MOSÈ IN EGITTO
Azione tragico‑sacra di Andrea Leone Tottola

LA TESTIMONIANZA DI STENDHAL

Scivolata via la pallida Adelaide di Borgogna, che comunque ebbe la sua vivace cronaca sui teatri italiani, bronzeo, solenne, terribile, dantesco o michelangiolesco che dir si voglia, dalla fantasia di Rossini balzò Mosè in Egitto. Adelaide di Borgogna era nata a Roma il 27 dicembre del 1817, ii 27 gennaio Rossini era già a Napoli, il 27 febbraio il «Giornale del Regno delle due Sicilie» dava per finita l'opera nuova, un'azione tragico-sacra di Andrea Leone Tottola tratta dall'Osiride, tragedia di Francesco Ulisse Ringhieri (1760), e destinata alla Quaresima secondo un uso napoletano già settecentesco e ora restaurato (proprio come elemento della più generale Restaurazione). Una settimana di prove, o concerti come si diceva allora, a dispetto di altre manifestazioni già programmate, e la prima tardò solo di qualche giorno. Il 5 marzo del 1818 l'opera andava in scena al S. Carlo nell'interpretazione di Michele Benedetti (basso, Mosè), Ranieri Remonni (basso, Faraone), Frederike Funck (soprano, Amaltea), Andrea Nozzari (tenore, Osiride), Isabella Colbran (soprano, Elcia), Gaetano Chizzola (tenore, Mambre), Giuseppe Ciccimarra (tenore, Aronne), Maria Manzi (mezzosoprano, Amenofi). La prima era stata preceduta dalle solite polemiche, presso il solito giornale ostile a Rossini: la Baodicea di Francesco Morlacchi aveva trionfato perché l'autore vi aveva preferito «le Muse alle Sirene», cioè la poetica semplicità alla rumorosa complessità, insomma la comoda tradizione agli ardui esperimenti di Rossini. Nemmeno la prima andò immune da critiche, con il meraviglioso quadro d'apertura che si disse essere stato copiato da chissà quale partitura tedesca e con la finale apertura del Mar Rosso che fu talmente goffa da suscitare l'ilarità. La critica spese elogi per Tottola, senza il cui contributo Rossini avrebbe composto «mediocre musica», e per i grandi cantanti, ma il successo ci fu, specie alle repliche, e forse già col colore del trionfo che si ebbe sicuramente nella ripresa del 7 marzo 1819 per la quale Rossini aggiunse la sublime preghiera «Dal tuo stellato soglio»: la nuova edizione del libretto scriveva «La poesia, e musica del terzo atto si è nuovamente composta per darsi miglior campo alla decorazione, che si spera di più felice immaginazione e riuscita». Grande la fortuna dell'opera, in seguito, fino al rifacimento francese di Moïse et Pharaon (1827) che a sua volta venne tradotto in italiano (con il titolo di Mosè).
Delle due versioni napoletane resta la suggestiva e fin troppo creativa testimonianza di Stendhal che segue.

L'opera comincia con quel che si chiama la piaga delle tenebre, piaga un po' troppo facile a eseguire sulla scena, e quindi assai ridicola; basta velare i lumi della ribalta, e coprire il lampionario. Io ridevo, al levarsi del telone; i poveri egiziani disposti a gruppi, sull'immensa scena e afflitti dalla piaga dello spegnitoio, stanno pregando. Ma avevo appena udito venti battute dell'ammirevole introduzione, e già non vedevo più che un grande popolo piombato nel dolore; per esempio, Marsiglia in preghiera all'annuncio della peste del 1720. Re Faraone, vinto dai gemiti del suo popolo, grida: 'Venga Mosè!'
Benedetti; incaricato della parte di Mosè, comparve con un costume semplice e sublime, che era imitato dalla statua di Michelangelo a Roma; e non appena ebbe rivolto venti parole all'Eterno, le luci critiche del mio intelletto s'eclissarono; io non vidi più un ciarlatano che cambia il suo bastone in serpente e imbroglia un minchione, ma un grand'uomo, ministro dell'Onnipotente, che fa tremare un vile tiranno sul suo trono. Ricordo ancora l'effetto che mi fecero le parole: 'Eterno, immenso, incomprensibil Dio'.
L'ingresso di Mosè rammenta tutto ciò che v'ha di più sublime in Haydn; forse, lo rammenta troppo. A tale epoca, Rossini non aveva ancora scritto nulla di così dotto come questa introduzione, che si estende fino a metà del primo atto, e in cui osa ripetere ventisei volte di seguito la stessa forma di canto. Tale arditezza e pazienza dovette costare assai ad un genio così mosso e vivace. [...]
La fine del primo atto passò senza incidenti; è la piaga del fuoco, rappresentata da un piccolo fuoco d'artificio. Il secondo atto, che svolge non so quale altra piaga, fu benissimo accolto; un duetto magnifico fu portato al settimo cielo, le grida di bravo maestro partivano da tutti i punti della sala. Il principe ereditario figlio del Faraone ama in segreto una giovane ebrea; Mosè fa partire il suo popolo, la giovane viene a dare al suo amante l'estremo saluto. È uno dei soggetti, codesto, meglio atti alla musica. Se Rossini non si è alzato all'altezza della situazione in: «Principessa avventurata», il suo tentativo però la presenta vivamente all'anima dello spettatore. La signorina Coibrand e Nozzan cantarono con molto talento e abilità; ma, come il maestro, mancarono di trasporto, di patetico.
Al terzo atto, non ricordo bene in che modo il librettista Tottola abbia introdotto il passaggio del mar Rosso, senza riflettere che non è così facile come la piaga delle tenebre. Data la disposizione della sala, la platea non riesce mai a vedere il mare che in lontananza; qui bisognava, invece, metterlo in primo piano, poiché si trattava di passarlo. Dovendo risolvere un problema insolubile, il macchinista del San Carlo aveva fatto cose quasi incredibili; di tanto erano ridicole. La platea vedeva il mare più alto di cinque metri della riva; i palchi, posti quasi a precipizio sulle onde, scorgevano invece i piccoli lazzaroni che le scostavano, al comando di Mosè. A Parigi, nulla di più ovvio; a Napoli invece, dove gli scenari sono spesso magnifici, l'anima, aperta a questo genere di bellezze, rifiuta di inghiottire simili assurdità troppo grossolane, ed è sensibilissima al ridicolo. Si rise assai, difatti; la gioia era schietta, tanto da non poter neppure fischiare o indignarsi. Non si intese quasi la fine dello spettacolo; e tutti parlavano soltanto dell'introduzione.
La stagione seguente il Mosè fu ripreso, mi fu detto, collo stesso entusiasmo pel primo atto, e le stesse risate al passaggio del Mar Rosso. Ero assente. Mi trovai invece a Napoli quando si trattò della terza ripresa.
L'indomani non mancai di recarmi a teatro. Lo stesso entusiasmo al primo atto; al terzo, quando giunge il momento del passaggio del Mar Rosso, le stesse beffe, la stessa gran voglia di ridere. E già il riso cominciava a dilagare in platea, quando si udì Mosè comunicare un'aria nuova: 'Dal tuo stellato soglio'.
Era una preghiera che il popolo intero ripeteva in coro, dopo Mosè. Sorpreso dalla novità, la platea ascoltò, le riso cessarono. Il coro, davvero bellissimo, è in minore. Aronne lo riprende, il popolo canta dopo di lui Finalmente, anche Elcia rivolge al cielo gli stessi voti, il popolo risponde; in quel momento tutti si buttano in ginocchio e ripetono la preghiera con entusiasmo: il prodigio è operato, il mare si apre per lasciare il passo al popolo protetto dal Signore. Quest'ultima parte è in maggiore. È impossibile immaginare il colpo di tuono che rimbombo nella sala; si sarebbe detto che crollasse. Gli spettatori dei palchi, tutti in piedi e mezzo fuori per applaudire, gridavano a squarciagola: bello, bello, bello! Non ho mai visto un simile furore né un tale successo, tanto più grande che la gente era disposta a ridere, a farsi beffe. Il successo della Gazza ladra a Milano, benché immenso, fu assai più calmo, forse a causa della differenza di clima. Poco felice! Non erano più applausi alla francese, di vanità soddisfatta, come al primo atto; erano dei cuori inondati dalla gioia, che ringraziavano il dio che aveva versato la felicità a piene mani. Si neghi, adesso, che la musica ha un effetto diretto e fisico sui nervi! Ho quasi le lagrime agli occhi, ripensando a questa preghiera.


TRATTO DA
ROSSINI: TUTTI I LIBRETTI D'OPERA
A CURA DI PAOLO MIOLI
VOL. II
NEWTON COMPTON