LE OPERE DI DA PONTE
NEL LORO CONTESTO STORICO
1. H. C. Robbins Landon

2. Marc Vignal

3. Claudio Casini (Analisi dell'opera; Giuseppe II; Leopoldo II)

La fervida collaboraione [tra Da Ponte e Mozart] iniziò ufficialmente nel 1785, ma è in parte dovuta ad un evento occorso cinque anni prima, quando Mozart stava lavorando alla sua prima opera di spicco, «Idomeneo», a Monaco. Il 29 novembre 1780, due giorni prima della prova generale con l'orchestra, morì l'imperatrice Maria Teresa. Nell'ottobre del 1762, quando Mozart aveva appena sei anni, aveva meravigliato la Corte del Castello di Schonbrünn con la sua incredibile maestria; purtroppo l'Imperatrice, che, ancor giovane, aveva dato prova di grande abilità politica, non prese mai Mozart molto sul serio. Suo figlio, l'Arciduca Ferdinando, Governatore e Capitano-Generale della Lombardia, aveva commissionato a Mozart un'opera, «Ascanio in Alba», per celebrare il suo matrimonio con la Principessa Maria Beatrice d'Este. L'opera, eseguita nell'ottobre del 1771, fu un tale successo che Ferdinando considerò seriamente di prendere Wolfgang al proprio servizio. Quale figlio deferente, scrisse alla madre di tale proposito. Senonché il 12 dicembre 1771 ella rispondeva:
«Mi chiedi se puoi prendere al tuo servizio il giovane salisburghese. Non riesco a immaginarne il motivo dal momento che non posso credere che tu abbia bisogno di un compositore o di persone tanto inutili. Ma se ti fa piacere, non voglio esserti di intralcio. Quel che intendo dire è di non assumere persone inutili e di non elargire titoli a chi ne farebbe cattivo uso, vagando per il mondo come un mendicante. A parte questo, ha una famiglia numerosa.»
Maria Teresa aveva, a dir poco, una scarsa competenza musicale. L'Imperatrice era inoltre piuttosto puritana, in particolare riguardo al teatro. Aveva fatto bandire l'opera di Haydn «Der krumme Teufel» per via della satira politica e delle parti a sfondo sessuale. Durante tutto il suo regno, sarebbe stato assolutamente impensabile che i libretti di «Figaro», «Don Giovanni» e «Così fan tutte» passassero la censura. L'Imperatrice disponeva di una solida organizzazione preposta alla censura, diretta da van Swieten, per impedire l'introduzione in Austria di libri compromettenti. Di conseguenza, il gusto e la cultura del mondo letterario austriaco erano notevolmente in ritardo rispetto all'Inghilterra, alla Francia e persino alla Germania. L'Imperatrice si interessava personalmente della censura, discutendone con van Swieten. A proposito di una rivista mensile bavarese che metteva spiritosamente in ridicolo il dialetto ed altri aspetti popolari, ella ne impedì l'importazione precisando «Io stessa non apprezzo alcuna forma di ironia. È incompatibile con l'amore verso i propri vicini. Perché mai si dovrebbe sprecare il proprio tempo a scrivere simile robaccia o a leggerla?»
A partire dal 1765, Maria Teresa concesse al figlio Giuseppe la coreggenza, ma Giuseppe, figlio dell'Illuminismo, mirava a realizzare tutta una serie di riforme che sua madre, divenuta con l'età più conservatrice, cercava di impedire. Giuseppe II fu il monarca più interessante, anche se profondamente problematico, che sia mai seduto sul trono d'Asburgo, ed è in gran parte dovuta a lui la realizzazione di due opere Da Ponte-Mozart, «Le nozze di Figaro» e «Così fan tutte» - come pure la rappresentazione del «Don Giovanni» a Vienna. Non appena ne fu in grado, dopo la morte della madre, Giuseppe - che avrebbe compiuto quarant'anni il 13 marzo 1781 - si mise al lavoro per spingere la monarchia austriaca nel mondo dell'Illuminismo, ed una delle prime preoccupazioni fu di imporre un freno alla censura, sia pure senza abolirla. Nel corso degli anni compresi fra il 1780 ed il 1790, l'Austria assistette ad un vasto dilagare di pamphlets politici, satire, articoli e libri che avrebbero fatto inorridire Maria Teresa.
Il potere della Chiesa fu stroncato sia politicamente che economicamente. Il Papa giunse in Austria nel 1782 per un accordo con Giuseppe, ma senza risultato. I numerosi monasteri sul territorio della monarchia furono drasticamente ridotti. Ad un osservatore obiettivo doveva sembrare che l'Austria si avvicinasse all'Arcadia. La tortura fu abolita e i metodi barbari di esecuzione, come il supplizio della ruota, divennero un'eccezione, non la regola. Quando, nel 1789, scoppiò la Rivoluzione francese, furono in parte sicuramente le prime riforme attuate da Giuseppe a salvare l'Austria dalla medesima sorte: ma la Chiesa e la nobiltà (i cui vasti poteri feudali erano stati spezzati) presero Giuseppe in odio. D'altro canto i contadini, i letterati, i mercanti, gli Ebrei, i Protestanti, gli oppressi e i poveri, cominciarono a vedere in lui un dio. La volta che, fermata la carrozza, ne saltò giù ed afferrò un aratro, divenne un eroe degli agricoltori: fu un'astuzia che Napoleone avrebbe ricordato. Proiettati su questo sfondo, mettiamo ora a fuoco gli avvenimenti del 1785 a Vienna, nella quale era giunta quella straordinaria figura che è Lorenzo da Ponte, libertino, «poseur», ebreo convertitosi, colto uomo di lettere, prete mancato e protetto di Antonio Salieri, il compositore di corte. Da Ponte si era compromesso personalmente e politicamente nella sua terra d'origine, l'Italia, prima a Venezia e poi a Treviso; ritenne conveniente recarsi a Dresda, dove si procurò una lettera di raccomandazione che presentò a Salieri all'inizio del 1782.
Salieri era molto conosciuto, era ascoltato dal nuovo Imperatore, e così Da Ponte fu presentato a Giuseppe II, che colpì l'italiano per l'assoluta semplicità dei modi e dell'abbigliamento. Nelle sue «Memorie» (scritte molti anni dopo e quindi non completamente affidabili) Da Ponte pone in particolare rilievo che fu solamente grazie alla sua «perseveranza e tenacia che l'Europa ed il Mondo intero devono in larga misura le mirabili composizioni vocali di [Mozart] quel formidabile genio». Da Ponte inoltre afferma che conobbe Mozart in casa del barone Wetzlar, e che poco tempo dopo propose a Mozart stesso la collaborazione ad un'opera [«Le nozze di Figaro». Mozart rispose: «Lo farei molto volentieri, ma sono sicuro che non ne otterrei mai il permesso». E Da Ponte: «Questo sarà affar mio». [...]
Il lavoro di Beaumarchais, «Le Mariage de Figaro», aveva alimentato uno dei più grandi scandali teatrali della storia. Quando l'autore propose la pièce nel 1781 alla Comédie Française, Luigi XVI lesse personalmente il manoscritto e dichiarò: «È spregevole, non sarà mai rappresentato!» («cela est détestable, ne sera jamais joué»), ma dopo interminabili raggiri e pressioni di ogni genere ne fu data una rappresentazione privata al Chateau de Gennervilliers, con l'autorizzazione regia. Infine, il 27 aprile 1784, «Le Mariage de Figaro» fu messo in scena dalla Comédie Française a Parigi e divenne il più grande successo di quel tempo, con ben sessantaquattro repliche. Il problema del contenuto politico della commedia è stato vivacemente dibattuto. Fu precorritrice della Rivoluzione francese? In quale misura i presunti contenuti pericolosi influenzarono Mozart e Da Ponte nella scelta del soggetto per un libretto operistico? Nel 1785 uscirono diverse traduzioni dell'opera, compresa una ufficiale, «Figaros Hochzeit oder der tolle Tag», approvata da Beaumarchais; venne pubblicata a Kehl, sulla riva opposta del Reno rispetto a Strasburgo (a quel tempo come oggi in Francia). Mozart possedeva una di queste traduzioni, catalogata col n. 41 nell'elenco dei suoi effetti, stilato dopo la morte al fine di valutarne il patrimonio.
Comunque la si voglia pensare circa il contenuto morale e politico del testo, è chiaro che Giuseppe II la riteneva troppo pericolosa per il teatro, ma [...] non troppo pericolosa da leggere: chiunque poteva acquistarne una copia. Non sappiamo in quale misura il progetto complessivo del libretto dell'opera sia attribuibile a Mozart e in quale a Da Ponte, ma possiamo ipotizzare che fu frutto di una effettiva collaborazione. Delle numerose modifiche che furono apportate al lavoro teatrale di Beaumarchais, è necessario evidenziarne due: l'Atto V includeva un lungo monologo di Figaro, a carattere altamente politico e incendiario - che si prolungava per diverse pagine a stampa. Nell'opera questa parte diventa la famosa requisitoria di Figaro contro le donne, dell'Atto V, «Aprite un po' quegli occhi, uomini incauti e sciocchi». Questa sostituzione avrebbe incontrato il favore imperiale per due ragioni; primo, elimina completamente la satira dell'originale francese; secondo, descrive con dovizia di particolari come gli uomini siano infamati dalle donne, chiudendosi con i famosi versi «il resto nol dico, già ognun lo sa». Il tutto è seguito da un assolo dei corni, con allusione evidente alle «corna», simbolo tradizionale di chi è stato tradito in amore. Il che s'accorda perfettamente con l'atteggiamento ambiguo di Giuseppe II nei riguardi delle donne, e possiamo immaginarlo che sghignazza sulle note dell'assolo dei corni, mentre Mozart esegue per lui la partitura. [...]
[...] Giuseppe II non ascoltò mai «Don Giovanni» in teatro a Vienna [prima rappresentazione: 7 maggio 1788]. Non avrebbe potuto farlo, perché partì per la guerra il 25 marzo e non fece ritorno fino al 5 dicembre. L'opera non fu messa in scena a Vienna che a maggio ed il giorno dell'ultima rappresentazione (15 dicembre 1788), l'Imperatore era ammalato. Mozart apportò ampie aggiunte e variazioni, una delle quali, «Dalla sua pace», ha raggiunto l'immortalità [...].
Il 29 agosto 1789 «Le nozze di Figaro» furono riportate sulle scene viennesi. Si può sospettare che dietro a questo avvenimento vi sia Da Ponte, semplicemente perché Mozart fu costretto a comporre due nuove arie da inserire nell'opera. [...] Consideriamo per un momento le conseguenze della decisione di Giuseppe II di reintrodurre l'opera italiana al Burgtheater. L'enorme successo de «Il barbiere di Siviglia» di Paisiello, dimostra che la decisione di Giuseppe fu una prova della sua abilità nel giudicare il gusto e le preferenze del popolo (nonché, nel caso dell'opera italiana, sue). Fra il 22 aprile del 1783, anno in cui fece la ricomparsa l'opera italiana, e il 25 gennaio 1790, alla vigilia di «Così fan tutte», terza opera di Mozart su libretto di Da Ponte, a Vienna furono messe in scena 59 opere buffe. Di tutti i compositori tedeschi Mozart era di gran lunga quello di maggior successo, con venti rappresentazioni di «Le nozze di Figaro» e quindici di «Don Giovanni», ma in termini di popolarità veniva molto dopo i più famosi compositori di opere italiane - Sarti (91 rappresentazioni), Martín y Soler (105), Cimarosa (124), Salieri (138) e Paisiello (166).
Mentre nel ventesimo secolo la fama di Mozart ha spazzato via quella dei compositori italiani suoi contemporanei, a quanto pare nel diciottesimo secolo la situazione era molto diversa. Gli unici successi che le opere italiane di Mozart ottennero fuori da Vienna e da Praga, furono per rappresentazioni in tedesco in paesi di lingua tedesca. Mozart vivente, nessuna delle sue opere italiane fu rappresentata per intero in Inghilterra, Francia, Russia, Spagna, Portogallo o Italia (quando Figaro fu messo in scena a Monza nell'autunno del 1787, e al teatro della Pergola di Firenze nella primavera del 1788, gli ultimi due atti furono riscritti da Angelo Tarchi). In realtà, a parte Vienna e Praga, le uniche esecuzioni note di «Figaro» in italiano, essendo Mozart vivente, si tennero a Potsdam (autunno 1790) e probabilmente a Eszterháza (agosto-settembre 1790). Nel caso di «Don Giovanni», sappiamo che (a parte Praga e Vienna) ebbero luogo due rappresentazioni in italiano, quando la Compagnia Guardasoni (successore di Bondini) lo portò a Lipsia come Gesamtgastspiel, il 15 giugno 1788, e a Varsavia (14 ottobre 1789). «Così fan tutte» fu eseguita in Italia quando Mozart era ancora in vita, a Praga nel 1791 (il libretto è datato), a Lipsia nell'estate del 1791 e a Dresda il 5 ottobre dello stesso anno. [...]
«Nel clima politico che regnava a Vienna», scrive Michael Robinson, «Mozart... era un outsider, un uomo che, nonostante gli fosse riconosciuto un talento eccezionale, non aveva le qualità giuste (in quanto non italiano e non considerato alla pari dal mondo musicale italiano) per diventare la figura di primo piano fra i compositori a cui la Corte commissionava i lavori. Come avrebbe potuto raggiungere la posizione che gli spettava? Naturalmente doveva dimostrare di aver capito tutte le convenzioni dell'opera comica italiana e di lavorare all'interno di queste convenzioni. E non era ancora abbastanza. Non solo doveva scrivere musica come un Italiano; doveva fare meglio degli Italiani per ottenere i medesimi loro riconoscimenti».
Il successo delle opere italiane di Mozart fu, nei fatti, postumo, particolarmente nel caso dell'esempio più perfetto, musicalmente e formalmente parlando - «Così fan tutte», la più calunniata, incompresa e per lungo tempo ignorata delle tre opere di Da Ponte. Il suo librettista è curiosamente reticente circa la nascita dell'opera. Constanze, parlandone con i Novello nel 1829, fu altrettanto discreta. «Non le piaceva la trama di «Così fan tutte», scrisse Vincent Novello «ma fu d'accordo con me che una simile musica avrebbe fatto passare in secondo piano ogni altra cosa...» Sua moglie Mary poi aggiunge «L'inimicizia di Salieri nacque dal fatto che Mozart stesse lavorando a «Così fan tutte a cui egli [Salieri] si era dedicato e che aveva messo da parte perché indegna [della] sua inventiva musicale».Ancor più ambiguo è un riferimento in Niemetschek, ripreso verl'!atim da Nissen: «Mozart finì Gsì fan tutte nell'anno 1790... Ci si domanda generalmente perché quel grande genio si sia abbassato a sprecare le sue melodie celesti e dolci su di un testo così povero e meschino. Ma non era certo in suo potere disattendere la commissione, e quel testo gli fu specificamente raccomandato».
H.C. Robbins Landon, «Mozart. Gli anni d'oro 1781-1791», Milano, Garzanti, 1989, pp. 153-173 con tagli.
D'un opéra à l'autre
Lorsque Mozart écrivit «Così fan tutte», Vienne n'était plus celle qui en 1786 avait vu naître «Les Noces de Figaro», et sa position personnelle elle aussi avait changé. Dans la seconde moitié de 1789, la politique de réformes de Joseph II appartenait au passé, et ce pour plusieurs raisons: échecs en politique extérieure, guerre sans succès contre les Turcs, mécontentements suscités par les réformes elles-mêmes, effets de la Révolution française.
Des troubles avaient surgi en Hongrie et aux Pays-Bas. «Figaro» fut destiné «à un public de connaisseurs dans une société en mouvement, où les conventions d'ancien régime coexistaient avec un nouvel intérêt pour l'égalitarisme». D'où un parfum de scandale donnant d'avance le frisson à un auditoire sachant qu'il serait mis au contact d'un matériau potentiellement subversif.
Quant à Mozart, il avait, en travaillant à l'ouvrage, toutes les raisons d'être optimiste: étant donné sa réputation déjà acquise de virtuose, le succès escompté de son opéra ne pouvait que l'établir fermement à Vienne.
L'opéra suivant, «Don Giovanni», se situe au contraire dans l'année où les déceptions commencèrent (1787). Il faut en outre, à son propos, tenir compte du fait qu'à l'époque, les milieux cultivés considéraient le sujet comme rebattu, et en faisaient peu de cas: il convenait, estimaient-ils, à la «populace». Le «Don Ciovanni Tenorio» de Bertati (livret) et Gazzaniga (musique), représenté à Vienne en février 1787, et qui servit de modèle à Da Ponte, contient un prologue où la pièce proprement dite est qualifiée de «una bella e stupenda porcheria». Mais justement, la popularité du sujet, avec ses éléments surnaturels, était grande dans les «milieux les moins favorisés».
Steptoe note qu'outre celui de Bertati et Gazzaniga, quatre opéras sur ce thème furent donnés dans la décennie précédant celui de Mozart. On a sans doute là une des raisons du choix de ce sujet pour un opéra destiné à Prague, ville relativement provinciale. Ce qui ne signifie pas que Mozart n'ait pas été attiré par ledit sujet, en particulier par ses côtés démoniaques, mais explique qu'il ait eu des doutes - qui devaient se révéler fondés - quant à la réussite de «Don Giovanni» à Vienne.
Quand Mozart se mit à «Così», la situation s'était encore modifiée. Il n'était plus question de créer au Burgtheater, c'est-à-dire au théâtre de la cour, un opéra sentant le soufre, que ce soit à la manière de Noces de Figaro ou à celle de «Don Giovanni» (en 1791, «La Flûte enchantée» devait être présentée dans un autre théâtre, et dans un tout autre contexte). Il reste que Mozart ne put que saisir avec empressement la commande d'un opéra pour le Burgtheater, même sur le sujet de «Così», et pas seulement parce que l'opéra était un de ses domaines d'élection.
Cette commande vint en effet renflouer ses finances, et surtout redonner vie, pour un temps, à son génie créateur. «Così fan tutte» lui fut, selon ses propres dires, payé 900 florins, soit l'équivalent du salaire annuel de Haydn chez les Esterhazy et le double de ce que lui-même avait touché pour L'«Enlèvement» et pour «Figaro» (Paisiello cependant avait perçu en 1784 pour «Il Re Teodoro»1350 florins). Cette somme assez substantielle fut donc la bienvenue. Mais elle vint s'ajouter à d'autres sources de revenus, et dans la mesure où l'on fait entrer en ligne de compte les prêts alors consentis par l'ami Puchberg, il ne faut pas en surestimer l'importance.
Marc Vignal, «Sources, composition et créateurs», in «Così fan tutte», Avant-Scène Opéra, mai-juin 1990, nº 131-132, p. 10-11.
Analisi dell'opera - Giuseppe II e Leopoldo II
In «Così fan tutte » Da Ponte si rivelò eccellente sceneggiatore: l'azione vi è condotta rigorosamente, a differenza di quanto era accaduto in «Don Giovanni ».
Si tratta di una trama in cui le caratteristiche dell'opera comica italiana vengono sublimate in un gioco perfettamente calibrato di simmetrie, specialmente per quanto riguarda il processo psicologico per cui le due ragazze cedono alla passione nascente, prima timida e poi irrefrenabile, per i presunti nuovi corteggiatori: la più leggera e disponibile Dorabella è la prima a cedere, seguita dalla più tormentata e fiera Fiordiligi. Comicamente amara è la situazione di Ferrando e Guglielmo che, pur in diversi tempi e con illusioni presto disingannate, si trovano vicendevolmente traditi.
Quanto alla stesura in versi, Da Ponte superò se stesso, adoperando una lingua ancor più discorsiva e anti-letteraria che nelle «Nozze» e in «Don Giovanni». In tutte e due le mansioni, di sceneggiatore e di versificatore, venne probabilmente suggestionato da Mozart, dato il principio mozartiano che si può definire dell'«araba fenice», vale a dire del librettista capace di adattarsi, come Wolfgang aveva chiaramente affermato nel 1781, alle esigenze del musicista drammaturgo.
L'influsso di Mozart fu certamente decisivo nei numerosi doppisensi osceni di cui è costellato il libretto. Già in «Don Giovanni» questa libertà tipicamente settecentesca si era affacciata: Don Giovanni afferma di sentire «odor di femmina» o chiede a Zerlina:

Quel casinetto è mio: soli saremo,
E là, gioiello mio, ci sposeremo

(«gioiello» aveva un significato inequivocabilmente osceno, adoperato da Diderot nel dialogo intitolato «Les bijoux indiscrets», i cui interlocutori sono «gioielli» di sesso diverso). Don Giovanni si avvia con Zerlina:

Andiam, andiam mio bene
A ristorar le pene

(basta pensare alla pronuncia alla tedesca di «bene»); la stessa Zerlina consola Masetto delle botte che ha preso da Don Giovanni e, « se il resto è sano », gli promette di curarlo con il rimedio che

E naturale,
Non dà disgusto,
E lo speziale
Non lo sa far.
La servetta Despina dichiara al vecchio filosofo Don Alfonso, che cerca di allettarla dichiarandole che le vuole fare «del ben» (formula settecentesca che significava, anche in tedesco, ingravidare):

A una fanciulla
Un vecchio come lei
non può far nulla.

Nel duetto di Dorabella e Guglielmo, tutto un equivoco è imperniato sui verbi «dare» e «prendere», il cui oggetto è, maliziosamente, il cuore, fino a quando Dorabella non dice:

Se a me tu lo dài
Che mai balza lì?

Don Alfonso afferma ironicamente, rivolgendosi al bel sesso:

Ogni giorno ve lo mostro,
Vi dò segno d'amistà

Mille volte il brando presi
per salvar il vostro onor,
Mille volte vi difesi
Colla bocca e più col cor.

Il fatto straordinario è che in «Così tan tutte» si manifestano due livelli: quello osceno e blasfemo nei riguardi dell'amore, costante nel libretto; quello sublimato nella bellezza della musica in cui Mozart stilizzò l'opera comica italiana.
I luoghi comuni musicali dello stile italiano furono rivisitati fondendo la vocalità, tanto nelle arie virtuosistiche quanto nei complessi pezzi d'insieme, con un'orchestra ridotta all'essenziale, quasi un organico da camera. Con straordinaria profondità, vi si alternano il grande strumentalismo delle ultime sinfonie e le raffinate trame delle ultime composizioni cameristiche per archi, ad esempio i quintetti, e per archi con strumenti solisti, come il Quintetto K.581 col clarinetto, che era stato composto poco prima dell'opera, nell'autunno 1789.
Tutta l'umanità di Mozart, insieme con la sua esigenza teatrale di comunicare un messaggio ideologico servendosi anche della bassa comicità, si rivelano nella conciliazione dei due livelli che si possono definire, senza mezzi termini, il triviale e il sublime.
Giuseppe II non assisté alle rappresentazioni di «Così fan tutte», che venne replicata tre volte, a partire dal 26 gennaio 1790. Morì infatti il 20 febbraio, reduce dalla guerra contro gli Ottomani cui si aIlude più volte nel libretto dell'opera. I teatri furono chiusi.
Col successore di Giuseppe II, suo fratello Leopoldo II, fino a quel momento granduca di Toscana, molte cose erano destinate a cambiare. La guerra che l'Impero aveva condotto contro gli Ottomani si era temporaneamente conclusa con la presa di Belgrado, ma l'Impero si trovava in stato di inferiorità col potente alleato, la Russia. In sostanza, la politica estera di Giuseppe II si era rivelata fallimentare proprio per il desiderio di spezzare la vecchia alleanza russo-prussiana che, dai tempi di Federico II e delle sue guerre contro Maria Teresa, era stata lo spauracchio della corte di Vienna.
Non meglio andavano le cose in politica interna, dato che il riformismo «giuseppino» aveva finito per travalicare lo scopo di creare uno Stato accentrato, moderno e potente, scontentando non soltanto l'aristocrazia austriaca ma anche e soprattutto quella delle etnie annesse all'Impero, l'Ungheria e la Boemia; soltanto la borghesia era stata resa più prospera dalle riforme, ma non in tutto l'Impero.
Per converso, si rivelavano sacche di feroce povertà - ad esempio nel gruppo di antropofagi scoperti in una zona dell'Ungheria - e serpeggiavano ribellioni in cui i ceti inferiori si erano uniti allo scontento dell'aristocrazia, generando vere e proprie rivolte, come la «jacquerie» della Valacchia, sanguinosamente repressa con pubblici e orribili supplizi, nonostante la formale abolizione della tortura e la limitazione della pena di morte. L'inquietudine percorreva tutto l'Impero, dai territori fiamminghi in rivolta alla stessa Vienna in cui si manifestava perfino l'antisemitismo, a dispetto delle uguaglianze civili e religiose sancite dai nuovi ordinamenti.
Giuseppe II aveva dovuto recedere da molti provvedimenti progressisti, sollevando il malcontento di coloro che avevano favorito la sua iniziale azione riformatrice, e morì nel timore di aver fallito la propria politica. Toccò a Leopoldo II tirare le fila di una situazione confusa: anch'egli progressista nel governo della piccola Toscana, fu però costretto a stringere i freni nell'immenso territorio imperiale percorso da contrasti di tutti i generi, etnici, religiosi, sociali.
Con l'esperto aiuto del vecchio cancelliere Kaunitz, in carica dai tempi di Maria Teresa, Leopoldo II si ritirò dalle iniziative di politica estera, riconsegnando Belgrado conquistata, e si mantenne in equilibrio fra le contraddittorie tensioni interne cercando da un lato di salvare quanto poteva delle riforme «giuseppine», anche tenuto conto dell'incalzare degli eventi rivoluzionari in Francia, e d'altro lato di ricomporre le contese; soprattutto tentò di concedere nuovamente all'aristocrazia qualcosa dei vecchi privilegi.
Il suo fu un regno breve (morì il 1° marzo 1792, due anni quasi esatti dopo Giuseppe II), ma non fu un regno facile. La sua politica di equilibrio venne seguita dalla svolta conservatrice del successore, Francesco II.
A corte, Leopoldo II aveva dato segni di notevole cambiamento, allontanando alcuni dei personaggi che avevano rappresentato l'aspetto più lassista dell'epoca «giuseppina». Nel microcosmo della gerarchia musicale di corte cadde la testa di Antonio Salieri che, abilmente, si ritirò dalla carica di direttore del teatro e mantenne soltanto quella di Kapellmeister. Da Ponte, stando alle Memorie, fu costretto a lasciare Vienna in gran fretta.
Mozart non venne toccato. Si dice che la sua carica di «compositore di camera» fosse così infima da farlo dimenticare. Ma è difficile pensare che Leopoldo II potesse dimenticare Mozart: uno dei suoi ricordi giovanili era certamente l'annunzio, ricevuto in teatro nell'autunno 1762, che un ragazzo prodigio stava arrivando a Vienna; un altro ricordo era quello di suo padre, l'imperatore Francesco, estasiato dai giochi di destrezza di Mozart sulla tastiera, suonata con un solo dito e poi con un panno sopra. E ancora: il piccolo Mozart che baciava Maria Teresa, che era caduto lungo disteso per terra nell'appartamento degli arciduchini ed era stato rialzato da Maria Antonietta; poi giovanetto, in Italia, con l'antipatico padre Leopold che cercava un'assunzione a Firenze, mentre Maria Teresa, forse insospettita dalle frequentazioni massoniche dei due musicisti, avvertiva il figlio granduca di non mettersi intorno, alla corte granducale, personaggi girovaghi e oberati di famiglia come i Mozart.
I fratelli Asburgo avevano una buona dose di bizzarria, e Leopoldo II, come un tempo Giuseppe II, forse apprezzava in Wolfgang Amadeus il fatto che non era un cortigiano e un opportunista, al di là di quanto non fosse d'obbligo per ricevere qualche legittimo favore. E lo lasciò al suo posto, anche se sapeva benissimo che apparteneva all'ala massonica più radicale, contro la quale occorreva intervenire.