Massimo Mila

Il monologo di Filippo

Piú libero ancora il trascorrere dei sentimenti nel monologo di Filippo, che non è ormai piú un'aria («scena» è designato nello spartito), poiché le idee melodiche vi si assottigliano oscillando tra la declamazione e il canto e lasciano all'orchestra il maggior compito dell'evocazione psicologica. Essa se ne disimpegna con mezzi tanto piú efficaci quanto piú ridotti: per esempio quell'acciaccatura insistente, ora degli oboi ora dei corni, due note che fanno un solo suono, e che pure lungo l'opera riescono ad avere funzione ed importanza di tema ricorrente. Erano risuonate nella scena precedente, il gran finale del terzo atto, sotto l'implorazione dei deputati fiamminghi, appena percepibili in seno a quell'immensa costruzione scenica e musicale. Ora risorgono nella memoria del tiranno solitario, quasi fossero rimaste agganciate nell'inconscio, dopo una notte d'insonni meditazioni. Sono un segno di lutto, risuoneranno ancora sotto le ultime raccomandazioni di Rodrigo morente, dopo che l'archibugiata del Santo Uffizio l'avrà fatto stramazzare nella prigione di Don Carlo: il tema piú conciso e piú pregnante che fantasia di compositore abbia mai inventato.
In questo monologo di Filippo II giunge a perfezione definitiva uno dei soggetti verdiani tipici, quello che potremmo chiamare la solitudine dei potenti. Filippo II è il più grande d'un lungo lignaggio di bassi verdiani, che ha per capostipite il vecchio Foscari, se non lo stesso Nabucco, e l'altro maggiore esemplare in Simon Boccanegra e nel Fiesco: tristi e solenni veglíardi cui il potere ha inaridito le sorgenti dell'umanità.
Come il «Saul» di Alfieri, quel Saul che al poeta era il «personaggio piú caro, perché in esso vi è di tutto, di tutto assolutamente», anche Filippo II esce irresistibilmente dall'unilateralità manichea del teatro dei burattini, dalla meccanica rettilinea del melodramma convenzionale. In lui c'è di tutto, assolutamente di tutto.