Francesco Degrada

Splendore e miseria della ragione:
a proposito di «Così fan tutte»

Saggio tratto da F. Degrada, «Il palazzo incantato. Studi sulla tradizione del melodramma dal Barocco al Romanticismo», Discanto Edizioni, Fiesole, 1979, vol. II, pp. 3-17.
Di «Così fan tutte» la critica ha volentieri sottolineato la componente lucidamente razionale dell'impostazione librettistica e dello svolgimento musicale e teatrale: costretti l'una e gli altri nel gioco schematico e persino arido della vicenda, condotta attraverso simmetrie compiaciute, divertiti parallelismi, maliziosi rimandi di specchi, nel terso movimento di danza che scompone e ricompone la doppia coppia di innamorati, secondo il ritmo condiscendente e un poco annoiato scandito da quella sorta di impassibile «maître de ballet» che è nell'opera Don Alfonso, e dal suo disponibile secondo, la scatenata servetta Despina.
In una cornice scenica ignara delle tenebrose oscurità metafisiche di «Don Giovanni» o delle morbide inquietudini notturne delle «Nozze di Figaro», «Così fan tutte» sembra dunque celebrare, nel fulgore di una luce solare netta e assoluta, il trionfo della ragione. Certo, della «raison» settecentesca, l'ultima opera buffa di Mozart rispecchia, senza negarne la civilissima patina di decoro letterario e i cordiali risvolti sociali e mondani, l'«allure» schiva e impietosa, la tonalità secca e un poco agra. Anzi, a ben osservare, lo stesso sviluppo drammatico si pone in qualche modo sotto il tono burlevole e maliziosamente galante, come una metufora del processo conoscitivo o anche, più in generale, della fondamentale disposizione illuministica verso la realtà.
Due entusiasti giovinotti dal sangue caldo, già pronti a scommettere sulla fedeltà delle loro belle, sono condotti a toccare con mano, attraverso una giudiziosa esperienza, che la verità è ben diversa, che il cuore femminile è fragile, che l'amore è labile scherzo dell'istinto e del capriccio, che, insomma, non c'è scampo, «così fan tutte» le belle».
Ancora una volta si tratta, nella migliore tradizione del secolo dei lumi e secondo l'ammonimento del Figaro delle «Nozze», di «ingannati sensi» e di «debole ragion» da ricondurre alla chiarezza della verità.

Aprite un po' quegli occhi
Uomini incauti e sciocchi,
Guardate queste femmine,
Guardate cosa son.

Queste chiamate Dee
Dagli ingannati sensi,
A cui tributa incensi
La debole ragion,
Son streghe che incantano
Per farci penar,
Sirene che cantano
Per farci affogar,

Civette che allettano Per trarci le piume, Comete che brillano Per toglierci il lume;

Son rose spinose,
Son volpi vezzose,
Son orse benigne,
Colombe maligne,

Maestre d'inganni,
Amiche d'affanni
Che fingono, mentono,
Amore non sentono,
Non senton pietà.

Il resto non dico,
Già ognuno lo sa.
Che il caso pruriginoso sul quale ruota la vicenda fosse, a quanto nare, realmente accaduto a Trieste e fosse stato suggerito dall'Imperatore in persona al librettista perché servisse da lepido ammonimento agli innamorati da «scuola degli amanti», secondo suona il sottotitolo dell'opera, sembra situare paradossalmente il lavoro nella prospettiva di una pièce illuministica, didascalica e moraleggiante; con l'ovvia avvertenza, tuttavia, che la tenuità dei contenuti e la divertita tendenziosità della tesi, esplicitamente offerta dal libertino Da Ponte con maliziosi ammiccamenti alle Dame e ai Cavalieri della corte viennese, ne ribalta il significato, trasformando il rigore della dimostrazione razionale in «bon mot», l'esemplarità della vicenda in gioco la diderotiana funzione sociale del teatro in divertimento di società.
Bisognerà chiedersi allora qual è il senso del razionalismo di «Così fan tutte», quali le modalità concrete della sua applicazione al livello della struttura stilistica, quale il significato generale cui mira all'interno dell'esperienza estetica di Mozart. In genere gli studiosi mozartiani tendono ad isolare «Così fan tutte» dalle due opere sorelle dovute alla penna del Da Ponte, per rilegarla piuttosto alle esperienze estreme della «Zauberflöte» e della «Clemenza di Tito»; e non è detto che questo non sia corretto, ove si prenda come punto di riferimento solo il segno musicale astrattamente considerato. Ma a ben vedere, tralasciando «Don Giovanni», dramma, sia pure giocoso, e restringendoci alle due "opere buffe" propriamente dette, perché non leggere «Così fan tutte» come un malizioso capovolgimento delle «Nozze di Figaro», come un'elegante rivincita dell'orgoglio o della sicumera (non si dice naturalmente della morale) maschile, condotta sul filo di un sofisma? Non più l'accorato e imbarazzato «Contessa, perdono!» del Conte gonnelliere, ma il contrito atto di dolore e di sottomissione di Dorabella e Fiordiligi colte clamorosamente in fallo dai fidanzati:

Ah signor, son rea di morte
E la morte io sol vi chiedo.
Il mio fallo tardi vedo:
Con quel ferro un sen ferite
Che non merita pietà. [II, I8]
Non più l'elegia dolente della Contessa sulla crudele indifferenza del Conte:

Dove sono i bei momenti
Di dolcezza e di piacer
Dove andaro i giuramenti
Di quel labbro mezogner? [III, 8]

Al suo posto, la sentenziosità amabile (e sfrontata) del filosofo Don Alfonso sull'ineluttabile infedeltà femminile:

Tutti accusan le donne ed io le scuso
Se mille volte al dí cangiano amore
Altri un vizio lo chiama ed altri un uso:
Ed a me par necessità del core.
L'amante che si trova alfin deluso
Non condanni l'altrui, ma il proprio errore;
Giacché giovani, vecchie, belle e brutte,
Ripete con me: «Così fan tutte». [III, 13]
C'è comunque tra i due lavori una sostanziale differenza di tono: le «Nozze Figaro» sono una grande commedia in musica nella quale l'originale del Beaumarchais - pur semplificato e depurato ad uso della corte absburgica - mantiene, nel dipanarsi turbinoso degli avvenimenti, un principio di adeguazione "realistica" tra palcoscenico e platea. Anche nella trasposizione musicale la «folle journée» continua a venir rivissuta, oltreché contemplata, nella cordiale, immediata identificazione simpatetica con la vicenda, oltretutto così ricca di attualissimi spunti di critica sociale e politica. «Così fan tutte» rivela immediatamente, al contrario, la sua indipendenza da matrici letterarie, illustri o meno; nasce sin dall'origine come opera in musica, costruita - intorno al pretesto lieve della vicenda quanto mai improbabile ad onta delle sue pretese ascendenze dalla cronaca col suo susseguirsi di casi enormi e inverosimili - nel rispetto sistematico di tutte quante le convenienze di palcoscenico. Se le «Nozze di Figaro» miravano a costruire attraverso il teatro una storia emblematica (pur nei morbidi compiacimenti sensuali tutt'altro che mediati) del declinante assetto sociale tardo settecentesco e della crisi dei suoi valori, «Così fan tutte» propone un divertimento teatrale, imperniato sulla declinazione giocosa, "in negativo", di una tesi delle «Nozze»: usando beninteso quest'opera in una tonalità depotenziata di tutta la sua carica protestataria e corrosiva, riducendola al gioco inoffensivo delle schermaglie galanti. Si perviene, in tal modo, a una sottile tenuità, a una leggerezza trasparente di contenuti. L'impegno stilistico, mantenuto costantemente su un registro teso e altissimo, senza negarli, certo costringe nello sfondo personaggi e vicende della favola, sino a ridurli - al limite - a un puro e semplice pretesto. Soggetto e oggetto di «Così fan tutte» potrà essere in tal modo, alla fine, anche il teatro in musica, colto con lucida autocoscienza, nel suo farsi, nel gioco scoperto e perfetto degli incastri, nella banalità corriva e divertita delle convenzioni, nella straniata oggettività della recitazione, nello sfoggio splendente e autorevole del virtuosismo nell'ammicco al pubblico, nell'incanto della finzione e nella consapevolezza della menzogna.
Componente tipica, anche se non esclusiva di «Così fan tutte», secondo l'intuizione di Hoffmann, è il rapporto ironico che Mozart instaura con i propri personaggi, con il proprio teatro, con il proprio pubblico: con se stesso, infine.
Uno studioso mozartiano, Henry Ghéon, ha definito «Così fan tutte» «l'opéra-buffa type, à l'état pur, à l'état agressif». In realtà il lavoro si inquadra perfettamente in quella zona estrema dello sviluppo del teatro musicale settecentesco nella quale l'aspetto convenzionale e astratto della struttura musicale tende a imporsi e a prevalere sui contenuti del libretto facendo di quest'ultimo lo schema, il diagramma, appunto, di una musica possibile. Linea di tendenza, questa, che è emblematicamente rispecchiata, all'interno della gloriosa tradizione napoletana, nell'opera di Giambattista Lorenzi, ormai così lontana, nella nitida eleganza del dettato e nella purgata neutralità delle situazioni, dall'acre sapore dialettale, dalla graffiante immediatezza, dalla spessa e anche greve patina farsesca propria degli esempi partenopei di primo e medio Settecento: tendenza parimenti riflessa, a livello panitaliano ed europeo, nel segno sempre più leggero di librettisti quali il Bertati, il Petrosellini e gli stessi Casti e Da Ponte: i quali spianarono progressivamente e inconsapevolmente la via alla concezione rossiniana del teatro comico come sistematica modulazione ironica e paradossale delle convenzioni teatrali, che preludeva alla sua irridente liquidazione, alla sua sostanziale messa fuori gioco.
Con «Così fan tutte» siamo ben lontani - non occorre sottolinearlo - da questi esiti estremi, spinti alle soglie crudeli e invalicabili dello scetticismo e del cinismo; la dialettica di incanto e disincanto, di illusione e disinganno, di logica e di sogno - come dire, l'anima del teatro e dell'arte settecenteschi - ne è ancora l'intimo motore, la molla segreta.

La consapevolezza del gioco è tuttavia, in Da Ponte e in Mozart, lucidissima.
Già nel libretto, per esempio, la cerimonia del finto corteggiamento da parte di Ferrando e di Guglielmo segue schemi lessicali nei quali è agevole riconoscere burlevoli echi della polemica antibarocca (e antimelodrammatica) già propria di certa Arcadia di primo Settecento (I, II):

FERRANDO
Amor, il Nume
Sí possente, per voi qui ci conduce.

GUGLIELMO
... Vista appena la luce
Di vostre fulgidissime pupille...

FERRANDO
... Che alle vive faville...

GUGLIELMO
... Farfallette amorose e agonizzanti...

FERRANDO
... Vi voliamo davanti...

GUGLIELMO
Ed ai lati, ed a retro...

FERRANDO e GUGLIELMO
... Per implorar pietade in flebil metro!

Tali «smorfie del secolo passato», come le definirà significativamente Don Alfonso (II, 4), costituiscono uno dei momenti della parodia stilistica che caratterizza la lunga commedia della finzione amorosa. Come avviene, clamorosamente, nell'Atto II, all'attacco della Scena 6:

FERRANDO
Barbara, perché fuggi?

FIORDILIGI
Ho visto un'aspide,
Un'idra, un basilisco!

FERRANDO
Ah, crudel, ti capisco!
L'aspide, l'idra, il basilisco, e quanto
I libici deserti han di più fiero
In me solo tu vedi.

FIORDILIGI
È vero, è vero.
Altrove (I, 8) sarà l'innesto di modi del dramma serio sul canovaccio giocoso della commedia a far scattare il meccanismo del riso:

DORABELLA [a Despina!]
Ah, scòstati! Paventa il triste efletto
D'un disperato affetto!
Chiudi quelle finestre! Odio la luce
Odio l'aria che spira, odio me stessa,
Chi schernisce il mio duol, chi mi consola...
Deh, fuggi, per pietà: lasciami sola!
Smanie implacabili
Che m'agitate,
Entro quest'anima
Piú non cessate
Finché l'angoscia
Mi fa morir! Esempio misero
D'amor funesto
Darò all'Eumenidi,
Se viva resto,
Col suono orribile
De' miei sospir!
Ovvero, il gioco sarà, ancora, condotto mediante l'esibizione divertita come nel personaggio di Despina - del bagaglio più ovvio e scontato di tutte le risorse «di baule» (come usava dire), del ruolo di una «prima buffa caricata»; infatti, secondo testimoniano i «Mémoires» di Goldoni (I, 43) «c'étoit un usage invétéré parmi les Comédiens italiens, que les soubrettes donnassent tous les ans, et à plusieurs reprises, des pièces qu'on appelloit de trasformations, come l'Esprit follet, La Suivante magicienne, et d'autres du meme genre, dans lesquelles l'actrice paroissant sous différentes formes, elle changeoit plusieurs fois de costume, jonoit plusieurs personnages, et parloit différents langages ».
Il personaggio di Despina induce a considerare il peso e la funzione che in «Così fan tutte» hanno il travestimento e la maschera: l'uso di questa risorsa che il veneto Da Ponte medíava più da una specifica tradizione barocca veneziana che da scontati moduli della commedia classica e classicista, conferma e approfondisce il carattere di oggettivo divertimento stilistico dell'opera. Il suo significato è affatto diverso rispetto agli esempi esibiti dallo stesso Da Ponte, con un'insistenza che fa meditare, nelle «Nozze di Figaro» e in «Don Giovanni». Nelle «Nozze» lo scambio di ruoli tra la Contessa e Susanna suggeriva morbidamente la fungibilità del rapporto amoroso, l'indiderenza del principio individuale nel gioco delle coppie; i travestimenti femminili di Cherubino, sia pure sotto il segno tutto mozartiano dell'innocenza del peccato, sollecitavano inoltre, in questo contesto, maliziosi e un po' perversi sviluppi erotici. In «Don Giovanni» il doppio travestimento del protagonista come Don Ottavio e come Leporello è fantasioso espediente atto a secondare la sua smisurata volontà di possesso, «la censure cynique qui protège la seduction», secondo la notazione del Jouve, ma anche, come suggerisce con finezza lo stesso studioso, il mezzo per moltiplicare sadicamente, attraverso lo sdoppiamento, la violenza e il piacere.
In «Così fan tutte» il travestimento complica il gioco di rimandi e di risorse del sin troppo risaputo procedimento del "teatro nel teatro", suggerendone addirittura (senza portarli innanzi, raffinatezza suprema!) sensazionali sviluppi attraverso il progetto di Fiordiligi di indossare i panni di Ferrando e di fare indossare a Dorabella quelli di Guglielmo (II, 12). Quale ricchezza di situazioni sentimentali attinge poi (e quante ne adombra, nel cangiante grado di puntiglio e di rovello che ciascuno dei due uomini mette nel corteggiamento) lo scambio degli innamorati, celati l'uno all'altro nel protratto assedio alla sempre più tentennante resistenza delle due ragazze; sino alla fatale capitolazione, questa volta (un'altra intuizione di prim'ordine del Da Ponte) non simultanea e simmetrica, con tutto lo strascico di umiliazione e di risentimento che questo comporta!
D'altra parte in questa «grandiosa commedia della menzogna», che non rinuncia al suo carattere paradossalmente dimostrativo, l'inganno della maschera seconda e insieme svela il carattere prevaricante della prova d'infedeltà di Dorabella e di Fiordiligi. Secondo l'ammissione di Don Alfonso:

V'ingannai, ma fu l'inganno
Disinganno ai vostri amanti. [II, I8]
Se il travestimento di Ferrando e Guglielmo smaschera le due belle infedeli, i travestimenti di Despina, con il loro tono burattinesco, scanzonato e provocatorio (non immemore anche nella suprema stilizzazione, del lazzo della commedia delI'arte), smascherano il carattere fittizio del teatro, relativizzandolo e restituendolo come illusione e menzogna.
Di quel lieve gioco di ombre al quale si riduce la vicenda nel progressivo arretramento rispetto al limite del verosimile, la musica di Mozart celebra l'incanto celestiale, edenico.
La sua caratteristica è quella di aderire secondo diverse valenze alla lettera della situazione teatrale e nel disporne contemporaneamente i momenti, nella prodigiosa efflorescenza, sproporzionata affatto al Kern impalpabile e volatile del libretto, secondo schemi astratti e convenzionali.
Si veda ad esempio la distribuzione dei pezzi chiusi, cominciando - com'è giusto - dalle arie. Il loro numero e le loro caratteristiche ci informano subito che l'opera ha quattro prime parti assolute (le due coppie) una parte di buffa caricata (Despina) e una di mezzo carattere (Don Alfonso). Nel primo atto se ne contano sei (una per personaggio) che tratteggiano, con mezzi volta a volta peculiari, le fisionomie dei protagonisti. Così le due donne si vedono affidate due grandi arie serie (entrambe precedute dal canonico recitativo accompagnato): rispettivamente un' «aria di smania» (Dorabella, «Smanie implacalbili») e una pirotecnica «aria di bravura», omaggio alle straordinarie doti vocali della prima interprete del ruolo, il soprano Adriana del Bene detta «La Ferrarese» (Fiordiligi, «Come scoglio»): qui la caratterizzazione dei personaggi avviene in maniera mediata, facendo riferimento a un contesto stilistico abnorme, quello dell'opera seria, ciò che svela la loro intima propensione alla recitazione, alla finzione manierata.
Ai due uomini, rispettivamente, un'arietta buffa, scherzosa ma sublimamente leggera (Guglielmo, «Non siate ritrosi») e una stupenda aria di «mezzo carattere» (Ferrando, «Un'aura amorosa») che ne connotano nell'un caso la propensione giocosa, nell'altro il fervido abbandono sentimentale. A Don Alfonso vediamo afffidata un'aria «parlante», anche questa parodiante - opportunamente, dato che egli è il primo ad introdurre lo schermo della finzione - lo stile serio («Vorrei dir»). La prima vera e propria aria buffa è quella di Despina («In uomini, in soldati») con i caratteristici e realistici effetti di recitato e lo scatenato crescendo agogico finale.
Sei arie sono anche nel secondo atto, ma la distribuzione rompe la sin troppo lineare simmetria del primo: mentre Despina («Una donna a quindici anni») e Guglielmo («Donne mie la fate a tanti») confermano, approfondendola, la propria immagine scenica, Fiordiligi (col Rondò «Per pietà hen mio perdona») e Dorabella (con l'aria giocosa «È amore un ladroncello») scoprono finalmente il loro volto, maliziosamente sentimentale e spensierato.
Ma la maestria di Mozart si rivela in particolare nelle due arie di Ferrando nelle quali ancora una volta si chiarisce uno degli aspetti del complesso rapporto che il musicista instaura con il proprio linguaggio. Nella sua prima aria («Ah, lo veggio, quell'anima bella»), Ferrando recita la sua suprema scena di seduzione dinanzi alla recalcitrante Fiordiligi fingendo una passione che non ha (o che comunque non dovrebbe avere). Qui il riferimento all'opera seria, cioè a un contesto in qualche misura abnorme e, appunto, fittizio all'interno della " burletta", connota la doppia finzione della situazione scenica. Nella seconda («Tradito, schernito») il rapporto della musica con il personaggio è immediato. Ferrando sente sulla propria pelle il bruciare del tradimento di Dorabella; ma proprio per questo i moduli linguistici si mantengono entro un orizzonte stilistico medio (rettoricamente parlando: "comico"), che è quello proprio di «Così fan tutte» (con l'eccezione, se si vuole, del ruolo «brillante caricato» di Despina). I residui stilemi «seri» (rettoricamente: "tragici") di quest'aria saranno da intendere allora come un amabile sorriso di Mozart alle spalle del proprio personaggio, irrimediabilmente coinvolto in quella inestricabile commedia della finzione e dell'inganno nella quale si risolveva tanta parte della vita di relazione nella società cortigiana settecentesca. Non sarà inopportuno ricordare - dato che in genere non vi si fa caso - che «Così fan tutte» fu rappresentata nel Teatro di Corte di Vienna il 20 febbraio I790, grosso modo sette mesi dopo la presa della Bastiglia.
Anche se Mozart non teme di giustapporre staticamente lunghe catene di arie (nel secondo atto ne incontriamo ben cinque di seguito, nn. 24-28), la fascinazione di «Così fan tutte» sta nella ben calibrata successione di strutture musicali continuamente variate (in un'accezione non lontana - nonostante il diversissimo contesto - dalla tecnica cosiddetta del "chiaroscuro" propria della poetica dell'opera seria) ed espanse dalla solitaria esibizione solistica sino a comprendere tutti e sei i protagonisti e il coro. Nel simmetrico disporsi dei personaggi entro le schematiche architetture sonore, riluce di nuovo e specificamente il gusto dell'approccio intellettuale, appassionante come un gioco di scacchi, di Mozart con la propria materia.
Si vedano i duetti, in numero di sei (vedi caso, esattamente la metà delle arie): inoltre, due affidati alle due donne («Ah, guarda sorella» e «Prenderò quel brunettino»), due affidati ai due uomini («Al fato dan legge» e «Secondate aurette amiche»), due infine alternativamente a questa e a quella coppia di amanti ed entrambi suggello della resa delle donne ai nuovi corteggiatori (Dorabella - Guglielmo, «Il core vi dono»; Fiordiligi - Ferrando, «Fra gli amplessi»).
Sarà un caso - ancora - che nei sei (!) terzetti non compaia mai una delle due coppie di innamorati, ma sempre, insieme con l'onnipresente Alfonso, cinque volte Ferrando e Guglielmo e una volta Fiordiligi e Dorabella? Che l'unico quartetto non riunisca le due coppie di fidanzati, ma Alfonso, Ferrando, Guglielmo e Despina; che quest'ultima a sua volta sia assente dai due Quintetti, per comparire - oltre che nel Sestetto dell'Atto primo, in qualche modo a lei dedicato in omaggio alla sua indispensabile opera di mediazione («Una furba eguale a questa | Dove mai si troverà?», II, I8) - nei due Finali?
La completa assunzione del ritmo scenico nel ritmo musicale incatena, come si è detto, lo svolgimento dell'azione nella scansione stilizzata e costringente dei pezzi chiusi; I'effetto è di oggettivazione e di straniamento.
Ma questo lento indugiare sulla commedia degli inganni, su «pianti, sospir, carezze, svenimenti» (I, I) e insieme questo attingere a piene mani dalla inesauribile miniera del convenzionale, dai recessi - disponibili della macchina teatrale, finisce per produrre un indefinibile turbamento. L'opera si dà, ha notato Alfred Einstein «come una splendida bolla di sapone colorata di buffoneria, di parodia, di emozione sincera e simulata»; ma il suo «splendore crepuscolare» rivela sfondi lontani, nei quali l'occhio appena riesce a penetrare, dove si stendono lunghe ombre di malinconia. Col tempo il gioco non riesce a mascherare le sue venature vagamente perverse, i suoi risvolti gelidi e crudeli.
«Voi che sapete che cos'è amor...» cantava nelle «Nozze di Figaro» Cherubino. Ma amor cos'è? «Mentite lagrime | Fallaci sguardi | Voci ingannevoli | Vezzi bugiardi...» (I, 7), e ancora: «Piacer, comodo, gusto, | Gioia, divertimento, | Passatempo, allegria: non è più amore | Se incomodo diventa, | Se invece di piacer nuoce e tormenta... (I, 9). E dunque occorrerà

Trattar l'amore en bagattelle:
Le occasioni belle
Non negliger giammai; cangiar a tempo,
A tempo esser costanti;
Coquettizar con grazia;
Prevenir la disgrazia, sí comune
A chi si fida in uomo;
Mangiar il fico e non gittare il pomo.
La lezione è sin troppo presto e sin troppo bene imparata da Dorabella e Fiordiligi (II, 10):

DORABELLA
Odimi: sei tu certa
Che non muoiano in guerra
I nostri vecchi amanti? E allora entrambe
Resterem colle man piene di mosche
Tra un ben certo e un incerto
C'è sempre un gran divario!

FIORDILIGI
E se poi torneranno?

DORABELLA
Se torneran, lor danno!
Noi saremo allor mogli, noi saremo
Lontane mille miglia.

FIORDILIGI
Ma non so come mai
Si può cangiar in un sol giorno un core.

DORABELLA
Che domanda ridicola! Siam donne!
«Siam donne»; ma sarà a tutti chiaro alla fine che il «così fan tutte» di Don Alfonso equivale al «Così fan tutti» di Despina. La morale amara che ne consegue suona (I, 8):

... uno val l'altro [a]
perché nessun [a] val nulla.
In questa prospettiva si comprende il senso della fuga di Mozart nei cieli di cristallo della musica più pura e sublime; si chiariscono le motivazioni segrete di certe aperture su paesaggi edenici di bellezza incontaminata, la risoluzione di tanti momenti della vicenda in apparizioni splendide, in accensioni di bellezza assoluta.
Qui Mozart non è più all'interno del gioco divertito di coinvolgimento e di distacco ironico rispetto al teatro ed alle sue cangianti ed effimere parvenze. Si pone in un'altra dimensione: diversa da quella di Da Ponte, della corte absburgica, del pubblico aristocratico che affollava il Teatro Imperiale, e via dicendo. Da altezze immense guarda alle miserie della commedia umana, dandoci davvero il senso di «quel vuoto che fa male», di «quel rimpianto che non viene mai appagato» di cui parla nelle ultime lettere alla moglie; che è rimpianto di un mondo perduto, o forse mai posseduto, nel quale i valori hanno ben altra consistenza di quanto non ne assegni o ne possa assegnare loro una ragione sterile e negativa, generata da un assetto sociale giunto al culmine del suo possibile sviluppo e già condannato dalla storia.
Occorre ricordare l'incanto visionario di certi momenti della partitura? Come il terzettino «Soave sia il vento», che insieme a Don Alfonso le due donne cantano «immobili sulla sponda del mare» mentre la barca che toglie loro gli amanti scivola leggera sull'acqua? O l'aria stupenda di Ferrando «Un'aura amorosa», che ci conduce per mano sino alla soglia di splendidi elisi settecenteschi? E al di là di queste pagine supreme, la tonalità celestiale che Mozart conferisce lungo il corso dell'opera a una voluta melodica della voce, a un arabesco degli strumenti, alla fascinazione di certe atmosfere timbriche, o alla consapevole, inquietante ambiguità espressiva di tanti luoghi, a cominciare dall'enigmatica Ouverture?
Alla fine diverremo anche per queste vie partecipi - e senza avvedercene - del senso riposto di questa parabola arguta, tutt'altro da quello che il libretto declina in superficie. Non un apologo sulla impertubabilità del saggio, secondo le impettite strofette finali:

Fortunato l'uom che prende
Ogni cosa pel buon verso, E tra i casi e le vicende
Da ragion guidar si fa.
Quel che suole altrui far piangere
Fia per lui cagion di riso;
E del mondo in mezzo ai turbini
Bella calma troverà.
Piuttosto, la confessione dell'impossibilità di rinunciare all'incanto dell'illusione e del sogno (o se vogliamo, anche, alla speranza dell'utopia) di fronte alla dissacrazione crudele della ragione o di quella ragione. Paradossalmente, lo stesso Don Alfonso sembra suggerire (beninteso, dal suo punto di vista) nelle pieghe di un terzetto, quella che potremmo utilizzare a buon diritto come epigrafe di «Così fan tutte»:

O pazzo desire
Cercar di scoprire
Quel mal che trovato
Meschini ci fa.
Una conclusione, questa, che non sarebbe spiaciuta al volterriano Candide, e che mette a fuoco, definitivamente, il senso del razionalismo e dell'ironia di quest'opera buffa, che buffa non è poi tanto; e insieme ne qualifica, all'interno dell'estrema stagione creativa di Mozart, il carattere raccolto, meditativo, sublimamente crepuscolare. Una pausa di ripiegamento interiore (non diciamo di smarrimento) dopo il tumulto troppo umano delle passioni di «Don Giovanni» e lo scatenato ritmo della folle journée; immediatamente prima, sappiamo, del «Flauto magico», della suprema rivelazione, nella prospettiva della morte, di una verità inattingibile dalla logica - splendente e miserabile - della raison settecentesca.

[1974]