossa, esotismo della Canzone del velo, eccetera) sia restato sostanzialmente intatto, accanto ai pilastri centrali della struttura musicale e drammatica dell'opera, già perfettamente a fuoco nella prima versione. Ma innumerevoli sono i miglioramenti musicali, tutti tesi a far sì che la maestosa cornice storica s'organizzi come cassa di risonanza per conflitti psicologici che nonostante la loro complessità e sottigliezza attingono a vertici d'immediatezza espressiva quali ben di rado il teatro lirico ha saputo raggiungere: l'unico prezzo da pagare è, qua e là, il sacrificio di qualche particolare di chiarezza e logica nello sviluppo d'una vicenda che solo nella versione originaria esplica logica narrativa perfetta in ogni suo risvolto.
La revisione dell'84, insomma, è di tale portata da rendere assolutamente impraticabile la proposta - che ogni tanto rigalleggia tra gli studi critici verdiani - d'un ripristino della versione parigina, al di là dell'utilissima indagine musicologica derivantene: da demandare magari a esecuzioni in forma di concerto, se solo si trovino cantanti disposti a studiare parti così complesse con in vista soltanto un pugno di serate. Più proponibile è invece - a patto, anche qui, di trovare cantanti disposti a ristudiare la parte - l'esecuzione in francese, visto che Verdi ha condotto il proprio lavoro di revisione non sul testo italiano ma su quello originario.
Due parole, quindi, sulla questione della lingua. In tutte le traduzioni, i versi originali sono in genere assai più belli; oppure scolpiscono molto meglio un aspetto. del personaggio; oppure si adattano con maggiore naturalezza alla frase musicale che, su di essi essendo stata concepita, consente all'interprete molta maggior logica ed efficacia d'accentazione. Un «Fontainebleau! Vér voi schiude il rensiero i vanni», ad esempio, è ben arzigogolato e goffo, limitando quindi parecchio le possibilità espressive del soprano, a fronte di «Fontainebleau! Mon coeur est plein de votre image». Oppure i versi «Ed ora si sospetta / l'onor d'Elisabettal / Si dubita di me / e chi m'oltraggía è il Re!» scolpiscono assai meno il carattere di Elisabetta (che la partitura vuole 'très fière') di quanto non faccia la sottile progressione, da alta oratoria, «Vous osez, frappé de démence / douter d'une fille de Roi / douter d'une fille de France... / Reine des Espagnes... de moi». Ancora, nell'aria di Eboli che in italiano suona «O don fatale, o don crudele / che in suo furore mi fece il ciel» e in francese «O don fatal et détesté / resent du ciel en sa colère», è assai più logico che la linea vocale s'ínarchi all'acuto su «colère» anziché su «ciel». E gli esempi potrebbero continuare, giacché non solo molte atmosfere ricevono dalla lingua francese accento più consono alla musica (chiostro di San Giusto, autoda-fè), ma quasi sempre i personaggi risultano più rifiniti quando non addirittura psicologicamente diversi, come nel caso di Eboli.
Poi c'è la vexata quaestio del primo atto: ovvero se vada seguita oppure no la versione modenese. Militano in favore di essa ragioni di logica drammaturgica non meno che di sostanza e di struttura musicale: la grande aria di Elisabetta «Tu che le vanità», punto d'arrivo dell'immenso arco teso dalla temperie espressiva dell'opera, funge da segreto relíquiario dell'anima, scoprendone i più riposti temps perdus. Ma essi non sono più tali ove non siano immediatamente riconoscibili. E dobbiamo per forza aver assistito alla scena invernale di Fontainebleau per seguire le memorie di Elisabetta cui il magico nome «Francia» riporta, sussurrato da flauti e clarinetto, la sua illusione amorosa («Di quale amor») che ha vissuto al prim'atto accanto a un fuoco improvvisato sulla neve; esattamente come subito dopo, sul tremolare degli archi a «Tra voi vaghi giardin», flauto clarinetto e oboe le riportano l'angoscia delirante di Carlo svenuto «Qual voce a me dal cielo») durante il loro secondo e ben diverso incontro nei giardini claustrali di San Giusto. Senza contare quanto minore sia l'efficacia drammatica, nella scena tra Filippo ed Elisabetta, della grande frase «Il ritratto di Carlo! ... tra i vostri gioiel» (altra traduzione ben goffa, a fronte d'un francese capace di tutt'altra incisività) se non abbiamo assistito al dono che Carlo fa all'amata della propria immagine.
Di contro, si sostiene che Verdi semplicemente «tollerò» il ripristino del prim'atto, sempre citando il famoso «più concisione e più nerbo» col quale egli ebbe a definire il lavoro che stava completando a Vienna: ma facendo anche finta di dimenticarsi quanto fosse ben poco rispondente al temperamento di Verdi (e del Verdi di quegli anni, poi!) un supino «tollerare» qualcosa che, ove non gradito, gli avrebbe semmai suggerito fuoco e fiamme di riprovazione.
E lasciamo pur da parte le questioni d'una presunta eccessiva lunghezza dell'opera in cinque atti: null'altro che pretestuoso problema, laddove a mio parere quel che a riguardo riveste ruolo determinante è l'aspetto economico. Una costante degli allestimenti moderni, difatti, è l'impiego della scena fissa: che consente notevole risparmio, semplifica le operazioni di palcoscenico, annulla i tempi morti e permette di ridurre a piacere gli intervalli. Ma, nel caso di quest'opera, la scena fissa sarà sempre pensata in funzione degli atti «spagnoli», la cui atmosfera mal si concilia con quella di Fontainebleau, che anzi dovrebbe caratterizzarsi proprio per una sua sostanziale diversità.
Ma c'è di più. Quando nell'86 Verdi autorizzò il ripristino del prim'atto, negli spartiti a stampa esso logicamente si presentava - l'autore non avendovi più posto mano - nella forma con cui era andato in scena alla prima parigina. Oggi però, dopo i ritrovamenti del gruppo Porter-Günther, mi sembra senz'altro inconcepibile che il lungo coro dei boscaioli e successivo loro incontro con la giovane Elisabetta non debbano riprendere il loro posto ad apertura di sipario. Perché si tratta di brani che non solo sono splendidi di per sé, ma d'importanza assai rilevante nella struttura musicale complessiva. Col primo di essi, difattí, le due note con cui principia l'opera diventano la trafiggente acciaccatura che serpeggerà lungo l'intero suo arco: ricomparendo nel duetto Filippo-Posa; nel coro dei deputati fiamminghi; nell'episodio in cui Posa disarma Carlo (una stupenda 'sospensione' narrativa, questa, ottenuta appunto dall'intreccio di due ritorni musicali, il tema dell'amicizia di Carlo e Rodrigo affidato ai clarinetti, e il vitreo trasalimento della funebre acciaccatura introdotta da flauto e fagotto); per giganteggiare finalmente nel monologo di Filippo, sorta di trapano sonoro la cui acuta sofferenza s'avvita nel profondo d'un'amara solitudine. Nelle prime quindici battute di questa Introduzione ritrovata, gli archi incidono per ben trenta volte tale micro-motivo, imprimendone così nella memoria l'inquieto trasalire: questo, mentre i pesanti accordi che ne separano le apparizioni gia annunziano la funerea maestosítà del convento di San Giusto. Ecco quindi delineata, immediatamente e con somma efficacia, quella «tinta musicale» - definizione che Verdi molto amava perché moltissimo perseguiva - così peculiare dell'opera: ed ecco anche un altro e altrettanto importante legame dialettico tra atto francese e atti spagnoli.
Non solo quindi il non eseguire il prim'atto è operazione culturale di retroguardia: lo è anche l'eseguirlo privo della stupenda Introduzione con la quale era stato originariamente concepito.
Se la storia teatrale del «Don Carlo» è alquanto striminzita, come si evince scorrendo le locandine teatrali dalla fine dell'Ottocento alla pritria metà del Novecento, non stupisce che ridottissimo ne sia il parallelo discografico, dovendosi attendere addirittura il 1951 perché compaia la prima incisione semicompleta Cetra (i tagli sono tremendi). Se si pensa che la prima incisione completa di «Cavalleria» è del 1916; quella di «Bohème» del 1918; quella di «Carmen» addirittura del 1908, è ovvia la conclusione che il «Don Carlo» sia stato - ma ancora lo è - opera poco amata e pochissimo compresa.
La sensazione di imbarazzo che interpreti e pubblico hanno per così lungo tempo provato nei confronti di quest'opera (che pure sta al centro dell'universo compositivo verdiano e che quindi ben incongruamente ha a lungo sopportato - al pari dell'altra «grande incompresa» che è il «Simon Boccanegra» - la qualifica di opera non riuscita), ha determinato la mancanza d'una tradizione esecutiva: una sorta di estraneítà che ha investito soprattutto i personaggi di Elisabetta e Carlo. I cui interpreti, salvo pochissime eccezioni, hanno sempre esibito, fin proprio ai nostri giorni, notevole impaccio di fronte a quell'irrequietezza ritmica così esasperata e quasi nevrotica, a quelle melodie frenate che si ínarcano per poche note e subito ingrigiscono in intere battute di canto monofonico. Tutti mezzi che Verdi impiega - e con somma efficacia - per rendere il particolarissimo universo espressivo di quest'opera: ma richiedendo in tal modo a chi lo interpreta una sensibilita quasi agli antipodi di quella instauratasi nel repertorio lirico italiano. Sensibilità che è stata conquista tra le più difficili, ma che per contro ha prodotto utilissime 'ricadute' sull'intero repertorio verdiano.