Jean Mistler

GAETANO DONIZETTI
CARO AGLI DEI


Stendhal adorava Rossini, ma non amava affatto Donizetti: conosceva bene entrambi e le loro opere, e viene da chiedersi come mai facesse tanta differenza tra loro. Ma i dilettanti hanno i loro capricci, sia a teatro, quando acclamano una prima donna e ne fischiano un'altra, sia nei loro articoli o nei libri: in qualsiasi spettacolo, c'è un'atmosfera di battaglia e, spesso, come nelle arene spagnole, una condanna a morte.
Gaetano Donizetti, di cinque anni più giovane di Rossini e di quattro più vecchio di Bellini, si disputò con loro per un quarto di secolo tutti i grandi teatri d'Italia, di Francia e di Germania. Lasciò settantun opere tra serie e buffe, perché fu, con Rossini, uno dei rarissimi compositori di successo in entrambi i generi. [...]
Gaetano Donizetti nacque a Bergamo nel 1797, «sottoterra», come amava ripetere, cioè in uria cantina al numero 10 di Borgo Canale. Si scendeva in questa topaia con una scala. A nove anni, suo padre, un umile impiegato, lo mandò alla scuola di musica amministrata dalla Congregazione della carità, dove si allevavano gratuitamente i piccoli cantori per i cori delle chiese. Benché dotato di una voce bianca assai mediocre, che dopo lo sviluppo diventò una voce bassa dal timbro opaco e gutturale, il giovane Donizetti fu tenuto alla scuola per le sue doti musicali eccezionali. Aveva cominciato a comporre a quindici anni e quando ne ebbe diciotto, nel 1815, fu mandato a Bologna per seguire studi più seri al conservatorio.
A vent'anni, partì per Venezia, dove prestò il servizio militare in un reggimento austriaco. La sua prima opera, «Enrico di Borgogna», fu rappresentata al teatro San Luca il 14 novembre 1818: probabilmente fu la prima ed ultima volta che si vide un maestro dirigere l'orchestra con indosso l'uniforme del soldato semplice! D'ora in poi, Donizetti affronterà ogni anno le luci della ribalta con due o tre opere nuove, che talora fanno fiasco, talaltra sono applauditissime.
Nel 1821, il musicista va a Roma, portandosi in valigia un'opera seria, «Zoraide di Granata», che dà al teatro Argentina. Poi è la volta di Napoli, al celebre San Carlo.
Di tanto, in tanto, torna a Bergamo; e talvolta certe sue opere non trovano un produttore, come la Gemma di Vergy, ma Donizetti sa ripescarle più tardi nei suoi cassetti per ricavarne un'altra versione.
Nel 1827, Donizetti scriveva al padre di essersi fidanzato con una giovane romana, Virginia Vasselli «Meglio di cosi al certo non avrei trovato riguardo a carattere; non dirò bellezza, perché quella dura poco». E aggiunge: «Ora sappiate che danno 2000 colonati pagabili in tre anni, cioè per tre anni ancora non si gode che il sei per cento». Ma la ragazza ha un migliaio di scudi in mobili e argenteria, per cui egli conclude: «Dunque mi pare, che un uomo che non ha un soldo possa sposarla».
Negli anni che seguirono, Donizetti fece rappresentare, in una mezza dozzina di teatri italiani, due dozzine buone di opere. Da parte sua, il fratello maggiore Giuseppe, direttore musicale in un reggimento austriaco, partì per Costantinopoli: là, divenne direttore di musica del sultano e andò in pensione col grado di generale di brigata. Gaetano, che gli voleva molto bene, lo chiamava «Il mio fratello turco»: due fratelli che, pur non vedendosi mai, erano uniti da un solido affetto!
Dopo il successo dell'«Anna Bolena», rappresentata a Milano, e quello della «Lucrezia Borgia», pure rappresentata alla Scala, nel 1835 Donizetti assisté a Parigi al trionfo dei «Puritani» di Bellini... Povero Bellini, morto di tisi in quello stesso anno 1835, a trentaquattro anni!
Virginia Vasselli diede tre figli a Donizetti, ma morirono tutti e tre in fasce. Lei stessa scomparve in giovane età, a ventinove anni, rapita dall'epidemia di colera che a Roma, nel 1837, falciava duecento persone al giorno.
Dividendosi tra Venezia, Milano, Roma e Napoli, Donizetti aveva pensato di stabilirsi definitivamente in quest'ultima città: vi teneva lezioni al Conservatorio reale e gli avevano fatto sperare che ne avrebbe ottenuto la direzione. Donizetti aveva comprato per cinquemilaseicento ducati (circa venticinquemila franchi) un bell'appartamento in via Nardone e, di là, si portava in tutto il resto dell'Italia. I viaggi tuttavia diventavano sempre più difficili per i provvedimenti sanitari di quarantena presi dai vari governi italiani per impedire la diffusione del colera. Talvolta, poi, si verificavano altri inconvenienti: fu così, per esempio, che nel 1836 a Venezia bruciò il teatro della Fenice e l'opera scritta da Donizetti sulla Pia de' Tolomei, pronta a venir rappresentata, fu data soltanto su una scena secondaria, quella dell'Apollo.
Uno dei più vecchi amici del maestro, Michele Accursi, rifugiato in Francia a seguito delle cospirazioni mazziniane, cercava da molto tempo di attirare Donizetti a Parigi. Il musicista finì per arrendersi alle sue preghiere, poiché Duponchel, direttore dell'Opéra, gli aveva commissionato un'opera, ma rifiutò il libretto di Scribe: «Non son che cose guerriere», scriveva, «ed io voglio affetti e non battaglie in scena».
Al termine di un breve soggiorno al numero 5 di rue Louvois, nella casa abitata dal musicista Adolphe Adam, Donizetti alloggiò in seguito a palazzo Manchester, che esiste ancora, all'angolo di rue de Gramont, e ha conservato l'aspetto vecchiotto del cortile interno, rimasto identico a quello che Donizetti aveva potuto vedere un secolo e mezzo fa.
Dopo successi come quelli dell'«Elisir d'amore» e della «Lucia di Lammermoor», il silenzio in cui si rinchiudeva Rossini e la morte di Bellini lasciarono incontestatamente a Donizetti il primo posto fra i compositori italiani. Per una decina d'anni, la sua fecondità fu prodigiosa. Dopo la «Lucia», verranno la «Lucrezia Borgia» e «La favorita», nel genere serio, mentre in quello dell'opera buffa, dopo «L'elisir d'amore», avremo il «Don Pasquale», per non dimenticare le opere comiche francesi, come «La figlia del reggimento»; e poi le messe, i requiem e le numerose altre opere di musica sacra, oltre ai brani per pianoforte e le melodie raccolte in album o tuttora inedite - la nostra Biblioteca del Conservatorio ne conserva da sola una buona quarantina! In totale, l'opera donizettiana comprende 611 numeri e probabilmente se n'è dimenticato qualcuno!
Un garbato romanzo di René Swennen, «Don Sebastiano», descrive in maniera molto pittoresca la vita parigina del compositore. Lo vediamo ai balli e negli ambienti alla moda, mentre intreccia e scioglie tresche fugaci nei corridoi dell'Opéra, dell'Opéra-Comique e del Théatre des Italiens. Pare la Vita parigina di Offenbach con vent'anni d'anticipo: Amore, no, ma lo sostituiva bene! Questi legami, queste avventure, in cui il romanziere ha dato libero corso alla sua immaginazione, ci ricordano assai quelle di cui ci ha lasciato testimonianza l'Epistolario di Mérimée, ma purtroppo finiranno molto prima e peggio per il musicista che per lo scrittore.
Una severa censura familiare ha cancellato ogni traccia delle donne di mondo, delle cantanti, delle ballerine o semplicemente delle donnine che amarono o furono amate da Donizetti. Al contrario, grazie all'Epistolario pubblicato da Guido Zavadini e comprendente oltre settecento lettere, di cui molte prima inedite, siamo ben informati sul dramma degli ultimi anni del compositore, colpito dal male terribile che nel XIX secolo fece tante vittime tra gli artisti e gli scrittori, da Hoffmann a Baudelaire e Maupassant.
Nel 1843, gli amici di Donizetti attribuirono l'estrema stanchezza e i mali di testa di cui si lamentava allo strapazzo provocato dalle prove contemporanee del «Don Sebastiano» all'Opéra e della «Maria di Rohan» agli Italiens. Il tenore Duprez, protagonista del «Don Sebastiano», scrisse nei suoi «Souvenirs d'un chanteur»: «Donizetti era sempre in attività: non riusciva a tenersi in tasca quattro versi senza metterli subito in musica, stando in piedi, camminando, mangiando o riposando».
Apprezzato tanto come direttore d'orchestra che come compositore, andava e veniva tra Parigi, I'Italia e Vienna, dove l'imperatore l'aveva nominato Kapellmeister di Corte («come un tempo Mozart», amava ripetere). Malato, scherzava ancora, e scriveva al cognato:
«Io, post opera dataram, tombatavam maladarum, et testarum mearum giravam sicuto girellarum, et parabavam un imbriacarum. Doctoravam me pregavam ut per temporarum multarum nihil travaliarum, quia testaram indebolitaram est».
Credo di poter tradurre, senza troppi rischi, così: «Dopo aver dato la mia opera, caddi malato, la testa mi girava come una trottola, e parevo un ubriaco. I dottori mi pregarono di stare per molto tempo senza lavorare, perché la mia testa è indebolita». (Scritto probabilmente nel novembre del 1843, molto prima del cosiddetto gergo giavanese!)
Il 31 dicembre 1842, Donizetti era stato nominato corrispondente straniero dell'Accademia di Belle Arti francese. Attese più di un anno prima di inviarle da Vienna un rapporto sulla musica italiana e la musica tedesca, «tra le quali la scuola francese potrebbe tentare una specie di riconciliazione». Queste idee, assai poco originali, furono applaudite dai musicisti presenti alla seduta: Spontini, Carafa e Halévy.
Ma la malattia seguiva il suo corso: «I miei capelli grigi cadono », scriveva, e nello stesso tempo perdeva due incisivi e due molari! Un viaggio in Italia gli aveva dato per un po' l'impressione di un miglioramento di salute, ma l'illusione svanì presto. Alloggiato a Roma, presso la famiglia del cognato, scriveva: «Ho lasciato la mia gaiezza [a Napoli]. Torno tristo... torno a restar in casa la giornata intera».
Autoritratto
Il 6 febbraio 1845, dirige a Vienna la prima del «Don Sebastiano», tradotto in tedesco, e l'indomani scrive a un suo amico, in un misto di italiano e francese: D. Sébastien dirigé par l'auteur, qui ne sait pas un mot d'allemand. Immaginati i sudori, Alfine eccoci».
In marzo, in uniforme rossa di gala, dirige un concerto alla Corte imperiale. In mezzo agli scambi di lettere con l'Opéra e il Théatre des Italiens a Parigi, fa erigere al cimitero di Poggioreale una tomba di famiglia in cui farà trasportare il corpo della cara Virginia, mia moglie adorata rapita nel fiore degli anni, come dice l'epitaffio da lui stesso redatto.
In agosto, è a Parigi. Consulta medici celebri, in particolare Andral e Philippe Ricord, che gli prescrivono infusioni di arnica e un trattamento dolorosissimo: un vescicante sulla nuca, poi venti sanguisughe dietro le orecchie. «Soffro», scrive. «Il chirurgo questa mattina scopre, strappa, taglia. [...] La malinconia mi prese [...]. Fingere allegrezza colle lacrime in core. [...] I miei nervi sono così adirati, che cado dal letto la notte, e parmi, che il letto si rivolti sopra di me. Non so se vivo ancora, poiché cado con la testa in giù senza ajutarmi con le mani, come strangolato. Tengo il servo nella camera a dormire adesso ». (Lettera del 2 ottobre 1845).
Suo cognato Vasselli, allarmato dalle notizie che gli arrivano indirettamente da Parigi, il 22 ottobre scrive a Giuseppe Donizetti a Costantinopoli perché faccia assolutamente ritornare il fratello in Italia. «Cinque lettere caldissime gli ho scritto [...], ed egli non mi rispose. Io sarei volato da lui, ma non posso. Andate voi a salvarlo». Giuseppe ricevette questa lettera il 5 novembre e mandò subito a Parigi il figlio Andrea, che arrivò soltanto il 25 e s'installò a palazzo Manchester, dove alloggiava Gaetano.
Andrea sollecitò subito alla Corte di Vienna un congedo per lo zio, che naturalmente fu concesso. Nel frattempo chiedeva consiglio a Ricord, il quale, pur ritenendo «il viaggio in Italia necessario per la salute del malato», aggiungeva: «La cattiva stagione in cui ci troviamo non permette la sua partenza immediata». Andrea chiese allora un consulto di tre medici, i dottori Ricord, Calmeil e Mitivié. Questi visitarono il malato il 28 gennaio 1846 e redassero un referto in cui si dichiarava che il suo stato di salute sarebbe peggiorato se non fosse stato curato e in cui si concludeva sulla necessità di internarlo in un istituto specializzato.
L'amministrazione prefettizia decise subito di internare Donizetti nel manicomio di Ivry, diretto dal dottor Moreau e di proprietà del dottor Mitivié. Ma si disse la verità solo al nipote, mentre la si nascose al bravo domestico viennese, Antony, e si fece credere a Donizetti che la Corte di Vienna lo reclamava per il 12 febbraio e che ve lo si sarebbe condotto in carrozza.
In conformità a questo piano, il 1° febbraio, verso le dieci del mattino, una diligenza in cui si trovavano il nipote Andrea e il dottor Ricord, andò a prendere Donizetti a palazzo Manchester. Senza sospettare alcunché, il musicista salì in carrozza con il domestico e i bagagli. Poco prima di mezzogiorno, si giunse a Ivry. La diligenza si fermò davanti alla porta del manicomio, con la scusa di una riparazione urgente da fare. «Siamo proprio di fronte a un ottimo albergo», raccontarono al poveretto. «Dovrete attendere qui il tempo necessario per riparare la carrozza».
Donizetti restò solo.
Ignoriamo come suo nipote Andrea e il dottor Ricord si congedarono da lui, e non sappiamo neppure come fu messo da parte il domestico, ma, quando fu trascorso il tempo normalmente necessario per una riparazione della carrozza, si andò a raccontare al malato che una parte dei suoi bagagli era stata rubata, che avevano arrestato Antony e che l'inchiesta di polizia rischiava di durare a lungo.
Nella sua notevole edizione dell'Epistolario di Donizetti, Guido Zavadini non è indietreggiato di fronte alla pubblicazione delle lettere scritte dal musicista durante il soggiorno a Ivry. Ha avuto pienamente ragione. Sono deliranti, certo, ma formano un documento straordinario su un tracollo mentale in cui restava soltanto qualche barlume di lucidità.
Funzionario della Corte di Vienna (aveva il rango di consigliere aulico), Donizetti naturalmente cerca la protezione della contessa e del conte Appony, ambasciatore d'Austria a Parigi. Nei pezzi di carta che imbratta di scarabocchi informi vediamo come lavora nella sua mente la storia assurda del furto inventato dai medici. Il 5 febbraio, per esempio, manda questo biglietto alla contessa Appony: «Pietà; pietà! M'hanno arrestato; perché? - Il servo, pare che fosse un ladro. - Tenetevi la carrozza; ma, arrestarmi anco me? nella mia carozza? Rubbare? ... infamarmi! ... è errore!
«Intanto; attendo la vostra pietà:

Donizetti».

Dopo aver firmato, riprende, più in basso, sullo stesso foglio, vaneggiando su un'altra menzogna che gli hanno propinato:
«Devo di questo mese avanti la metà, esser Viennese. - pietà; pietà; sono innocente! la carozza è mia. - Devo trovarmi in Vienna pel 12. - Oh! Voi sola, Contessa, sapiate che devo fare una Messa per la R. I. Capella della Corte a Vienna. [...] «Fate subito cessar le mie lagrime: la carozza è mia; ma fatemi sortire. [...]».
Il 7 febbraio, scrive al suo amico d'infanzia, il musicista Dolci di Bergamo e, in mezzo alle lamentele per l'arresto di Antony e il furto dei bagagli, leggiamo frasi di questo genere: « Fateci i miei complimenti, è Appony!... [...] qualche volta dateci un divertimento, che io pago. Dàteci le più belle cose [...] Bravo... ma bravo!!! I vini, ah: i più boni; la pensione; pensione; - la pago io...!»
Lo stesso giorno, supplica di nuovo la contessa Appony: «Signora, venga a Ivry tra un'ora. Sono arrestato anch'io... Rinchiuso peggio d'un cane. Venga! Quattro ore di viaggio. Antony è in prigione. Oh! come piango, sono innocente. Porti un certificato di Ricord».
Qualche settimana dopo, in maggio, troviamo quattro biglietti che G. Zavadini, rinunciando a decifrarli, ha pubblicato in facsimile. Con le loro righe che cadono in giù come sassi, gli sgorbi d'inchiostro e le parole mozze, sono nello stesso tempo illeggibili e tragicamente rivelatori. Ma ancor più densa di significato, è la spaventosa fotografia presa intorno a questa data in cui Donizetti, seduto accanto al nipote, pare, nella sua prostrazione, un morto vivente!
Nel settembre del 1846, Andrea Donizetti ripartì per Costantinopoli. Passando da Bergamo, raccontò che lo zio era agli estremi, che non parlava più e che bisognava nutrirlo «con una macchina». Si pensò che esagerasse, ma è certo che Donizetti passava le giornate nella sua camera umida e mal riscaldata, al pianterreno del manicomio di Ivry, seduto su una poltrona: avvolto nel cappotto foderato di pelliccia, le mani nascoste in un manicotto, l'occhio fisso o le palpebre chiuse, sembrava che dormisse - immagine stessa della paralisi generale.
La vicenda aveva provocato una certa emozione a Parigi. Qualche visitatore, il suo agente e collaboratore Accursi, il tenore Duprez e la contessa di Loewenstein intervennero presso le autorità. Dal canto suo, il barone Edouard de Launoy, il 22 gennaio 1847 scrisse a Giuseppe Donizetti una lunga lettera, in cui spiegava che se l'internamento del musicista era parso necessario ai medici l'anno prima, ora no lo era più: «Non può più camminare», scriveva Launoy, «senza essere sostenuto dai suoi due custodi, e non può perfino alzarsi da sedere senza il loro aiuto; per conseguenza non gli è più possibile abusare della sua libertà. Ei s'estingue a poco a poco, la paralisi fa dei progressi lenti sì, ma continuati. Non si può ormai più sperare di salvarlo, ma ciò che si può, ciò che si deve fare si è di rendere gli ultimi mesi della sua esistenza meno lugubri, meno malinconici.
«Egli è ancora sensibile alla presenza de' suoi amici, il suo sguardo si anima, si sforza di parlare, sorride e piange. Il dottor Moreau dice che le visite che riceve gli tornano piuttosto salutari che nocive; ora per andare a Ivry e restare un'ora col povero ammalato bisogna impiegarne cinque, le vetture sono care, l'infelice Gaetano resta troppo lungo tempo abbandonato a' suoi soli custodi». Il barone prosegue spiegando che a Parigi Donizetti potrebbe «essere curato dagli stessi medici, avere gli stessi custodi e le medesime cure, sicché pel fisico vi starebbe altrettanto bene quanto ad Ivry [...]
«Il suo mantenimento costa ora 500 franchi al mese, a Parigi ne costerebbe 1000, fors'anche 1500. Gaetano possiede circa 20.000 franchi di rendita. Ora vale meglio quindi ch'egli risparmi 14.000 franchi all'anno, e s'estingua malinconicamente in tetra disperazione?». Seguono alcuni dettagli giuridici sulle formalità di interdizione degli alienati e sulla designazione di un tutore legale. Del resto, è sorprendente che Donizetti fosse rimasto internato così a lungo per un semplice provvedimento di polizia. Non appena ricevuta questa lettera, Giuseppe Donizetti fece ripartire il figlio per Parigi. Questi arrivò il 24 aprile 1847 a Ivry e trovò peggiorato lo zio, che peraltro lo riconobbe e gli sorrise. Andrea gli mostrò il ritratto del padre; Donizetti lo riconobbe e tenne a lungo l'immagine fra le mani, poi la lasciò cadere; il nipote la raccolse e gliela rese capovolta. Donizetti se ne accorse e la raddrizzò.
Finalmente il prefetto di polizia autorizzò l'uscita dal manicomio e, il 23 giugno 1847, dopo sedici mesi di permanenza a Ivry, il musicista fu sistemato in un appartamento al numero 6 di avenue Chateaubriand, in una buona posizione vicino ai Campi Elisi dove ogni due giorni si recava a passeggio in carrozza. Nel frattempo, Andrea Donizetti continuava le pratiche per il ritorno dello zio in Italia. Il 17 agosto si chiamarono in consulto sei medici. Quattro si dichiararono disposti ad autorizzare il viaggio e soltanto due si mostrarono contrari, ma il dottor Béhier, medico della prefettura di polizia, si oppose alla partenza, per cui il 26 vennero piazzati alcuni agenti nella loggetta del custode dell'immobile per impedire qualsiasi uscita in carrozza.
Andrea allora chiese un consulto a tre celebri avvocati: Marie Crémieux e Berryer, che consigliarono di ricorrere alla magistratura.
Tuttavia, l'intervento decisivo fu quello dell'ambasciata turca a Parigi, avvisata da Giuseppe. Finalmente, il 19 settembre a mezzogiorno, Donizetti, accompagnato dal nipote, dal fratello minore arrivato da Bergamo e dal dottor Rendu, partiva in treno, via Amiens e Bruxelles, da cui raggiunse la Svizzera e poi l'Italia. La sera del 6 ottobre giungeva a Bergamo e veniva ospitato nel palazzo di una vecchia amica, la signora Basoni: numerosi amici lo attendevano con un'emozione che possiamo ben immaginare. Prima di tornare a Parigi, il 7 ottobre 1847, il dottor Rendu redasse un bollettino di salute in cui dichiarava che lo stato di salute del malato era immutato e che il viaggio non gli aveva nuociuto.
Al tiepido sole autunnale, l'aria natale della Lombardia sembrava giovare un poco al compositore, e i parenti e gli amici constatavano che la testa in cui era nato il sestetto della Lucia era un po' meno reclinata sul petto; pareva loro che il suo occhio si posasse con maggior curiosità sulle persone e le cose. Tuttavia, il compositore parlava solo a monosillabi.
La giovane Giovannina Basoni, figlia della proprietaria del palazzo, che Donizetti amava ascoltare quando interpretava al piano le sue melodie, ci ha lasciato, in una lunga lettera pubblicata da G. Zavadini, un racconto toccante degli ultimi giorni dell'infelice:
«Il primo aprile, alle 5 pomeridiane, mentre stava consumando il suo pranzo, [...] il signor Donizetti fu preso da un attacco di apoplessia [...] che gli paralizzò le braccia e la gamba sinistra! Durante tutta la notte il povero ammalato rimase in questo stato malgrado gli fossero applicati una dozzina di senapismi ai piedi ed alle gambe, ed era impossibile fargli prendere alcunché tanto egli avea i denti serrati. [...] Alle dieci gli fu applicato un vescicante alla nuca. A mezzodì la febbre si manifestò e la testa del signor Gaetano divenne caldissima. Alle 2 pomeridiane gli vennero poste 16 sanguisughe dietro le orecchie. La febbre continuò fino all'indomani mattina, poscia egli potè prendere qualche cucchiaiata di brodo con facilità. Si cominciava a sperare che l'illustre compositore sarebbe uscito da questi mali passi... ma ohimé! questa soddisfazione venne crudelmente infranta! Verso mezzogiorno la febbre ricominciò in maniera più forte del giorno precedente, alla una gli vennero applicate 18 sanguisughe alle tempie; ed allorché il sangue cessò di colare, lo sventurato ammalato venne preso da convulsioni che torcevano le sue membra in maniera orribile [...]. Si fece chiamare immediatamente l'Arciprete che abita vicino a noi e questo sacerdote gli amministrò l'Olio Santo. Le convulsioni durarono circa tre quarti d'ora ed in seguito la febbre aumentò con una forza senza esempio. Il povero ammalato sudò così abbondantemente che il sudore attraversò tutto ciò che egli aveva su di lui, anche il primo materasso del letto. Alle 10 della sera i sudori cessarono, si cambiò il signor Donizetti di letto e di lenzuola e, malgrado il suo stato di debolezza, egli sopportò benissimo tutti questi movimenti. [...] Nella sera del 4 [...] il sacerdote non lo lasciò tutta la notte. [...] perdendo ogni speranza di poter conservare il caro ammalato, noi ci affrettammo a chiamare un pittore [...] il signor Rillosi...».
Il 6, Donizetti fu alimentato attraverso una sonda con del brodo «fortificato da rossi d'uovo». Morì l'otto aprile, alle cinque del pomeriggio, «assistito dal sacerdote, attorniato da mia madre, da me, dal suo intimo amico Dolci e dal suo affezionatissimo domestico».
Il giorno 11, Bergamo rese al figlio della sua terra esequie magnifiche, a cui assistettero oltre quattromila persone, con un corteo di quattrocento fiaccole, e i giovani della città portarono la bara al cimitero, «malgrado che la già grande distanza dal cimitero sia stata molto aumentata in quanto gli abitanti dei sobborghi vollero anch'essi dare un ultimo saluto al grande Maestro, facendo passare il corteo per quelle vie che, come tu sai, vi sono circa tre miglia di percorso».
Giovannina Basoni aggiunge che, per discrezione, i medici, in numero di undici, che «hanno dovuto fare l'autopsia [...] compresero tutto lo strazio che noi avremmo provato se tale operazione fosse stata fatta presso di noi. Non fu che al cimitero che essi fecero l'apertura del corpo, dalla quale risultò: 1° - Che il più forte della malattia del signor Donizetti era nel midollo spinale, il quale si trovava trasformato a guisa di caffè-latte. 2° - Che un'acqua si era sparsa sul suo cervello».
Il racconto ingenuo e commovente di Giovannina si ferma qui. Da parte nostra aggiungeremo che, per procedere all'autopsia, la calotta cranica del compositore fu segata da un certo dottor Carchen. In seguito, nel 1875, quando si trasferirono le spoglie di Donizetti nella basilica di Santa Maria Maggiore, questo frammento di cranio, ritrovato a Nembro presso gli eredi del dottor Carchen, riprese il suo posto nel sarcofago...
Questa fu la fine di uno dei musicisti più rappresentativi del XIX secolo italiano. Richard Wagner, che conosceva le opere di Donizetti bene come si possono conoscere certe partiture di cui si sono realizzate, per un negriero-editore, riduzioni a due e a quattro mani e adattamenti per diversi strumenti, Wagner riteneva che nella «Favorita» Donizetti si fosse dimostrato «capace di dare maggiore nobiltà allo stile, sbarazzandosi delle formule stereotipate la cui sterile abbondanza caratterizza i compositori italiani attuali».
Donizetti cessò di scrivere a quarantacinque anni. Se il genio di Verdi fosse stato distrutto alla stessa età, non avremmo né il Ballo in maschera, né l'Aida, né il Falstaff, né l'Otello, né il Requiem...