Eugenio Montale

Recensione di «Così fan tutte»

«Così fan tutte», data ieri alla Piccola Scala in un giorno che segna il bicentenario della nascita di Mozart - e data in serata di gala, in un'accuratissima esecuzione, come conveniva - è cronologicamente l'ultima opera buffa di Mozart ed anche la più discussa delle sue partiture teatrali rimaste in repertorio. Il libretto del Da Ponte si presenta - a differenza di «Figaro» e del «Don Giovanni» - sprovvisto di un illustre pédigrée; e l'argomento, cinico o se si vuole libertino anche in senso filosofico, era tale da destare preoccupazioni.
Insigni musicisti, fra i quali Wagner, non nascosero il loro disappunto sull'opera, che in realtà poteva sembrare una distrazione e una deviazione, un ultimo omaggio a certo vieto italianismo musicale, da parte di un artista che un anno dopo avrebbe dato alla Germania la sua prima opera nazionale: «Il flauto magico». Oggi i giudizi si son quasi rovesciati, e molti vedono nella secchezza, nella "gratuità" di «Così fan tutte» il segno di un razionalismo tipicamente settecentesco che farebbe la modernità dell'opera. Di italianismo non si parla quasi più, e in realtà non sembrano possibili veri accostamenti fra quest'opera e i nostri melodrammi giocosi di scuola o discendenza napoletana.
«Così fan tutte» è giudicata da alcuni l'opera mozartiana in cui domina la Ragione; qui sarebbe nascosto il segreto dell'incorruttibile giovinezza di questo spartito, al quale dovrebbero andare, e andranno probabilmente in avvenire, le preferenze di tutti gli spiriti liberi, quelli che vedono nella musica - come vedeva il Nietzsche - un'arte di catarsi capace di giocare con le forze del Cosmo. L'ultima opera buffa mozartiana potrebbe dunque essere, in questo senso, il primo e più perfetto modello di altre moderne opere "gratuite" che ci sarebbe difficile elencare. Restano in disparte, naturalmente, coloro che considerano l'ultima opera nata dall'incontro Mozart-Da Ponte il frutto secondario, laterale di un genio che ha dato altrove il meglio di sé.
Chi ha sentito a breve distanza tanto «Il flauto magico» che «Così fan tutte» (e il pubblico della Scala si trova in queste condizioni) non ha bisogno di possedere un intuito rabdomantico per constatare che le due opere, cosi diverse, appartengono al medesimo movimento pendolare. Se v'è illuminismo e razionalismo settecentesco in «Così fan tutte», non si vede perché di lumi e di ragione manchi la storia dell'iniziazione massonica del giovane Tamino. Si dirà che nel «Flauto» il libretto è oscuro, ma quello di «Così fan tutte» è altrettanto inverosimile, e il conto torna perfettamente. Due diversi libretti, due pretesti diversi. Due musiche che si possono definire, se proprio si vuol farlo, un giuoco, ma tali da potersi considerare come le due facce della stessa medaglia. Ironia, scetticismo e fede umanitaria, progressismo illuminato si dettero probabilmente la mano nell'ultimo Mozart.
Tuttavia resterà sempre vano il tentativo di estrarre dalla musica mozartiana qualcosa come una Weltanschauung esplicita. «Il n'était que musicien», ha scritto di Mozart Romain Rolland, rammaricandosi che il musicista non fosse anche un filosofo come Beethoven. È una frase piena di equivoci e non è neppure giusta nel fondo. Non è mai esistito un grande artista che si sia trincerato nella specialità della sua arte. Men che mai fu tale Mozart. Il fatto è che i preromantici (ed anche alcuni moderni) non sentirono mai il bisogno di attaccare alle loro opere il cartellino segnaletico delle loro intenzioni. Beethoven e Wagner si autocommentano continuamente, non fanno che ripeterci: «Avete capito? Ci siamo espressi a sufficienza?».
Mozart non era affatto un «pur musicien», il suo cervello era completo, ma egli non supponeva ancora che l'artista dovesse predicare. È curioso di notare che l'età dei lumi producesse un'arte in cui la ragione non sconfinava mai. Fu l'età successiva quella che condannava l'intellettualismo - a introdurre il discorso razionale nelle arti. Perciò Mozart potrà sempre apparire, se non oscuro, enigmatico, bifronte. Da troppo tempo crediamo che il pettegolezzo sia la lirica, l'eccitazione nervosa il divertimento superiore dell'arte.
La musica di «Così fan tutte» è una musica secca, brillante, che trionfa negli ensembles; non vi si avverte l'incipiente cromatismo di altre partiture mozartiane. Si è parlato di ironia, di sogghigno, di spregiudicatezza e non v'è dubbio che anche qualche grande aria patetica («Come scoglio») abbia precisi intenti di parodia; d'altra parte minima è la caratterizzazione dei personaggi. Più civetta appare Dorabella, più "stiff" Fiordiligi e il leporellismo di Don Alfonso ha qualcosa di distillato, un enunciato più magro che lo distingue dal suo predecessore. È giusto dire (come ha detto il Mila) che Don Alfonso non poteva, qui, avere un'aria, e infatti non l'ha avuta. È curioso invece che la servetta Despina nelle sue reincarnazioni introduca un elemento fiabesco, da «Flauto magico», nella trama. Questa, del personaggio polivalente, era una convenzione del tempo; ma come appare nuova in «Così fan tutte»! In genere appare nuovo in quest'opera che potrebbe sembrare la consapevole liquidazione dell'opera buffa napoletana (a Napoli si svolge anche l'azione) un senso aguzzo della diatonia tradizionale: l'impressione ultima è di un perfetto movimento di orologeria musicale, di un ingranaggio, di una lubrificazione che mai opera composta in forme chiuse ha raggiunto.
Ascoltando «Così fan tutte» si teme che i molti discorsi che si sono fatti sull'unità del poema musicale, e i ripiegamenti sull'opera-sinfonia o sull'opera-melologo di tipo pseudo-monteverdiano siano stati inutili perdite di tempo. Esisterà sempre un'opera che ricalca un libretto umano, per aggiungervi umanità; e continuerà ad esistere l'opera come «Così fan tutte», che, sostenuta dal genio, porta all'assurdo e fa trionfare tutto il nonsense dell'opera puramente inventata, astratta. Altra lezione non sapremmo trarre da questa partitura.
L'esecuzione che ieri ci ha offerto la Piccola Scala dell'inconsueta opera mozartiana è veramente di prim'ordine. A qualcuno è sembrata troppo concertistica ma è molto dubbio che in una sala di quelle proporzioni si potesse tendere ad altra meta. Guido Cantelli, felicemente distolto dalle sue fatiche di direttore di concerti sinfonici (comincia forse ad annoiarcisi?), ha guidato a meraviglia la sua ridottissima orchestra. Come regista, poi, nulla ha lasciato a desiderare; non c'erano del resto grandi problemi da risolvere. Tutti a posto gli interpreti vocali. La Schwarzkopf è ineguagliabile in queste parti di tradita e offesa giovane matrona mozartiana, e come Fiordiligi ha eclissato la sua recente interpretazione del «Flauto magico». Altrettanto brava, ottima vocalizzatrice, un po' oscura nella dizione, la Dorabella di Nan Merriman. La Sciutti continua, in queste parti di soubrette, a essere miracolosa, e i suoi arpeggiati sono un prodigio di intonazione. Il basso Calabrese è un Don Alfonso esemplare e molto lodevole è il duo Alva-Panerai. Diretto da Nicola Benois l'allestimento scenico ha trovato nei bozzetti e nei figurini di Eugène Berman una realizzazione di gusto squisito, ch'è tutta un omaggio alla pittura napoletana sorta dopo il Pitloo. Il coro, che ha una parte minima, è stato diretto dall'espertissimo Norberto Mola. Unico motivo di stanchezza: gli intervalli fra scena e scena, benché ridotti talvolta a meno di un minuto.
Il successo è stato entusiastico e gli applausi frequenti anche a scena aperta. Uno spettacolo autentico e una festa d'arte, non una cerimonia commemorativa. Se non si è riso molto è perché Mozart, come i comici ambulanti dell'Amleto, ride da un occhio solo.
Eugenio Montale, «Prime alla Scala», Milano, Mondadori, 1981, pp. 179-183.