Jean Mistler

«Muor giovane colui che al cielo è caro»

Poche glorie furono precoci quanto quella di Mozart, già celebre a dieci anni: ci fa pensare a quella giovane gloria i cui primi sguardi, secondo Vauvenargues, sono più dolci delle luci dell'aurora. Venticinque anni dopo, nel 1791, Mozart ha trentacinque anni. Nel frattempo, ha prodotto un'opera immensa, oltre seicento numeri nel catalogo di Köchel, e questo complesso enorme comprende, certo, qualche scherzo musicale e opere di circostanza, ma vi reperiamo diciannove messe, venticinque opere liriche, otto vespri e litanie, trentanove mottetti, dieci cantate, settantun'arie con accompagnamento d'orchestra, quarantun melodie, ventitré sonate per piano, quaranta per piano e violino, trentadue quartetti, trii, quintetti, suite di balletto, serenate, cinquantacinque concerti, cinquantun sinfonie! Ci vorrebbe oltre un anno per eseguire l'opera integrale. Nessuno al mondo può vantarsi di averla udita tutta e per studiarla a fondo ci vorrebbe più tempo di quel che ne impiegò Mozart a comporla! Non si trova, né nel XVIII né nel XIX secolo, un musicista così fecondo, salvo forse Telemann, ma le sue opere migliori sono di gran lunga inferiori alle opere più scadenti di Mozart.
Ebbene, nel 1791, l'autore di tanti capolavori è soltanto un malato moribondo che sarà portato al cimitero dal carro funebre dei poveri. Egli sta ormai per terminare quella sua vita in cui permangono tanti enigmi e in molti punti forse non sarà mai chiarita.
Eppure conosciamo abbastanza bene il suo ultimo anno di vita. Le testimonianze abbondano e possiamo seguire quasi giorno per giorno le vicende della sua tragedia.
La casa in cui viveva Mozart, in quell'anno 1791, non esiste più. Fu distrutta e sostituita intorno al 1840 da un banale immobile d'affitto il cui solo nome, Mozarthof, rammenta che il maestro abitò in questo luogo. Ma la casa in cui visse ci è ben nota attraverso le stampe.
Era un edificio a due piani dalla facciata asimmetrica e un grande tetto a quattro spioventi. Al piano terra, due botteghe e un grande portone; al primo piano, l'appartamento di Mozart. Sopra il portone era posta una statua della Vergine col Bambino sormontata da un piccolo baldacchino con in cima una croce.
L'appartamento di Mozart comprendeva quattro stanze, più un vestibolo e una cucina. Il salone faceva angolo con una voliera in cui cantavano i canarini prediletti dal musicista. È qui che egli abita con la moglie e la serva Elisa. Il figlio maggiore, di sei o sette anni, è in collegio e l'ultimo, quello che nascerà appena qualche mese prima della sua morte, verrà messo a balia. I coniugi Mozart quindi vivono soli, come nei primi anni di matrimonio.
Il mobilio lo conosciamo: comprende due cassettoni, un sofà, due divani, un piano e (si noti il particolare) un biliardo con dodici stecche e cinque palle, più una lanterna e quattro fiaccole.
Mozart era un grande appassionato di biliardo e spesso, mentre lavorava, si alzava e lasciava il clavicembalo per fare qualche carambola.
Ecco alcuni estratti dell'inventario dei suoi beni redatto all'indomani del decesso:

Denaro liquido: 60 fiorini.
Stipendi da riscuotere, il trimestre della pensione di secondo maestro di cappella: 133 fiorini.
Denaro prestato da Mozart, ma irrecuperabile: Gilowsky, 300 fiorini; Stadler, 500 fiorini.

Quanto all'argenteria, la lista è presto fatta: tre cucchiai, 7 fiorini.
Vengono poi gli abiti:

1 abito bianco con gilé Manchester 6 fiorini
1 abito turchino 2 fiorini
1 abito rosso 1 fiorino 30
1 abito di nanchino 45 kreutzer
1 abito di bigello 3 fiorini
9 camicie
3 paia di scarpe, ecc. ».

Per riassumere, il bilancio definitivo della successione comportava:

attivo 592 fiorini 09 kreutzer
passivo 918 fiorini 16 kreutzer
deficit 326 fiorini 07 kreutzer.

Si noti che le somme dovute da Mozart a diversi amici portavano lo scoperto a circa 3.000 fiorini.

È pressappoco la stessa situazione che lascerà, trentacinque anni dopo, Beethoven.
Perché questa miseria? Per ragioni molteplici, ma che vanno tutte nello stesso senso. Innanzitutto, nel 1791, la fama di Mozart è molto diminuita. Dopo i trionfi del bambino, dopo i concerti che rendevano fino a 1.000 e 1.500 fiorini l'uno, già il suo secondo soggiorno a Parigi e il secondo viaggio a Vienna avevano fatto molto meno sensazione. Il bambino prodigio non c'era più, restava solo l'artista, e l'arte pura attrae i curiosi e gli oziosi assai meno dei fenomeni da baraccone.
Mozart non dà quasi più concerti. Nel 1782 e nel 1783 ne contiamo diciannove in un mese. Diciannove concerti, anche con un compenso ridotto, gli permettono di vivere; ma adesso, è tanto se dà cinque o sei concerti all'anno.
Nessun mecenate privato a cui possa appoggiarsi. Ha lasciato la casa dell'arcivescovo di Salisburgo. Il famoso calcio nel sedere con cui il conte Arco lo saccia segna una data nella storia della musica. Questo affronto fatto dal maggiordomo dell'arcivescovo al più grande musicista di tutti i tempi segna la fine della servitù dei musicisti. Dopo questa data, non ci saranno più «musicisti domestici» nelle case signorili, ma in cambio di questa indipendenza ritrovata, bisognerà guadagnarsi da vivere duramente e a fatica. I mezzi di comunicazione come il cinema, i dischi, la radio, la televisione, di cui dispone oggi un compositore per guadagnare soldi, non esistevano ancora nel XVIII secolo. La corte imperiale è indifferente. Solo qualche mese prima di morire, Mozart otterrà il posto di secondo maestro di cappella, per 800 fiorini all'anno.
Questi i motivi esterni della miseria di Mozart, ma ce ne sono altri dovuti al suo carattere: Mozart è un bohémien, sua moglie è imprevidente quanto lui. Quando hanno soldi, vanno insieme al cabaret; cenano, invitano amici, tengono tavola imbandita. Quando Mozart passeggia per le vie della città e vede un bell'abito rosso coi bottoni di madreperla, deve comprarselo subito, anche se non ha denaro, e la sua corrispondenza ci mostra, negli ultimi mesi di vita, una ventina di lettere desolanti contenenti richieste reiterate di denaro all'amico Puchberg, negoziante, compagno di massoneria, che a forza di 20 o 100 fiorini gli ha prestato un totale di 2.000 o 3.000 fiorini. Non è una somma enorme, ma Mozart non era neppure riuscito a avviare un rimborso. Quel che riceveva con una mano, lo dava con l'altra: abbiamo visto, nell'inventario della successione, i due prestiti irrecuperabili, fatti a due compagni con soldi di cui invece avrebbe avuto bisogno lui, e per mangiare.
Sulla sua generosità e la sua imprevidenza vi sono innumerevoli testimonianze. La più curiosa è quella di Deiner, un alverniese di Vienna, il commerciante che forniva la legna alla famiglia Mozart. Un giorno va a fare la sua consegna e trova il musicista e sua moglie che ballano nel salone. «Che cosa fa?» chiede, «insegna a ballare alla signora?» «No,» risponde Wolfang, «avevamo freddo e ballavamo per scaldarci».
Un'altra volta, un vecchio accordatore va da lui per accordare il piano. «Quanto le devo?» chiede il compositore.
«Sono venuto tre volte,» fa il brav'uomo. «Diciamo, un tallero.»
Al ché, Mozart: «Un vecchio non si disturba tre volte per un tallero!» e gli dà un ducato, cioè il triplo.
È cosi che, un ducato di qui, un ducato di là, i soldi se ne vanno senza neanche accorgersene.
Due generazioni dopo, un musicista per molti versi meno geniale, Rossini, un bel giorno potrà ritirarsi dalla vita teatrale e vivere per trent'anni di rendita, occupandosi non più di musica, ma della confezione di cannelloni farciti di fois gras. I guadagni realizzati con le sue opere basteranno, insieme con un fortunato matrimonio, ad assicurargli una vita opulenta. Ma nel 1791 i diritti d'autore non esistono ancora! Quando un musicista compone un'opera, la vende una volta per tutte, fortunato se incassa un migliaio di franchi, un centinaio di ducati. L'opera non gli appartiene più e, anche se la si replica centinaia di volte, come il «Flauto magico», egli non riceverà nessun compenso supplernentare. Quanto ai brani di musica da camera, li vende agli editori. E sappiamo come trent'anni dopo, alla fine della sua vita, Schubert vendette i lieder del «Viaggio d'inverno», probabilmente i più belli che un musicista abbia mai composto, in ragione di un fiorino al pezzo, vale a dire quaranta soldi.
Mozart vendette almeno i suoi manoscritti? Ho il sospetto che li regalasse. Il Concerto per clarinetto, uno dei suoi capolavori, lo offrì a quello stesso Stadler a cui prestava cinquecento fiorini.
Nessuno saprà mai quante sue composizioni siano scomparse. Bisogna rassegnarsi: della sua opera avremo sempre una visione parziale e incompleta. Quando parlano di Mozart, è molto raro che due interlocutori abbiano in mente le stesse opere: uno pensa alla musica sacra, l'altro alla musica drammatica; uno, ai brani per organo, l'altro alle serenate per orchestra. Questo dialogo di sordi va avanti da due secoli, con gli uni che parlano della grandezza di Mozart e gli altri della sua frivolezza, gli uni che lodano la sua scienza musicale e gli altri il suo gusto popolare.
L'anno 1791 è segnato per Mozart da una serie di opere stupende. Dalla sua penna escono solo prodigi: due opere, «Il Flauto magico» e «La clemenza di Tito»; due grandi composizioni religiose: il «Requiem» e l'«Ave verum»; la cantata massone «Elogio dell'amicizia», il Concerto per clarinetto, l'ultimo Concerto per pianoforte e l'ultimo Quintetto ad archi.
Così Mozart, nel suo ultimo anno di vita, scrisse quanto altri compositori in tutta la loro esistenza. Nessun calo, nessun inaridimento della vena creativa; e l'opera che lo tenne occupato per quasi un anno, «Il Flauto magico», mostra con la sua straordinaria varietà di tono, la profondità delle scene religiose e la vivacità delle scene popolari, una ricchezza d'ispirazione che non ha paragone.
«Il Flauto magico» fu iniziato nel 1790, probabilmente verso la fine dell'estate, dietro commissione, come la maggior parte delle opere di Mozart, il quale scrisse quasi sempre quello che gli ordinavano, esattamente come un ebanista costruisce un tavolo o un cassettone per il cliente che glielo pagherà.
Autore della commissione era un attore-regista di teatro, Emmanuel Schikaneder, vecchio amico di Mozart. L'aveva conosciuto a Salisburgo, dove aveva diretto per tre o quattro stagioni il teatro aperto dal conte Colloredo, principe-arcivescovo. A Vienna, Schikaneder dirigeva una piccola sala di periferia, il teatro An der Wieden, a un quarto d'ora a piedi dal centro cittadino. Era una costruzione di legno che serviva a delle rappresentazioni popolari. Vi si recitavano drammi, commedie, operette, pantomime, e il pubblico era un buon pubblico di periferia che vibrava e non si faceva scrupolo d'intervenire di tanto in tanto nello svolgimento dei melodrammi.
Schikaneder, per esempio, aveva messo in scena un dramma su Agnese Bernaner, la fanciulla di Augusta che, nel XVI secolo, sposò il figlio del duca di Baviera. Il duca non voleva saperne di questo matrimonio segreto, perché il padre di Agnese dirigeva uno stabilimento di bagni, mestiere poco considerato a quel tempo. Approfittando di un'assenza del figlio, fece annegare Agnese Bernaner nel Danubio accusandola di essere una strega. Un giorno gli spettatori presero le parti dell'infelice con tale violenza che Schikaneder fu costretto a presentarsi davanti al sipario: «Signori» disse, «per riguardo al pubblico, questa sera, eccezionalmente, Agnese non sarà annegata».
Non si creda però che Schikaneder mettesse in scena solo sciocchezze. Accanto ai melodrammi popolari fu uno dei primi a presentare in Germania delle traduzioni di Shakespeare, ed ebbe l'ardire di rappresentare un dramma sulla mitologia scandinava, intitolato «Le avventure di Balder». In quell'occasione, mise in scena per la prima volta, cent'anni prima di Wagner, una cavalcata delle walkirie che fece un'enorme impressione al pubblico viennese. Non credo che Wagner ne fosse mai venuto a conoscenza, ma il particolare è divertente.
Le sue regie grandiose trasportavano Schikaneder in tutte le epoche e in tutte le parti del mondo, dalla Cina al Sudamerica. E così che aveva rappresentato a Salisburgo un vecchio melodramma di un certo Gebler, intitolato «Thamos, re d'Egitto». Questo Thamos non era altri che Thutmosi. Nel dramma si vedeva una fanciulla pura e bella, allevata segretamente da alcuni sacerdoti in fondo alla Grande Piramide e liberata da un principe innamorato. Il dramma contiene alcune espressioni di significato particolare; a un certo punto, una sacerdotessa dice: «Odo meravigliosi accenti di Flauto...», e il Gran Sacerdote esclama: «Quando appare il sole, le tenebre svaniscono!».
A quell'epoca, questa frase non era una semplice affermazione lapalissiana, ma aveva un significato recondito, poiché la parola tenebre significava superstizione religiosa... E la luce designava la dottrina massone.
La massoneria, alla fine del XVIII secolo, non era atea; riconosceva un Dio creatore dell'universo, sia sotto il nome di Grande Architetto, sia sotto quello di Grande Spirito, ma se trattava prudentemente con le autorità cattoliche, criticava nell'ombra delle logge la superstizione e l'intolleranza.
L'argomento del «Flauto magico» assomiglia molto a quello di Thamos, re d'Egitto, per il quale Mozart aveva scritto alcuni cori e interludi; ma qualsiasi cosa si sia potuta sostenere, nella partitura del «Flauto magico» non si risente assolutamente l'influsso di questa musica di scena composta da Mozart a vent'anni. Quando Mozart riprende soggetti simili ad altri già trattati, si può trovare qualcosa di familiare nella sua musica, ma mai delle rielaborazioni.
L'argomento del «Flauto» è molto ingenuo. Si ispira al vecchio «Thamos» e a un racconto arabo, adattato dal Wieland col titolo di «Lulù o il Flauto magico» nella sua raccolta orientale del Djinnistan. Esso narra le avventure del principe Tamino, che nel libretto è indicato come principe talora giavanese talaltra giapponese. Non guardiamo troppo per il sottile! Basta che sia originario di un paese abbastanza lontano perché la sua genealogia non figuri nel Gotha, se no la cosa potrebbe creare incidenti con le famiglie regnanti del Sacro Impero. C'è anche una principessa, Pamina, figlia della Regina della Notte e tenuta prigioniera dal mago Zarastro. Costei sarà liberata grazie a un talismano: un Flauto magico. Come si vede, è il fondo comune delle leggende orientali: anche se Wieland non avesse raccolto le novelle del Djinnistan, Mozart non avrebbe faticato a trovare soggetti analoghi in quelle Mille e una notte che gli aveva prestato la padrona dell'albergo in cui alloggiava a Roma nel 1770 e che egli aveva letto con appassionato interesse.
Quando già Mozart aveva incominciato a lavorare sul libretto, si verificò uno spiacevole contrattempo. Il teatro della Leopoldstadt, concorrente dell'An der Wieden, presentò con grandissimo successo un'opera intitolata «Kaspar, il suonatore di fagotto, o la cetra meravigliosa». Era difficile mettere in scena «Il Flauto magico» quando l'altro teatro presentava «La cetra meravigliosa». Bisognò fare dietro-front' e trasformare abbastanza radicalmente il soggetto, in modo che non si potesse accusare Schikaneder di avere fatto concorrenza ai teatro della Leopoldstadt.
Pressappoco nello stesso periodo si verificò un evento che preoccupò molto i massoni viennesi. Il personaggio più importante della massoneria del tempo, Ignaz von Born, direttore del museo imperiale di mineralogia, si ammalò gravemente e morì. Una vecchia tradizione narra che avesse fatto chiamare al letto di morte i suoi fratelli di massoneria, Schikaneder e Mozart, e avesse detto loro:

«La massoneria, perseguitata da Maria Teresa, fu incoraggiata dal suo successore, Giuseppe II, ma è di nuovo perseguitata dal nuovo imperatore Leopoldo. Vorrei che prima di morire mi deste la gioia di sapere che scriverete un'opera in sua difesa».

Non è che un aneddoto di dubbia autenticità, probabilmente apocrifo, ma è certo che l'opera, in partenza semplice racconto di fate, è diventata un'apologia della massoneria. La Regina della Notte, che nel primo atto era una madre che cercava di liberare la figlia perseguitata da un mago cattivo, strada facendo diventa un'incarnazione delle potenze occulte e malevole, mentre il Gran Sacerdote, dapprima temibile stregone, diviene un filosofo...
Pur essendosi così trasformata la sostanza dell'argomento, la meccanica dell'intrigo rimane la stessa. È con i talismani donatigli dalla Regina che Tamino farà il gioco del Gran Sacerdote Zarastro e libererà la fanciulla, non per restituirla alla Regina della Notte, ma per farne sua moglie, sotto il segno della luce e della filosofia.
Si è molto sparlato di questo libretto. È stato facile osservare che non reggeva, che questo principe che sviene al primo atto alla vista di una serpe è un personaggio ridicolo, che tutta la vicenda è incoerente. È vero. Il libretto manca di logica, ma non più di qualsiasi altro racconto di fate. Che significa per esempio la storia di «Pelle d'Asino»? Da trecent'anni ci si rompe la testa a cercare il significato di questa fiaba meravigliosa. Ma i bambini si pongono la questione? Ascoltano il racconto. Ne restano incantati. Lo conoscono a memoria e probabilmente una storia più ragionevole piacerebbe loro assai meno.
Del resto, coloro che, come me, ammirano profondamente il libretto del «Flauto magico», non certo come un'opera filosofica, ma come un pretesto per sognare, hanno l'avallo del più grande scrittore del XVIII e del XIX secolo, voglio dire Goethe.
L'autore del Faust ammirava talmente il Flauto, che nel 1798 incominciò a scriverne il seguito. Iniziò una seconda parte, in cui si vedeva il figlio del principe Tamino e della principessa Pamina ancora perseguitato della Regina della Notte. Se Goethe non terminò il libretto, fu perché si accorse che nessun musicista vicino a lui era in grado di svilupparlo. Ma nel frammento che ci resta leggiamo versi magnifici, questi per esempio:

«In questo solenne splendore Apparirai presto al mondo intero, E il tuo potere si estenderà fino al regno del sole.»

Si direbbe quasi che questi versi si riferiscano alla musica stessa di Mozart.
Nel giugno del 1791, Mozart lavora intensamente al «Flauto» e procede in fretta. Seguiamo le tappe della composizione attraverso le lettere che manda alla moglie, allora in campagna nella cittadina termale di Baden, a poche leghe da Vienna. Come sono puerili i suoi biglietti: «Ti mando mille e mille baci, cerca di acchiapparne due o tre che volteggiano attorno a te!». Fornisce dei particolari: il suo domestico è arrivato alle sei per accendere il fuoco, un giorno ha portato un buonissimo pezzo di lepre, un'altra volta un ottimo piatto di maiale alla griglia...
Racconta anche - e questo ci dà un'idea deprimente delle comodità viennesi - che i topi gl'impediscono di dormire di notte! Ma di tanto in tanto affiora un po' di tristezza. Si annoia da solo. «Quando penso», scrive, «con quanta gaiezza infantile trascorrevamo il tempo a Baden e come sono noiose e tristi le ore che passo qui! Perfino il lavoro non mi rallegra più, perché ero abituato ad alzarmi ogni tanto per scambiare due chiacchiere con te. Questo piacere, purtroppo, adesso è impossibile. Se mi metto al piano e canto un passaggio della mia opera, devo subito fermarmi. Mi fa troppo impressione... Ma è così».
Qui si colloca la storia, o la leggenda, del «Requiem». Guardiamoci dal prendere alla lettera tutto ciò che è stato scritto al riguardo, perché attorno a un fondo di verità si sono raccolti molti particolari inventati. Si legge un po' dappertutto che verso il mese di giugno del 1791, un messaggero vestito di grigio si presentò a Mozart con la richiesta di un Requiem che doveva comporre senza sapere a chi fosse destinato. Pare che, impressionato dal visitatore che non voleva dire il suo nome, Mozart lo credesse un emissario del'aldilà, convincendosi che il Requiem che questi lo incaricava di scrivere fosse destinato alla sua messa funebre.
Penso che tutto ciò sia stato o inventato o molto ricamato dal Da Ponte, il librettista del Don Giovanni che nelle sue «Memorie» pubblicò una pretesa lettera di Mozart, a lui indirizzata, in cui il maestro parla di questo sconosciuto come di un incubo.
Mozart, stanco e malato, fu sgradevolmente impressionato dal soggetto del Requiem che doveva scrivere; le idee tetre che faceva nascere nel suo spirito il testo del «Dies Irae» e tutte le evocazioni sinistre della messa dei morti pesarono su di lui dandogli il presentimento della fine imminente.
Adesso si sa chi aveva ordinato il «Requiem». Era un certo conte Walsegg-Stuppach che aveva appena perso la moglie. Compositore dilettante, aveva ordinato spesso delle opere che poi faceva eseguire col suo nome. Questo genere di dilettanti è scomparso al giorno d'oggi, ma la cosa era normale cent'anni fa, e ancor più nel XVIII secolo: anche Beethoven scrisse un balletto su richiesta di un certo conte Wieden.
Si ritrovò anche il messaggero, che si chiamava Antonin Leitgeb, ed Erich Schenk, l'ultimo biografo tedesco di Mozart, ne pubblicò il ritratto. Osservando la sua figura lunga e smilza, dal naso appuntito e le labbra sottili, vien fatto di pensare al personaggio di un romanzo di Chamisso, scritto trent'anni dopo, a quell'ometto anche lui vestito di grigio, che compra l'ombra di Pietro Schlemihl rendendolo molto infelice. Il povero Pietro non immaginava quanto un uomo possa aver bisogno della propria ombra. Quel Leitgeb era già un personaggio hoffmanniano e, adesso che ho visto il suo ritratto, capisco che la sua apparizione abbia turbato Mozart.
Per qualche mese, Mozart fu perseguitato dalle visite del messaggero che gli chiedeva a che punto era il lavoro. Non avanzava, perché in luglio, in piena composizione del «Requiem» e completamento del «Flauto», Mozart ricevette un ordine di cui avrebbe fatto volentieri a meno, la commissione di un'opera da dare a Praga per l'incoronazione dell'imperatore Leopoldo a Re di Boemia, su libretto del Metastasio: «La clemenza di Tito», opera rappresentata assai di rado, tanto il libretto è scialbo e banale.
Il viaggio a Praga fu stancante. Tito non ebbe alcun successo e la giovane imperatrice definì l'opera una «porcheria tedesca», espressione particolarmente colorita nella bocca dell'imperatrice di Germania! Mozart tornò scoraggiato a Vienna verso il 15 settembre.
Per il racconto delle sue ultime settimane di vita, citeremo testimonianze autentiche, traducendone il testo parola per parola, perché nulla potrebbe sostituire le confidenze dei testimoni oculari.
Innanzitutto, riguardo allo stato di salute di Mozart al ritorno da Praga, ecco la testimonianza del buon Joseph Deiner.
Mozart, racconta, andava spesso da lui. Stava in una saletta dove c'erano tre tavolini. I muri erano dipinti a fogliami. Mozart stava seduto con la testa appoggiata alla mano destra.
Al ritorno dalla Boemia, in novembre (qui Deiner si sbaglia; nei suoi racconti troviamo spesso errori di data: ci si ricorda facilmente le circostanze di un fatto, ma è più raro che ci si ricordi la data con sicurezza), al ritorno dalla Boemia, dunque, Mozart è stanco, coi capelli in disordine.
«Ho sentito dire» fa Deiner, «che lei era a Praga. L'aria dela Boemia non le ha fatto bene. Si vede. Adesso, beve vino e ha ragione: probabilmente ha bevuto troppa birra in Boemia, che le ha rovinato lo stomaco».
«Il mio stomaco sta meglio di quel che credi! Ho già imparato a digerire un bel po' di cose».
«Tanto meglio. Tutte le malattie vengono dallo stomaco, come diceva il mio generale Laudon quando eravamo all'assedio di Belgrado e l'arciduca Francesco era malato da qualche giorno. Ma oggi non voglio parlarle della musica turca, di cui ha già riso tante volte!»
«No,» risponde Mozart. «Sento che presto sarà finita con la musica. Sento un freddo che non capisco. Deiner, finisca il mio vino, prenda questa moneta e venga domattina da me. L'inverno è in arrivo e abbiamo bisogno di legna. Mia moglie andrà a comprarne e accenderemo subito il fuoco».
L'indomani mattina alle sette, Deiner andò da Mozart. Bussò all'uscio dell'appartamento e la cameriera lo informò che il padrone era stato molto male e che lei era dovuta andare a cercare un medico durante la notte. Fecero entrare Deiner nella camera: Mozart era disteso a letto, sotto una coperta bianca, in un angolo della stanza. Sentendo parlare Deiner, aprì gli occhi e disse con voce debolissima: «Joseph, non combineremo niente oggi, abbiamo a che fare con medici e speziali». (Era una battuta, un'allusione al titolo di un'opera comica dell'epoca, «Medici e speziali» del Dittersdorf).
Citiamo anche i ricordi di Sophie, la giovane cognata di Mozart, sorella minore di Costanza. Nel 1825, molto più tardi, sposata a un maestro di cappella a nome Haibl o Heibl, scrive a Niessen, il secondo marito di Costanza, per narrargli le circostanze della morte di Mozart. Il suo racconto ha una freschezza popolare e una vivacità di colori sorprendente. Sembra veramente di sentirla parlare:

«Mozart veniva spesso al borgo della Wieden, dove abitavo con mia madre. Portava sottobraccio un involto con dello zucchero e del caffè, e lo dava alla nostra buona mamma dicendole: "Ecco, cara mamma, una merendina per lei," e lei era felice come una bambina. Questo accadeva spesso. Insomma, Mozart non veniva mai da noi a mani vuote.
Bene, quando Mozart si ammalò, gli facemmo tutte e due una camicia da notte che poteva mettere dal davanti, perché il gonfiore del corpo gli impediva di voltarsi. E siccome non sapevamo quanto fosse gravemente malato, gli avevamo fatto anche una vestaglia imbottita (per la quale sua moglie ci aveva dato la stoffa), perché potesse stare a suo agio quando si sarebbe alzato. E andavamo regolarmente a fargli visita. Si mostrò contentissimo della vestaglia. Tutti i giorni andavo in città a trovarlo. Un sabato, appena arrivata, mi disse: "Cara Sophie, dica alla mamma che sto benissimo e che in settimana andrò da lei a farle gli auguri di buon onomastico"».
Come vive Mozart durante la malattia? È a letto, ma continua a lavorare regolarmente. A1 capezzale c'è il fedele allievo Sussmayer e qualche volta altri musicisti. Sull'orologio, il compositore segue l'orario della rappresentazione del «Flauto magico» in corso all'An der Wieden e annuncia ai compagni: «Adesso, c'è l'aria dell'Uccellatore... Adesso, c'è quella della Regina della Notte...».
Ma riprendiamo il triste racconto di Sophie:

«Il 5 dicembre era domenica. Ero giovane e, lo confesso, civetta, e quando ero ben vestita non mi piaceva andare a piedi dal nostro borgo in città, ma preferivo prendere una carrozza che costava molto. Così, dissi alla mamma: "Mammina, oggi non vado da Mozart, un giorno di più o un giorno di meno non fa differenza." Lei mi rispose: "Sai cosa, preparami una tazza di caffè, poi ti dirò che cosa fare..." Andai in cucina, accesi il lume e il fuoco, ma il pensiero di Mozart non mi usciva dalla testa. Il caffè era pronto. Il lume ardeva bene... Lo guardavo fisamente pensando: "Mi piacerebbe sapere che cosa fa Mozart," e intanto che me lo chiedevo fissando il lume, questo si spense come se non avesse mai bruciato, senza che restasse una sola scintilla sullo stoppino. Non c'era nessuna corrente d'aria, posso giurarlo. Fui scossa da un brivido. Corsi dalla mamma e le raccontai la cosa: "Su," mi disse, "vestiti in fretta e vai là. E portami subito notizie, non far tardi! "
Mi affrettai il più possibile. Ah! Dio! Che spavento, quando mi venne incontro mia sorella, mezza disperata, ma che cercava di mostrarsi calma: "Dio sia lodato, cara Sophie, eccoti qui! Stanotte è stato così male che ho creduto che non avrebbe passato la giornata. Resta con lui oggi, perché se sta ancora così male, stanotte muore. Va un po' da lui a vedere cosa fa". Andai da lui, che mi chiamò subito: "Ah, eccola qui! Ha fatto bene, cara Sophie. Deve restare stanotte. Deve vedermi morire" Volevo mostrarmi forte per togliergli quest'idea, ma lui mi rispose: "Sì, ho già in bocca il sapore della morte, e chi starà accanto alla mia cara Costanza se lei non rimane?"
"Sì, caro Mozart, ma devo tornare da mia madre per dirle che mi vuole qui con lei, se no penserà che è accaduta una disgrazia".
"Sì, vada, ma torni presto".
La mia povera sorella mi seguì e mi pregò, per amor di Dio, di andare dai preti di San Pietro a pregare uno di loro di passare da lei come per caso. Ci andai, ma quelli si rifiutarono per un bel po' e feci una gran fatica a convincere uno di quei mostri ecclesiastici (sic)».
Sophie andò da sua madre, poi tornò da Mozart, ed ecco la sua relazione dell'ultima notte.

«Sussmayer era accanto al letto. Sulla coperta era appoggiato il 'Requiem' e Mozart gli spiegava come doveva terminarlo dopo la sua morte. Poi disse alla moglie di tener nascosta la sua morte finché non avesse avvisato Albrechtsberger, che si doveva occupare di tutto ciò che riguardava Dio e gli uomini.
Si cercò a lungo il dottor Closset e lo si trovò a teatro, ma questi volle aspettare la fine dello spettacolo. Poi venne e fece mettere degli impacchi freddi sulla testa di Mozart che scottava. Questi lo scossero talmente che perse conoscenza e non la riprese più fino alla morte. Il suo ultimo segno di vita fu di cercare di imitare con la bocca i timpani del 'Requiem'. Mi par di sentirlo ancora.
Al mattino arrivò Muller, del Gabinetto artistico. Prese un'impronta in gesso del suo viso impallidito».
Torniamo ai ricordi di Deiner, che ci danno qualche particolare sulle giornate successive alla morte.
Il 6 dicembre, alle cinque del mattino, la cameriera Elisa sveglia il taverniere: «Deve venire a vestire il nostro padrone».
Al che, Deiner: « Mica per andare a passeggio?»
«No, è morto un'ora fa. Si sbrighi».

Il corpo di Mozart, vestito con la tunica nera di una confraternita di penitenti, fu esposto nello studio, accanto al pianoforte. L'uffcio funebre ebbe luogo l'indomani presso la cattedrale di Santo Stefano, nella cappelletta della Croce, alle tre del pomeriggio. La sepoltura, un funerale di terza classe, costò 3 fiorini e 36 kreutzer, più 3 fiorini per il carro funebre.
Faceva un tempo orribile. «Cadeva una pioggia mista a nevischio, come se la natura si fosse adirata con i contemporanei del musicista, presenti in numero così esiguo al suo funerale». Solo qualche amico e tre donne accompagnarono la salma; Costanza Mozart era assente. Le poche persone del corteo, sotto gli ombrelli, circondavano il carro funebre che, percorrendo la grande Schulerstrasse, si recava al cimitero di San Marco. Siccome la tempesta si faceva sempre più violenta, allo Stubenthor gli amici fecero dietro-front' e andarono a ripararsi da Deiner. L'indomani, questi si recò dalla vedova per chiederle se non voleva far mettere una croce sulla tomba, ma Costanza rispose: «Ce n'è già una».
In realtà, né Costanza né nessun altro s'era occupato della cosa.
La morte del musicista provocò un'ondata di scandali e di maldicenze. «Il messaggero segreto», gazzettino di notizie copiate a mano e molto diffuso a Vienna, raccontò che Mozart lasciava incompiuto un seguito del «Flauto». Il cancelliere Hofdemel, la cui moglie era un'allieva del compositore, le diede una coltellata al viso e poi si suicidò. Si affermò che il dramma era stato causato dalla gelosia e che, dopo la morte di Mozart, il cancelliere era venuto a sapere che il maestro era l'amante della signora Hofdemel.
In seguito, nel 1799, quando ci si preoccupò di ritrovare la tomba del musicista, tutte le ricerche risultarono vane, per via delle esumazioni e risepolture che avevano avuto luogo, e nel 1808 il «Foglio patriottico per la capitale austriaca» esclamava: «Buon Mozart, avevi innalzato un monumento al canarino che amavi, nel giardino che ammiravi, e avevi composto tu stesso il suo epitaffío Chi farà per te ciò che tu avevi fatto per il tuo uccellino?».
Costanza Mozart aveva scritto nell'agenda di suo marito, alla data del 5 dicembre: «Ch'io possa raggiungerti presto per l'eternità».
Lo raggiunse, ma il 6 marzo 1842, cinquantun anni dopo.
Non infieriamo su di lei. Era una donna futile e frivola, ma non rese Mozart infelice. Evidentemente non aveva capito nulla del suo genio e, quando si risposò, cadde per fortuna su un uomo più intelligente di lei, il consigliere Niessen, che ebbe l'idea di scrivere la prima biografia di Mozart. Ma si direbbe che un destino fatale pesasse sulle vestigia del musicista più geniale: la maschera funeraria presa da Muller cadde e si ruppe, e i cocci finirono nella spazzatura; la tomba è perduta; non c'è nessun discendente dei figli di Mozart che gli sopravvissero, cosicché sulla terra non rimane nessuna traccia materiale del passaggio del musicista. Quanto al preteso cranio di Mozart esposto a lungo a Salisburgo, nulla ne provava l'autenticità.
Dopo il fiasco della «Clemenza di Tito», un viaggiatore tedesco, il Kleist, cugino dell'autore del «Principe di Homburg», scriveva: «Che importa, intere generazioni ammireranno Mozart, quando il corpo dei re e degli imperatori non sarà altro che polvere». Anche il corpo di Mozart è ritornato polvere, e persino questa polvere è scomparsa. Si direbbe che Mozart sia andato a fondersi nella fonte misteriosa e nascosta di tutto ciò che è pensiero, di tutto ciò che è arte. Dianzi rammentavo che Goethe era stato ispirato dal «Flauto magico»: egli non terminò il libretto cominciato, ma lo continuò sotto un'altra forma. Poco dopo aver abbandonato il progetto di un seguito del «Flauto», riprese il «Faust» per scriverne genialmente la seconda parte, dove troviamo una scena su cui si è sbizzarrita la fantasia dei commentatori: è quella in cui Faust discende presso le Madri.
Le Madri... nome dalle strane risonanze. Divinità sotterranee, custodi e fonti delle idee, pressappoco quello che ai giorni nostri Jung chiamerà gli archetipi: i pensieri che vengono da non si sa quale retaggio ancestrale, che sono in fondo a noi, ma che, quando per caso i nostri pensieri li incontrano, riecheggiano come campane e le loro vibrazioni ci riempiono tutta l'anima.
Le Madri ci fanno pensare alle divinità egiziane che, secondo i sacerdoti di Ermopolis, formavano le quattro coppie col nome di Notte, Ombra, Mistero, Eternità: coppie primordiali che generarono gli dei della luce.
Mi ricordo di aver visitato molto tempo fa, a Abydos, la cosiddetta tomba di Osiride. È nota la leggenda di Osiride, fatto a pezzi dal crudele Tifone, e di sua madre Iside che ne ricompose pazientemente il corpo a brandelli, tanto che Osiride, risuscitato, rivive in eterno.
Si scende in questa tomba per un corridoio inclinato in cui si vedono figurazioni pittoriche del Libro dei morti, che mostrano il cammino percorso dall'anima nell'altro mondo. Giunti in fondo, ci si trova in un ipogeo oscuro dove non si distingue nulla. Allora il custode prende una specie di tamburo su cui ha fissato della carta d'argento sgualcita e lo espone ai raggi del sole, in modo che la luce vi si rifletta come su uno specchio. Allora, si scorge sulla volta il corpo sovrastante, lungo otto metri, della dea Nut. Le gambe sono a un'estremità del sotterraneo, la testa all'altra, e questo corpo gigante raffigura la volta stellata del cielo.
Gli scultori che, più di tremila anni fa, in questo ipogeo di Abydos, in cui non penetrava luce e nessuno entrava, scolpirono questa figura sublime di donna, che nessuno sguardo profano avrebbe mai sfiorato se l'impero egizio non fosse crollato come crollano tutte le cose umane, questi scultori, dicevo, avevano la certezza che l'immagine di Nut avesse un potere magico: finché la dea fosse rimasta lì, a coprire il mondo col suo corpo immenso, il sole avrebbe continuato il suo corso e alla Notte sarebbero succedute le resurrezioni del mattino.
Credo che l'arte sia questo, e non il mestiere che si riduce a imbrattar tele e portarle dal mercante prima ancora che i colori siano asciugati.
L'arte veglia nella solitudine e nella notte, come Mozart al piano, come Michelangelo davanti al blocco di marmo che sbozzava a colpi di scalpello. A tentoni nelle tenebre, nel dubbio, nel dolore, essa crea, per la gioia degli uomini, opere di luce.
Jean Mistler, «Cari agli Dèi. Vite brevi di musicisti illustri [Mozart, Weber, Donizetti, Musorgskij, Chausson, Wolf e Berg], Milano, Editoriale Nuova, 1982, pp. 9-32.