Schweizer Jahrbuch für Musikwissenschaft
Annales Suisses de Musicologie
Annuario Svizzero di Musicologia


Neue Folge/Nouvelle Série/Nuova Serie
18 (1998)

Herausgegeben von der Schweízerischen
Musíkforschenden Gesellschaft
Publiées par la Société Suisse de Musicologie
Pubblicato dalla Società Svizzera di Musicologia

Redaktion/ Rédaction/ Redazione:
Joseph Willimann

PETER LANG
Bern - Berlin - Frankfurt am Main -
New York - Paris - Wien

pp. 259-311


I. DICHIARAZIONE DI INTENTI

In questo articolo tenterò di evidenziare come quello della «composizione» e, più generalmente, quello del «far musica» (le due cose non sempre si distinguono facilmente tra loro), considerato dal punto di vista delle scienze sociali, non sia un processo che si realizza necessariamente, completamente e compiutamente a livello individuale. Al contrario: esso si attua attraverso interazioni a cui partecipano individui, tradizioni e culture, in un rapporto collaborativo assai più elaborato di quanto non lasciasse intravedere il dualismo concettuale dei romantici che opponeva, un po' semplicisticamente, la creazione individuale nella musica della Hochkultur a quella collettiva dell'ambito folklorico.
Ho voluto dirlo subito perché le discussioni sul «far musica» che si sono sviluppate finora in ambito sociologico e antropologico mettono bene in luce almeno una cosa: indipendentemente dal grado di consapevolezza che ha il music maker del proprio ruolo nel processo compositivo (variabile da cultura a cultura, da un ambito sociale o temporale all'altro di una stessa cultura), il processo si presenta distribuito e frammentato (con momenti di concentrazione e di rarefazione, di accelerazione e rallentamento) tra livelli sociali differenti che sono tutti in qualche modo collettivi e partecipativi. All'interno di essi, naturalmente, ci sono individui che agiscono e reagiscono in modo più o meno appariscente e le cui social actions (nel senso inteso da Talcott Parsons) possono avere maggiore o minore impatto e riconoscimento più o meno esplicito. Quello che con ciò desidero sottolineare è che (sempre parlando sociologicamente) riesce difficile immaginare un ambito umano, comunque definito, in cui possano esserci persone escluse in assoluto da questo processo.
Per mostrare che le cose stiano così avrò bisogno di effettuare una ricognizione di territori molto vasti (senza forse nemmeno riuscire ad indicare tutti quelli che sono rilevanti per il mio scopo). Sono territori e argomenti su cui non mancano gli specialisti. A tutti costoro chiedo dunque venia se, dal loro punto di vista, l'area di loro specializzazione non è trattata in queste pagine con la competenza e l'approfondimento che avrebbero desiderato.

II. UNA DOMANDA NON BANALE

Se ad un pubblico di appassionati melomani ponessimo la domanda «Chi compone veramente la musica?» la risposta sarebbe prevedibile e scontata: « ...ma i compositori, naturalmente!». E questa verrebbe pure data con accento incredulo e divertito.
Non molto diversa sarebbe, alla stessa domanda, la reazione di un gruppo di studenti di conservatorio. Ben più avvertiti del pubblico generico sulla complessità del «far musica», gli studenti musicisti tendono però, in definitiva, a dare la stessa risposta del pubblico generico [1]. Sono infatti anche loro (come gli altri comuni mortali) eredi diretti di una concezione tardo-romantica del fatto artistico che nel mondo occidentale si è sedimentata in una diffusa coscienza collettiva. Secondo questa, l'attività dei comporre deve essere imputata, puntualizzata e ascritta ad un solo individuo creatore il quale (al di là di tecniche e possibili stereotipi mutuati da una tradizione di riferimento) deve trovare un modo di esprimere il suo specifico modo di essere - se non addirittura una personale Weltanschauung.
I musicologi di mestiere, naturalmente, sono alquanto più consapevoli della difficoltà di comprendere tanto il «come» quanto il «dove» del processo compositivo e sarebbero quindi parecchio più cauti nel tentare di rispondere ad una domanda che li pone nel bel mezzo di un campo minato. I musicologi sanno bene, per esempio, come nel corso del Medioevo europeo, si debba attendere Hildegard von Bingen e la scuola di Nôtre Dame (pur se l'esistenza storica di Leonin e Perotin è messa in dubbio da qualcuno) per riconoscere quell'intenzione manipolativa del materiale sonoro (il Kunstwollen di Alois Riegl) che, agli occhi di noi moderni, segnala la presenza del compositore così come siamo abituati a visualizzarlo e a concepirlo (van der Werf 1990). E i musicologi sanno pure che il termine compositore usato per indicare un'attività occupazionale, in effetti, entra in uso in Europa ancora più tardi, solo verso la fine del XIV sec. E anche a quel tempo solo sporadicamente (Finscher 1975). Prima di allora però, pur in assenza di compositori riconosciuti, la musica esisteva egualmente e rivestiva nella vita sociale non meno valore simbolico di quanto ne abbia adesso.
Gli etno-musicologi poi, più dei loro colleghi di formazione storica, sono consapevoli del fatto che per una tradizione musicale alimentarsi di musica consapevolmente com-posta, così come è avvenuto nel corso degli ultimi secoli della storia occidentale, costituisce, da un punto di vista etnografico, più l'eccezione che non la regola. Una tradizione musicale può benissimo vivere, evolversi, trasformarsi, lungo un ampio arco di tempo senza bisogno di delegare e concentrare il processo compositivo nelle sole mani di specialisti designati e addestrati unicamente a quello scopo. Ecco allora che in termini molto generali, assumendo una prospettiva che si potrebbe dire interculturale o «planetaria», non è affatto improprio porsi la domanda «Chi compone veramente la musica?»
Se la domanda la prendiamo sul serio, se riusciamo a vedere che non si tratta di un quesito retorico a cui dare una risposta scontata, ci accorgiamo allora dei risvolti intriganti che nasconde e di quanto siano relativamente pochi a esserne pienamente consapevoli. E costoro sono forse, più di ogni altro, non i musici ma quei sociologi che si interessano alla musica e alle arti (J. Wolff 1982; Zolberg 1990) e, per converso, quei pochi musicologi che frequentano assiduamente la sociologia (p. es. K. Blaukopf, I. Bontinck, V. Karbusicki, I. Supicic). Nel loro ambiente si tende a riconoscere che anche quando il mestiere di compositore è ufficialmente sancito, in realtà non sono i compositori o, meglio, non sono sempre e soltanto i compositori a monopolizzare il processo compositivo, pur quando il parlar quotidiano ci induca a pensare che così debba essere. Nella realtà dei fatti, la dichiarazione che X è l'autore del brano Y ha un contenuto di verità non molto superiore a quello dell'affermazione che un film di Federico Fellini (per fare il nome di un regista tra i più geniali) si debba solo ed unicamente al mestiere e al talento di quel grand'uomo di cinema. La sola differenza è che in questo secondo caso è più agevole rendersi conto della grossolana semplificazione che l'abituale esprimersi comporta. Non è infatti difficile scorgere la pluralità di individui che si cela necessariamente dietro un'opera cinematografica [2]. Ma se ci interessiamo al fatto poietico, al processo generativo cioè anche per tutti quegli altri fenomeni che nella nostra cultura diciamo «artistici», conviene allora osservare meglio. Allora, anche quando un compositore è chiaramente designabile e individuabile ufficialmente come l'autore di un determinato brano (magari pure legalmente depositato a suo nome ai fini del copyright), ci accorgiamo che, ad un più attento esame, il cosiddetto compositore ha compiuto solo una modesta parte del lavoro che gli viene abitualmente attribuito in toto [3].
Questo articolo è dunque un tentativo di prendere atto di tutto ciò e di riconoscere che la nostra cultura spesso ci induce a pensare la musica secondo termini che impediscono di cogliere la reale allocazione e distribuzione nell'ambito sociale del processo compositivo. È quindi proprio un confronto tra culture e atteggiamenti tradizionali differenti che può aiutarci a vedere la cosa nei suoi meccanismi fondamentali.

III. I MODI DELLA COMUNICAZIONE ORALE


1. Musica nella natura

Nell'ascoltare un brano musicale la prima domanda che ciascuno di noi naturalmente si pone, la prima curiosità che desidera soddisfatta è quella di sapere chi ne sia l'autore. Eppure esistono numerose culture in cui questa curiosità non si manifesta. Questo perché in quelle culture la musica è pensata come qualcosa in vario modo pre-esistente alle attività umane, come un che di naturale che ha un suo posto ovvio e riconosciuto nel contesto dei fenomeni della natura. Viene da ricordare in primo luogo, a tal proposito, la credenza mantenutasi fino a buona parte del Medioevo nella «musica delle sfere» di cui parla Boezio con tanta enfasi. E tanto a lungo si mantenne questa credenza che Tomaso Campanella, e con lui siamo addirittura all'inizio del Seicento, auspicava l'invenzione di un «cannocchiale acustico» che avrebbe potuto consentire finalmente agli uomini di udire questa musica celestiale normalmente soffocata dai rumori della biosfera [4]. E Johannes Kepler, più o meno nello stesso periodo, nel suo «Harmonices mundi», parla non solo dell'armonia cosmica in modo altrettanto concreto ma anche, sulla base dei dati numerici sul movimento dei pianeti di cui disponeva, procede alla ricostruzione dell'accordo planetario che avrebbe dovuto derivarne (Stephenson 1994).
A guardare bene l'idea che possa esistere una musica naturale, connaturata con il funzionamento stesso dell'universo non è venuta mai a mancare del tutto nel mondo occidentale, anche se, a partire dall'illuminismo, viene relegata in una posizione assai marginale [5]. Ai giorni nostri, p. es., l'idea di una «musica» prodotta dalle cose del mondo come corollario ineludibile del loro stesso essere riaffiora in John Cage e, in modo perfino più articolato in Murray Shafer, le cui attività partono dal design acustico per arrivare all'ecologia sonora e al protezionismo di quei soundscapes che corrono il rischio di andare inquinati dapprima, distrutti poi e, quindi, spesso persi per sempre (Murray Shafer 1973; Feld 1993). Non è mancata nemmeno in altre culture l'idea di una musica intessuta nella natura stessa dell'universo che risuona, riflettendosi in modo differente da caso a caso, nell'individualità di ogni singolo essere. Il «Sangita sastra» afferma infatti che chi sappia ascoltare la voce divina nella propria interiorità può scoprire dentro di sè forme sonore bellissime: pensiamo a come il termine sanscrito mantra nell'induismo e nel buddismo tenda ad abbracciare concetti che vanno in queste due direzioni (il macro e il micro). Sono due direzioni che ricordano la musica mundana e la musica humana di cui parlò Boezio [6].
Ma tutte queste sono idee e credenze con le quali i più tra noi trovano difficile rapportarsi anche, in fondo, nelle versioni attualizzate di Cage e Murray Shafer. Ci sembrano appartenere ad un mondo in cui storia e scienza si confondono con il mito e con la leggenda. Per noi che siamo stati socializzati in una cultura in cui la musica è qualcosa che si produce intenzionalmente per essere proiettata poi verso un pubblico che ne è il destinatario designato, è difficile intuire quale concretezza e quale tangibilità emotiva altre idee di «musica» (p. es. quella di una musica che è e che non si fa) potessero avere nelle cultura medievale o in quelle delle grandi culture orientali. Per trovare concezioni del far musica più rapportabili alla nostra, per strano che possa sembrare, dobbiamo cercarle allora nel mondo tribale contemporaneo [7]. È in quel mondo, in quegli ambienti che possiamo anche trovare, a volte, una concezione del far musica, un'idea del comporre, che non ci è del tutto estranea. Che non la si incontri ovunque però deve avvertirci del fatto che pensare la musica come qualcosa da «mettere insieme» con lucida consapevolezza non è di per sé un atteggiamento «universale» (o «naturale») che come tale si possa dare per scontato.

2. Quando, per nascere, la musica
ha bisogno degli uomini...


I Kaluli della Nuova Guinea, per esempio, ritengono che la musica non sia una esclusiva invenzione degli uomini e la vedono piuttosto come una rielaborazione umana del canto degli uccelli [8]. Anche quì il fatto musicale di base è dunque un dato ambientale, non astrofisico stavolta ma, invece, biologico. Poiché la musica comincia col canto degli uccelli il genere vocale più importante dei Kaluli, il gisalo, si basa principalmente sul canto di un uccello (una sorta di piccione selvatico) che prende il nome di muni. E siccome gli uccelli cantano spesso insieme, ma mai all'unisono, l'unisono è inconcepibile in questa cultura (sarebbe contro-natura); è invece normale per i Kaluli produrre un canto collettivo che oscilla tra polifonia e eterofonia (Feld 1982) [9]. Ben diverso è il caso di alcune tribù dei Plains Indians del Nord America che, per apprendere nuove canzoni andavano in cerca di una «visione» o «illuminazione interiore». Ogni uomo doveva trovare la propria, con uno spirito guida (uccello o animale) e con essa la canzone corrispondente da intonare poi nel momento del bisogno. E la ricerca avveniva nel deserto, digiunando, e anche infliggendosi vere e proprie forme di tortura. Era nell'acuità percezione del proprio stesso essere, acuita perfino col dolore fisico, che la probabilità di trovare una «illuminazione» interiore poteva aumentare. E, cosa interessante, a qualcuno poteva capitare di cercare a lungo e ripetutamente questa esperienza senza mai riuscire ad averla. Anche gli indiani Blackfoot, una tribù che prima del 1800 non aveva avuto alcun contatto con la cultura occidentale, trovavano le loro canzoni attraverso un'esperienza interiore, pur se meno drammatica e sofferta di quella dei Plains Indians: loro le canzoni le sognavano [10]. Ma oggi non è più così; sotto l'influenza della cultura occidentale anche gli indiani d'America hanno tutti imparato che le canzoni si compongono, aspettando magari quei momenti di «ispirazione» che per la mentalità occidentale costituiscono in fondo la traduzione culturale di quel tanto di irrazionale che si cela nella parola «sogno», usata nelle culture tribali (Nettl 1989). In questi casi, quindi, la musica nasce con l'aiuto degli uomini ma non è concepita come un prodotto essenzialmente umano nella sua origine.
Per gli aborigeni australiani, invece, la musica venne inventata durante il dreanitime (un'epoca mitica vissuta dagli antenati, tanto lontana nel tempo da collocarsi quasi tra realtà e sogno). E queste canzoni, nate durante il processo formativo dell'universo, all'universo stesso rimasero legate o, meglio, alle sue parti (fiumi, monti, pianure, ecc.). Quasi come pietre miliari di romana memoria, le canzoni indicano agli aborigeni i luoghi geografici e i percorsi che lì collegano, tanto da consentire all'occhio e all'orecchio interiore dell'esperto una raffigurazione mentale dello spazio (Ellis 1985). La musica è quindi per gli aborigeni qualcosa che semplicemente esiste, proprio come i laghi, i fiumi, le montagne. E così come un cieco non può vedere queste cose che pur sempre esistono (indipendentemente da chi le osserva), similmente una persona che non sia sufficientemente sensibile può non rendersi conto di quanta musica esista intorno a lui. Ci sono, naturalmente, in società tribali che condividono questo punto di vista persone che eccellono nella caccia e altre che eccellono nell'aiutare gli altri a riconoscere l'esistenza della musica che li circonda: sono coloro che noi chiameremmo «musicisti».
Questi erano esempi di come la musica possa essere considerata un fatto originariamente naturale o, il che in tale circostanza non è cosa molto differente, sopra-naturale. Sono casi frequenti tra le culture del mondo ma, anche questi, pur nel loro ricorrere, non costituiscono una regola assoluta - anche tra le culture tribali.

3. Comporre con altri


Secondo gli indigeni Maewo dell'isola di Vanuatu, nel Pacifico sud-occidentale, le canzoni furono inventate originariamente da esseri umani: dalle donne in primo luogo. Ma non erano ancora canzoni vere e proprie perché si trattava solo di melodie senza parole. Queste diventarono canzoni complete solo successivamente quando gli uomini intervenendo nel processo compositivo, vocalizzando a poco a poco, seppero trovare le parole giuste per ogni melodia che le donne avevano inventato. Solo a quel punto cominciarono ad accompagnare le canzoni con la danza, visto che la danza non può avere luogo senza che ci sia una vera e propria canzone (Crowe 1986). Anche per gli indiani Haulapai e Hopi (un gruppo che pare linguisticamente collegato agli Aztechi) (Benedict 1934) la musica è un prodotto umano, e lo è attraverso un processo assai dinamico e parcellizzato tra gli appartenenti alla tribù. I loro canti continuano ad essere creati, ad essere quindi «composti». Solo che la singola persona che ne è consapevolmente l'autore iniziale li propone subito all'esame di altri che cominciano ad apportare modifiche e miglioramenti. In tal modo questi canti diventano gradualmente e, progettualmente, una creazione collettiva, un prodotto comunitario. È interessante che, ciononostante, continuino però ad essere designati con il nome di chi ne ha composto il nucleo iniziale. Si tratta quasi dell'esatto contrario di quanto avviene nella cultura occidentale. Nella tradizione eurocolta chi produce l'ultima trasformazione di un dato materiale tradizionale (la trasformazione che finisce coll'essere fissata sulla carta) è il vero autore; tutti coloro che a quest'autore hanno fornito qualcosa in termini di lavoro preliminare vengono dimenticati o ignorati. Non così tra gli Hopi e gli Haulapai per i quali conta l'iniziatore del processo preparatorio e non chi lo completa. E non sono i soli a procedere in questo modo. Qualcosa di molto simile, seppur in un repertorio assai differente, avviene nel gamelan balinese. In questo genere di musica orchestrale (che dal tempo dell'Expo universale di Parigi del 1889 in cui Debussy ebbe modo di ascoltarlo affascina gli europei avidi di sonorità esotiche) gli esecutori dei singoli strumenti suggeriscono poco alla volta dei miglioramenti e finiscono coll'alterare i brani tradizionali assai considerevolmente, anche se in modo molto graduale. Nel giro di qualche mese, man mano che le modifiche incontrano l'approvazione generale di tutta l'orchestra queste vengono allora definitivamente incorporate nella composizione (Hood 1982). In questi ultimi casi (quello dei Maewo, degli Haulapai e dei musicisti di Gamelan) ci troviamo quindi di fronte a culture in cui il processo orale manifesta un carattere collettivo del tutto consapevole. È un caso limite ed è caso relativamente raro perché molto più spesso in altre culture orali pur andando le cose, nella realtà dei fatti, più o meno in questo stesso modo, non ci si rende però conto con eguale lucidità di questo procedere collaborativo.

4. Interventi minimi

Ma come viene realmente pensato il processo compositivo nelle culture esclusivamente orali? Come ben spiega Tullia Magrini, occorre distinguere il caso in cui il musicista tradizionale abbia in mente un oggetto sonoro «mentale», da riprodurre il più fedelmente possibile (qualcosa che egli ha memorizzato durante ripetuti ascolti del medesimo), dal caso in cui egli abbia invece in mente un progetto esecutivo che, messo in pratica, di volta in volta, gli consente di produrre serie di performances che rientrano nei limiti di stile e dì genere richiesti dalla tradizione (Magrini 1992). Esemplificazioni ne possiamo trovare nella fascia folklorica europea.
Nel caso delle ballate (canti narrativi o «epico-lirici») l'esecutore ha in mente una storia organizzata in strofe, appresa dalla tradizione e collegata ad una melodia, pure tradizionalmente appresa. Si tratta di un «oggetto» creato da qualcuno che è generalmente ignoto a tutti. Che poi il cantore abbia l'intenzione di riprodurre fedelmente quest'oggetto mentale, verbatim, non vuol dire che questo sia poi necessariamente il risultato reale della sua performance, e non solo perché un vuoto di memoria lo può costringere ad effettuare interpolazioni creative, ma anche perché l'idea di ripetizione «letterale» varia da un ambito culturale all'altro. E l'idea di ripetizione letterale può quindi anche non collimare con una riproduzione esatta dell'oggetto sonoro misurabile elettronicamente da un osservatore esterno alla tradizione. L'idea di ripetizione fedele, letterale, può limitarsi al testo letterario di un canto, alla sua melodia, alla funzione magico-religiosa del canto stesso o, meno frequentemente a fatti timbrici, dinamici e agogici che più di altri, in una data cultura, possono essere usati per identificarlo [11]. In culture in cui suoni che noi occidentali consideriamo note diverse fra loro risultano essere note funzionalmente equivalenti (come per noi, p. es., gli intervalli di ottava), cambiamenti rilevanti del profilo melodico possono verificarsi di sovente e (per quanto disorientanti per l'ascoltatore eurocolto) pur non incidono nell'identificabilità della canzone in quanto tale da parte dei suoi ascoltatori abituali. E poi pur sempre possibile che il musicista di fronte ad una parola che considera in qualche modo inappropriata o ad una frase melodica disagevole alla sua voce, apporti delle modifiche consapevoli e, in fondo, necessarie. E man mano che un canto si diffonde, nel corso del suo uso, per così dire, si producono di esso, conseguentemente, varianti a catena. L'effetto cumulativo di alterazioni apportate nel corso del tempo (varianti di varianti, quasi un effetto «valanga» a volte) può benissimo produrre, ad un certo punto (quando tanti mutamenti quantitativi, sommandosi, producono ad un certo punto un salto qualitativo) un canto sostanzialmente nuovo che poco può avere in comune con il suo l'archetipo [12]. Ogni nuovo canto prodotto in questo modo può a sua volta divenire la base di processi trasformativi ulteriori che, col tempo, condurranno alla produzione di altri canti sostanzialmente nuovi. Il processo della variazione è dunque essenziale nella vita delle tradizioni orali. Ogni canto è in queste tradizioni un anello di una catena di eventi che animano un processo (una stratificazione di variazioni) che può durare indefinitamente tanto a lungo quanto la tradizione stessa a cui appartiene.
Eccoci di fronte allora ad un atto del comporre che procede, per così dire, col contagocce: addizioni, sottrazioni, concrezioni e interpolazioni [13]. In questa situazione, evidentemente, non avrebbe gran senso chiedere chi sia il compositore della ballata «Donna Lombarda», «The Two Sisters» o di qualunque altra. L'attività compositiva, in questo caso, è distribuita tra tutti coloro che fanno musica in quella tradizione, con il contributo di tutti coloro che in passato l'hanno fatta. Questi apporti individuali sono quasi sempre minimi a tal punto da non consentire il formarsi di un'estetica dell'espressione e della creatività individuale o, men che meno, dell'originalità. Quelli di «creatività individuale» e di «originalità» sono del resto concetti che fanno parte di un'estetica romanticizzata che nel mondo del folklore non ha mai avuto corso. Lo stesso cantore popolare che alla radio apprezza l'originalità di Michael Jackson, troverebbe altamente inappropriato offrire ai suoi ascoltatori una versione fortemente personalizzata di una delle ballate che fanno parte del suo repertorio. E non è che la mancanza di personalizzazione marcata nuoccia alla qualità dell'artefatto musicale. Tutt'altro. Va ricordata a proposito l'opinione di Béla Bartók che disse sulle melodie popolari ungheresi queste parole: «Nel campo delle forme semplici ritengo quelle melodie, senz'altro dei capolavori, esattamente con nel campo delle forme complesse lo sono una fuga di Bach o una sonata di Mozart» (Bartók 1977:225).

5. «Progetti» compositivi

Un po' diverso, sempre nell'ambito del folklore europeo, è il caso di canti che appartengono a generi caratterizzati da una certa misura di invenzione estemporanea di cui sia l'esecutore che gli ascoltatori sono consapevoli, avvertiti e desiderosi di giudicarla. È questo il caso della decima. La decima è un antico genere di canzone che si ritiene originato in Spagna, in ambito colto, nel XVImo secolo. Trasferito in America Latina divenne un genere popolare (dal New Mexico al Texas, dal Chile all'Argentina e alla Colombia). Ciascuna decima usa, come il suo stesso nome suggerisce, strofe di 10 versi (di otto sillabe ciascuno) con rima ABBAACCDDC. Si cantano in «parlando-rubato» su di una melodia che fa cadenza regolarmente alla fine del quarto e dei decimo verso. Ogni cantore, o decimero, ha una sua melodia sulla quale è in grado di improvvisare anche, addirittura, durante sfide a singolar tenzone con altri suoi colleghi. Ciò che il valente decimero riesce a fare è di formalizzare estemporaneamente un testo, prendendo spunto da un pretesto contingente, costruendolo su di un repertorio di argomenti e frasi standardizzate (o formule) da collocare nell'ambito ritmico-fraseologico della sua melodia preferita (List 1983).
In Italia i canti lirici (o, meglio, lirico-monostrofici) richiedono un tipo di invenzione estemporanea assai simile. Col termine canti lirico-monostrofici gli studiosi intendono un repertorio di canti (particolarmente ricco nell'Italia centro-meridionale) che sono tramandati oralmente, in certa misura improvvisati, composti di una sola strofa o, più di sovente, canzoni polistrofe in cui l'espressione completa di un sentimento, di uno stato d'animo, di un motto di spirito, è contenuta in ciascuna singola strofa [14]. L'uso di una formula melodica fortemente standardizzata consente agli esecutori di veicolare con essa commenti personali sugli eventi del momento, man mano che si verificano [15]. Il cantante di questi generi di canzoni (stornelli, canti a vatoccu, ecc.) si appoggia cioè per le sue improvvisazioni ad un repertorio di strutture metriche e formule verbali tradizionali. A volte usa perfino intere strofe preconfezionate che, con poche varianti possono essere adattate a quasi qualunque canzone e circostanza espressiva. È un processo molto simile, da un punto di vista concettuale, a quello descritto da Albert Bates Lord per il canto epico yugoslavo e da lui detto «composizione formulaica» (Lord 1960).
Questa teoria del comporre per formule, che trae origine dal lavoro di Milman Parry (studioso del linguaggio dei poemi omerici), sviluppata successivamente da A. B. Lord per rendere conto della composizione estemporanea di canti epici nell'area balcanica, la cui esecuzione durava addirittura alcune ore, in qualche caso è probabilmente applicabile anche al repertorio delle ballate dell'Europa occidentale e ai canti lirico- monostrofici, almeno nei suoi tratti fondamentali dato che in tutti questi generi è presente, sia nella melodia che nel testo, un ricorrente uso di «formule» stereotipe. Per «formula» Milman Parry e A. B. Lord intendevano «un gruppo di parole regolarmente impiegate in quel repertorio, in condizioni metriche compatibili, per esprimere una data idea fondamentale». La composizione per formule, dunque, consisterebbe nella costruzione di versi e semi-versi con espressioni formulaiche finalizzate alla costruzione di un intero canto attorno a dei temi centrali. I «temi» a loro volta sono gruppi di idee regolarmente usati nel raccontare una storia nello stile tradizionale del canto epico. Come lo stesso A. B. Lord sottolinea, l'abilità di comporre rapidamente si appoggia non tanto sulla semplice memorizzazione di un repertorio di formule molto vasto, ma piuttosto sull'abilità di creare nuove frasi per analogia, usando i modelli stabiliti dalle formule fondamentali (Lord 1960).
I critici del lavoro di Milman Parry e A. B. Lord hanno più volte commentato che un'alta concentrazione di formule verbali si può trovare anche in poesie che, senza alcun dubbio, furono prodotte da autori letterati. Essi hanno sostenuto che la semplice presenza di un linguaggio fortemente formulaico non prova che il testo sia originariamente di natura orale. Tra questi Douglas Green ha riassunto le critiche più ostinate lamentando con buona ragione l'indiscriminata applicazione di questa teoria a letterature che non sono composte verso per verso come i poemi serbo-croati su cui la teoria si è sviluppata. Green ha pure sottolineato che l'interdipendenza tra le composizioni scritte e quelle orali reperibili in numerose tradizioni letterarie sono spesso ignorate dai seguaci della teoria formulaica. La questione esula dall'argomento trattato in quest'articolo. In questa sede interessa solo osservare che rimane pur vero il fatto che, nelle tradizioni orali semi-orali e scritte, la versificazione e il suo adattamento agli schemi melodici tradizionali fa affidamento a delle «formule» così come A. B. Lord le aveva definite. Propriamente inteso l'uso di formule, frasi fatte e stereotipi di vario genere, refrains, non è quindi un aspetto dello stile ma, piuttosto, un aspetto del processo compositivo che si rivela attraverso i materiali che manipola (Buchan 1972). E il fatto che il cantore-esecutore-compositore di questi canti si basi su queste formule evidenzia bene quanto limitato (anche se essenziale) sia il suo contributo personale e, per contro, quanto forte sia invece il suo debito alla tradizione di riferimento, e a tutto il materiale che tanti prima di lui hanno pre-composto e reso disponibile.

6. Uomini e balene

Può sembrare una curiosità, anche se in effetti è molto di più, osservare che questo processo orale caratterizzato da una diluizione del fatto compositivo così minuta, lo si ritrovi anche al di fuori della nostra specie zoologica; anche, quindi, nel mondo animale. Quelle che in inglese si chiamano balene Humpback (Megaptera novaeangliae o più semplicemente megattera) vivono sul nostro pianeta da milioni di anni e per tutto questo enorme lasso di tempo, con tutta probabilità, hanno continuato a emettere il tipo di suoni che producono ancor oggi. Le megattere (che non possiedono corde vocali) emettono con la laringe suoni che la densità dell'acqua rende udibili anche a distanza di chilometri e, tra le altre cose, consentono alle balene di trovarsi e di localizzarsi. Fu nel 1967 che Scott McVay e Roger Payne scoprirono che le megattere producono suoni seguendo scherni complessi e articolati, continuamente ripetuti, che in ragione di ciò decisero di chiamare «canzoni». Katharine Payne scoprì poi, cosa ancor più interessante, che queste balene col passare del tempo alterano queste loro canzoni. E ad un certo punto nasce una canzone del tutto nuova mentre quello che noi chiameremmo l'originale (il prototipo o l'archetipo) scompare dalla memoria collettiva del gruppo [16]. Il processo l'ho già commentato nelle pagine precedenti e non è quindi il caso di rispiegarlo. A quanto pare comunque, le megattere (al pari dei cantori popolari), ereditano un set di regole (un «progetto compositivo» come dice Tullia Magrini) capace di governare la produzione di queste canzoni. All'interno di uno schema prefissato i singoli individui improvvisano o, se si preferisce, apportano delle variazioni sotto l'influenza delle varianti che sentono prodotte dagli altri individui del loro branco. Ciò che è affascinante notare è che questi «canti» delle megattere sono estremamente differenti tra loro e variano secondo le stagioni e tra gruppi di cetacei della stessa specie [17].
Tra le balene della specie megattera troviamo dunque, ancora una volta, molto visibilmente, il processo orale che si attua sia nella sua dimensione costantemente trasformativa che in quella collettiva e partecipativa. All'interno delle costrizioni stabilite dal quadro stilistico di riferimento, gli individui concorrono con la loro creatività a plasmare ogni anno la canzone che gli altri membri del gruppo continuano a forgiare pure per conto loro e che fornirà la base per la produzione di una canzone (geneticamente imparentata con questa) che sarà la canzone per il nuovo anno. Gli zoologi marini come Roger Payne che hanno così ben studiato e descritto questo fenomeno, non si sono forse resi conto (dopotutto non sono musicologi) di avere descritto un fenomeno assai ben noto e tipico nelle culture dell'Homo sapiens [18]. È molto più tipico delle culture umane che non quello di avere un compositore fortemente individualizzato che opera sulla propria tradizione di appartenenza mutamenti tanto profondi e drastici da venir definito, proprio per questo, innovatore, genio e creatore.

7. Conclusione sull'oralità

Tra le culture l'utilizzo di materiali pre-composti che costituiscono il «dato» della tradizione, e la loro stessa natura, possono mutare vistosamente da caso a caso. Alcune tradizioni esclusivamente strumentali mostrano casi straordinariamente singolari. Uno di questi è, per esempio quello della tarantella di Montemarano, una cittadina della Campania, in Italia. A Montemarano ogni nuova tarantella viene «com-posta» (o, meglio, estemporaneamente prodotta) con un procedimento che Giovanni Giuriati chiama «modulare» (Giuriati 1982; Sorce Keller 1988b; 1991). I suonatori di tarantella in quest'area apprendono dalla tradizione un numero considerevole (ma comunque finito) di segmenti melodici. Al momento di produrre una tarantella nuova il musicista attinge a questo serbatoio della memoria e vi estrae un certo numero di segmenti che, estemporaneamente e in modo «caleidoscopico», infila uno dopo l'altro come perle di una collana in un ordine nuovo. Si tratta di un ordine che naturalmente tiene conto del carattere morfologico intrinseco dei singoli segmenti, carattere che li rende suscettibili di essere collegati ad altri segmenti secondo certe modalità e non altre. In questo modo ogni nuova tarantella risolve brillantemente l'eterno problema di ogni cultura: quello di bilanciare innovazione e tradizione. Ogni nuovo brano è sicuramente «vecchio», in un certo senso, perché utilizza i segmenti melodici che la tradizione ha prodotto, e solo quelli. Al tempo stesso è nuovo perché produce un inedito allineamento di quei segmenti, che esprime la fantasia e la creatività del musicista che lo ha attuato. È un musicista che può dunque ben dirsi compositore nel senso letterale del termine.
Risulta quindi evidente come nel campo dell'oralità (che è poi quello in cui preferenzialmente ha agito finora l'etnomusicologia) si sia portati a considerare la musica non tanto come un «prodotto», come il risultato di un'attività che si consolida in un «oggetto», ma piuttosto come «processo» animato da anelli di una catena di eventi virtualmente infinita. Per dirlo altrimenti, in questa prospettiva il fenomeno «musica» appare dunque come un processo generativo inarrestabile che non si consolida mai in un'opera del tutto compiuta. E di fronte all'incompiutezza dell'opera si indebolisce la necessità, o quantomeno l'utilità di riferirla ad un «autore» ufficialmente riconosciuto a cui attribuire un «originale», un Urtext. Non solo nelle tradizioni orali non può esistere il concetto di Urtext ma, dove un Urtext non c'è, ha ben poco senso parlare di autore. Anche nelle tradizioni letterate però - dove in fondo la notazione veicola solo alcuni aspetti del fatto musicale (la notazione è di fatto, sempre, una cornice che manifesta diversi gradi di «flessibilità», che delimita spazi di possibilità) - non esistono nemmeno, a ben guardare, opere realmente e completamente «compiute». Anche in questo caso parlare di «autori», come lo si è fatto finora costituisce un overstatement.
Che si tratti di un overstatement ce ne rendiamo conto specialmente quando osserviamo come la concezione della compiutezza dell'opera d'arte, elaborata al suo massimo grado dal romanticismo e dall'idealismo post-romantico, ha talora condotto i musicologi ad approntare (sono davvero casi limite) perfino edizioni «critiche» di tradizioni che sono essenzialmente orali. Fu questo il caso del Gregoriano filologicamente ricostruito dalla scuola di Solesmes sulla base della sua notazione. Ci è voluta più tardi l'influenza dell'etnomusicologia per riconsiderare la notazione gregoriana non tanto come l'immagine grafica di «composizioni» musicali vere e proprie ma, piuttosto, come la trascrizione di una prassi esecutiva che varia da luogo a luogo e da un'epoca all'altra (Treitler 1974; 1975; 1980). Si può arrivare così a guardare con gli occhiali dell'emomusicologia. anche questo repertorio tradizionalmente studiato dalla musicologia storica (Jeffery 1992).
Studiando musiche che più di quella eurocolta dipendono per il loro evolversi e propagarsi da una tradizione orale [19], l'etnmusicologia ha quindi affrontato per prima e più a fondo di altri settori degli studi musicali, della letteratura e dell'estetica la problematica dell'«opera aperta» [20]. Il concetto stesso di «opera aperta», di un'opera costantemente in fieri e solo debolmente collegabile ad un autore è del resto consueto, anche se raramente esplicitato verbalmente o teorizzato, in numerose culture del mondo, anche in quelle culture musicali che richiedono professionismo esecutivo, che adottano magari una qualche notazione e che hanno prodotto un corpus di elaborazione e riflessione teorica. Questo è il caso, della musica indiana classica, come è pure il caso della musica persiana classica: quella che si basa sul cosiddetto Radif, un repertorio melodico estremamente strutturato e organico, tramandato oralmente molto a lungo e solo recentemente trascritto, che viene usato come base per esecuzioni estemporanee (Nettl 1987). Il Radif costituisce un'entità musicale di base (un corpus) già in sé e per sé, non collegabile ad uno o a più autori storicamente determinabili e con esattezza riferibili a questa o quella parte specifica dell'intero repertorio. Ciononostante così come esso esiste oggi il Radif ha acquisito un'aura di classicità che lo fa considerare completo e quindi non più suscettibile di ampliamento tramite composizione di nuove sue parti. La sua «completezza», d'altronde, è del tutto particolare dato che non sarebbe concepibile o nemmeno accettabile eseguirlo verbatim nota per nota così come esso è scritto. Ogni valente esecutore di musica persiana classica sceglie di volta in volta, con criteri che sono pure in parte culturalmente determinati dall'occasione e dalla funzione della performance, e assoggetta i materiali prescelti a dei processi trasformativi estemporanei che evidenziano il talento e la creatività dell'esecutore che, in quanto realizzatore di un processo trasformativo di materiali tradizionali, diviene in certa misura «compositore». Ciò che si realizza con l'esecuzione però non viene mai scritto (casomai oggi si registra su nastro o su disco), perché nessun'altro esecutore vorrebbe mai riprodurre esattamente un'esecuzione altrui, per quanto bella e riuscita. Essa non costituisce mai un «pezzo» nel senso che si dà a questa parola nella musica eurocolta. Il Radif con le sue parti nemmeno costituisce un «pezzo» o una collana di «pezzi» (perché nessuna sua parte può essere eseguita in modo letterale). Esso costituisce invece (e questo concetto è estraneo alla nostra cultura) un «quadro territoriale» all'interno del quale è possibile far musica in modo tale che sia riconosciuta da un certo pubblico come parte della tradizione persiana.
La serie di esempi che ho citato in queste pagine (dalle balene Humpback, alla tarantella di Montemarano, al Radif) mostrano abbastanza chiaramente come il processo compositivo possa essere diluito, distribuito, parcellizzato e come quindi in molte situazioni culturalmente differenti sia possibile fare musica senza avere a che fare con l'ingombrante presenza di un «compositore», rapportandosi invece ad una pluralità di attori che producono interventi microcompositivi tanto discreti da non consentire, nella maggior parte dei casi, la loro identificazione personale. Questi «mondi musicali» di cui si occupa l'etnomusicologia, sono davvero lontani da quello della musica eurocolta (dove il compositore è sempre così vistosamente in primo piano), anche se poi pure in Occidente, al di fuori della tradizione colta, si incontrano modi di fare e di pensare la musica che hanno parecchio in comune con quelli di tante musiche extraeuropee: pensiamo al jazz, al rock, alla new age, tutti ambienti nei quali il concetto di «compositore», di «originale», di «esecuzione-interpretazione» assumono significati assai particolari (Becker 1982). Sono anche queste tradizioni musicali in cui, pur facendo uso della notazione eurocolta, la trasmissione orale gioca un ruolo non secondario. Il caso dell'oralità pura è in definitiva un caso limite (anche se molto diffuso) che ben ci mostra come la presenza vistosa ed invadente del compositore sia un fatto inessenziale per la vita di una tradizione.

IV. IMPROVVISAZIONE E COLLABORAZIONE

Dopo avere parlato di oralità e di «progetti esecutivi» estemporaneamente realizzati, è gioco forza dire qualcosa in più sull'argomento «improvvisazione». È utile farlo perché il caso dell'improvvisare - così come quello del tramandare oralmente - evidenzia aspetti del processo compositivo che in altri momenti del suo realizzarsi sono meno apparenti. Sul complesso fenomeno che diciamo «improvvisazione» esiste una vasta letteratura, sia di taglio storico-musicologico che analitico ed etnomusicale, che tuttavia è ancora ben lungi dal chiarire bene gli interessanti problemi che affronta. Eppure, se non altro, questi problemi li inquadra efficacemente (Berliner 1994). Ciononostante è una letteratura, in genere, poco frequentata dai musicisti. Questo perché l'improvvisazione è qualcosa di cui poco si parla e che ancor meno si pratica nei conservatori e nelle scuole di musica del nostro tempo. È una conseguenza del fatto che, per presupposti estetici che non sarebbe possibile discutere in questa sede, nel corso dell'Ottocento, gradualmente, l'improvvisazione perse di prestigio per arrivare ad essere considerata, nell'ambiente della musica colta, un'attività musicale di secondo rango rispetto alla «composizione» (lentamente e faticosamente prodotta con penna e partitura) e alla cosiddetta «interpretazione» [21]. Non c'è allora da sorprendersi se nell'ambiente della musica colta spesso si arriva al fraintendimento di ritenere che quando una musica non è scritta, essa debba essere necessariamente improvvisata! Esistono invece tradizioni non scritte, specie di canto liturgico (l'antica cantilllazione vedica dell'India, per esempio), in cui la fedeltà ad un modello ideale assimilato nella memoria è considerata essenziale e quindi non consente scantonamenti improvvisativi. Ma quando l'improvvisazione ha luogo, il musicista che improvvisa, grazie al fatto di essere fisicamente presente (come il compositore raramente può essere) dà sicuramente l'impressione di essere davvero I' «autore» di ciò che produce. Vediamo la cosa un po' più dappresso.

1. Improvvisazione e originalità

Per improvvisazione si intende abitualmente la produzione di musica che non sia pre-composta e/o precedentemente in qualche modo scritta: un comporre rapido, estemporaneo quindi, con una grossa componente di instintualità o, come talora si dice, di «musicalità naturale». Un concetto di improvvisazione così genericamente formulato non aiuta molto la riflessione musicologica. Esso sembra implicare un istinto talmente preponderante, in chi improvvisa, da precludere la possibilità di una esatta consapevolezza di quello che fa (da qui la condizione di discriminazione estetica di cui l'improvvisazione è oggetto). Forse è possibile chiarire la cosa, almeno in parte, esaminando la questione del «pre-composto» in opposizione all'«estemporaneo» da un punto di vista generale. Potremmo considerare la musica integralmente pre-composta come un «tipo ideale» (nel senso che Max Weber dava a quest'espressione), un tipo ideale diametralmente opposto a quello della «libera improvvisazione», in cui il musicista, programmaticamente, vuole evitare di riferirsi ad alcun quadro stilistico pre-esistente. Si tratta di un caso limite, localizzato nel nostro secolo; un caso poco significativo, perché poco peso ha avuto nella storia musicale. L'improvvisazione libera, che non si appoggia ed identifica con alcuna tradizione storica (p. es. jazz, flamenco, basso continuo, radif) ebbe infatti un suo momento di relativa popolarità tra gli anni '60 e '70 tra i musicisti dell'avanguardia europea [22] (Bailey 1980). Non riuscì però a crearsi un solco consolidato all'interno della musica contemporanea e questo probabilmente perché l'improvvisazione, come la si pratica nelle culture del mondo che la coltivano non è mai «libera», perché libera non desidera essere al fine di comunicare e inviare segnali comprensibili al pubblico per su cui è mirata. L'improvvisazione delle grandi tradizioni improvvisative si colloca invece sempre all'interno di un quadro di riferimento stilistico che condiziona pesantemente le scelte dei musicista improvvisatore il quale, non meno del compositore che lavora con la penna (e spesso di più) utilizza e sottopone a procedimenti trasformativi accettati dalla comunità materiali che appartengono alla tradizione prescelta [23]. Di questi processi trasformativi il musicista deve avere coscienza. E i materiali che egli sottopone a trasformazione, così come i procedimenti manipolativi che egli attua non sono dunque, evidentemente, una sua creazione originale ma costituiscono piuttosto una preziosa eredità che gli giunge dagli altri musicisti che prima di lui hanno improvvisato in quel particolare ambiente o cultura [24]. La differenza tra il musicista che lentamente compone (e scrive) e quello che improvvisa, da questo punto di vista dunque, è una differenza di grado che riguarda la velocità del procedere, perché entrambi si appoggiano a materiali che provengono loro da un altrove. È vero semmai che l'improvvisatore, incalzato dalla necessità di andare avanti e non fermarsi, più del compositore-tartaruga deve appoggiarsi a formule stereotipe e a frasi fatte. È probabilmente per ciò che Carl Maria von Weber parlando di improvvisazione nella sua autobiografia dice in sostanza che, improvvisando sullo strumento, le mani tendono a correre sulle loro posizioni più abituali (Hell 1828). Intende dire con ciò che l'improvvisazione raramente raggiunge livelli superlativi in fatto di creatività e originalità. E qualcosa di simile a ciò che disse von Weber lo ripete oggi anche Pierre Boulez, compositore della tradizione colta e di un epoca in cui l'improvvisazione è, nel suo mondo musicale, del tutto marginalizzata. Boulez, infatti, esprime pure dubbi sostanziali sul valore artistico dell'improvvisazione, sostenendo che ciò che essa può dare non va al di là della manipolazione o dell'elaborazione di formule stereotipe. Nella sua visione delle cose, per certi versi ancora caparbiamente tardoromantica, la composizione è un atto «creativo», «innovativo» e non «trasformativo» (Boulez 1970) [25]. Ma queste sono questioni di estetica in cui non è necessario entrare in questa sede. Qui importa soprattutto sottolineare che il fare musica è sempre, in ogni circostanza (salvo il caso di riproduzione letterale di un evento sonoro con lo strumentario elettronico), equivalente a fare delle scelte all'interno di un set di limitazioni pre-date o pre-scelte e, in sostanza pre-composte [26]. Queste limitazioni possono essere il risultato di una preferenza individuale (come nelle avanguardie del Novecento), ma sono più normalmente una scelta della comunità in cui si opera e, naturalmente, possono essere più o meno esplicite e oggetto di teorizzazione. Esse riguardano principalmente il materiale tonale (le «note»), le modalità di aggregazione metrico-ritmica, il timbro, le forme dell'attacco, dell'articolazione, del bilanciamento e volume sonoro. Per esempio: nella musica colta indiana i musicisti improvvisano all'interno di un sistema di costrizioni melodico-modali (di un raga prescelto, che implica tasselli melodici precomposti) e ritmico-metriche (gli schemi di aggregazione metrico-ritmica si dicono tala). Similmente, se un pianista annuncia l'esecuzione di un blues vuol dire che sta consapevolmente scegliendo un set di limitazioni (lo schema metrico-armonico del blues) che opera già all'interno di altri set limitativi (il sistema tonale, l'agilità motoria che il pianoforte consente, ecc.). Coloro che hanno familiarità col blues chiameranno l'evento sonoro un'improvvisazione. Singolarmente, nessuno si domanda chi sia l'autore di quel sei di costrizioni a-priori che chiamiamo blues. In fondo, il blues è una cornice; per questo ogni esecuzione blues è per certi versi sempre la stessa cosa e, naturalmente, per altri versi, qualcosa di diverso. E dipende unicamente dalle nostre predisposizioni culturali se avvertiremo maggiormente i tratti di continuità o quelli di discontinuità tra diverse esecuzioni [27]. Questa è la ragione per cui, quando poniamo domande sulla musica in società diverse dalla nostra, spesso ciò a noi sembra la ripetizione di un evento musicale già noto è spesso considerata dagli insiders qualcosa di significativamente nuovo.
Vediamo quindi così quanto sia in un certo senso indifferente, almeno per gli scopi che si prefigge questo articolo, separare la musica improvvisata dalla musica non improvvisata. Il termine «improvvisazione» nasconde il processo compositivo dietro la cortina fumogena di una spontaneità che è solo parziale perché si basa necessariamente su di una profonda assimilazione di uno stile e del tipo di progetti compositivi che possono riprodurlo. La musica che conosciamo, sia essa eurocolta o meno, improvvisata o no, è quindi tutta da collocare nelle zone intermedie di un continuum ai cui estremi c'è da un lato il «tipo ideale» dell'invenzione totale di cose integralmente nuove, quindi non collegate ad alcuna tradizione (che assai raramente esiste, e forse in realtà mai è veramente esistito) e, all'altro, il tipo «reale» della riproduzione letterale (ottenibile solo meccanicamente o elettronicamente). Molta della confusione che incontriamo nelle zone intermedie di questo continuum nasce dalla nostro desiderio di rispondere a quella che, come ho avuto già modo di dire, in altre culture è spesso una domanda poco significativa: «Chi è il compositore?». È in effetti ben difficile dire esattamente da quale punto del continuum, in avanti, abbia senso parlare di compositori individuali, il nome di coloro - vale a dire - che hanno operato (subito prima del cosiddetto interprete) l'ultima «trasformazione» tra le tante e che sono responsabili del carattere della musica che ci è dato di ascoltare. C'è solo da sottolineare che il musicista improvvisatore, con la sua stessa presenza fisica di fronte allo strumento dà al suo pubblico davvero l'illusione di essere inequivocabilmente il solo autore della musica che produce e di fatto, invece, lo è quasi sempre di qualche grado meno del compositore-tartaruga che ha più tempo per scansare clichés e formule stereotipe [28]. Anche nel caso dell'improvvisazione quindi ci troviamo di fronte ad un esempio di composizione collettiva o, se si preferisce, collaborativa.

2. Improvvisazione nell'esecuzione

Ma sarebbe ingiusto dimenticare che la cosiddetta interpretazione costituisce uno stadio non irrilevante nel processo compositivo. Tra l'altro l'interprete, le cui azioni musicali si collocano in una zona lasciata libera dalla notazione eurocolta, può essere visto sia come improvvisatore che come musicista che riproduce fedelmente un modello mentale (di interpretazione-esecuzione) che egli si è piano piano costruito e che ha mandato a memoria.
Molto sì è scritto e discusso in passato sulla questione se l'interprete sia o non sia un creatore, un co-creatore o un ri-creatore della musica scritta dal compositore riconosciuto (Della Corte 1951; Graziosi 1952; Dart 1954; Brelet 1957, ecc.). La musicologia contemporanea sta riprendendo l'argomento in prospettiva nuova (Cone 1968; Danuser 1996a). È comunque una questione che può essere osservata, anch'essa da un punto di vista etnomusicale. Nelle culture che hanno sviluppato una notazione, questa consente di norma tutto ciò che non prescrive, appunto, normativamente (C. Sceger 1958). La cosa singolare è però che in sua presenza diciamo, «il brano è composto», oppure, «ecco una composizione», anche quanto in realtà molto rimane spesso ancora da aggiungere - si pensi all'esempio del basso continuo nella musica del periodo barocco. In questo caso si tratta in realtà di «comporre» o, se preferiamo, di produrre, letteralmente, molte più note di quante il compositore abbia messo sulla carta. E per farlo occorre, naturalmente, agire all'interno di un quadro stilistico prestabilito. E ancor prima, improvvisare in contrappunto era un talento che i musicisti delle orchestre di Peri e di Monteverdi possedevano a tal punto che le scheletriche partiture delle opere di quel tempo a noi rimaste non possono essere altro che una pallida traduzione grafica di cosa dovesse essere veramente quella musica all'atto della performance (Engel 1977). La libertà di intervento riconosciuta all'esecutore cambia naturalmente da epoca a epoca, da stile a stile, ma è difficile non pensarlo come un anello importante (e nemmeno l'ultimo, come avrò modo di riferire più avanti) del processo compositivo (che pericoli sul versante improvvisativo o, per contro, verso quella della riproduzione esatta di un modello ideale elaborato dal musicista interprete è, come abbiamo visto, non troppo importante ai fini di questa discussione). Del resto fu Kierkegaard a dire, e molti ancora lo ripetono: «La musica esiste solo nell'attimo in cui è eseguita» (Kierkegaard 1943).
E ammesso che sia utile distinguere tra compositore ed interprete la separazione dei loro compiti potrebbe essere demarcata osservando come l'essenziale per una tradizione musicale sia spesso visto come inessenziale da un'altra. Ciò che si considera essenziale, identificativo in un dato tipo di musica viene a volte notato, scritto, «composto». Ciò che lo è meno viene lasciato all'esecutore. Così nella musica eurocolta quello che è visto come intervento compositivo vero e proprio si esercita in quella «zona» che consideriamo cruciale, quella in cui deve comparire l'elemento innovativo (l'aspetto diastematico e ritmico della musica). All'esecutore rimane quel lavoro compositivo complementare che si colloca alla periferia del fatto sonico, della configurazione diastematica fondamentale. Ma questi sono gradi di importanza difficili da valutare. Pensiamo per esempio a quando agli esecutori era lasciata grande libertà di aggiugere quegli abbellimenti che in più di un senso molto concreto costituiscono l'essenza del far musica [29]. Dato che la musica è un fatto architettonico è possibile considerare non solo singole note o piccoli gruppetti di note, anche sezioni molto ampie di un brano musicale come essenzialmente «ornamentali» [30]. Il folksinger così come il compositore-esecutore di musica indiana, o della musica barocca occidentale assolve al proprio compito producendo ornamenti su piani diversi di maggiore o minore rilevanza strutturale [31]. Vista così dunque, l'interpretazione-performance risulta essere un anello essenziale del processo compositivo, e mette in luce ancora una volta il suo carattere collaborativo.

V. Altre collaborazioni e indebitamenti

Duke Ellington (1899-1974) è generalmente considerato il compositore più importante nella storia del jazz. Lo conosciamo come «autore» di circa 200 brani, compresi decine di piccoli pezzi strumentali, suites di grandi proporzioni, commedie musicali, musica da film, e un'opera incompleta e mai eseguita intitolata Boola. Ma le composizioni di Duke Ellington possono dirsi risultato di un processo collaborativo su almeno tre livelli. Il primo si ritrova in lui, come in ogni altro compositore, nel suo debito nei confronti della tradizione di riferimento, nella fattispecie, il jazz. Così Rattenbury ne esamina il metodo compositivo attraverso l'esame dei suoi brani pianistici giovanili e delle trascrizioni di importanti brani per piccoli gruppi strumentali o per orchestra. L'esame dettagliato di particolari elementi motivico-tematici, di particolari situazioni ritmiche e armoniche, conduce l'autore a identificare in queste composizioni la compresenza e il ruolo svolto da elementi derivati dal Blues, dal Ragtime, da Tiri Pari Alley e dalla musica colta, specie dalla musica francese (Rattenbury 1990).
Il secondo livello collaborativo, più interessante e di tipo più raro nella storia musicale, è evidenziato dalla collaborazione continua di Ellington con un altro compositore. Fu nel 1938 che Duke Ellington incontrò Billy Strayhorn che divenne ben presto il suo alter ego, contribuendo arrangiamenti per la Big Band e, cosa più interessante, funzionando anche da partner nascosto che completava brani lasciati incompleti da Duke Ellington, rielaborandone altri, e lavorando a tutti gli effetti come co-compositore tuttofare (a volte ricevendone credito e a volte no) (Haidu 1996) [32]. Ma l'opera di Ellington non è solamente partecipativa nel senso chiarito dai suoi debiti stilistici con la tradizione del jazz e dalla sua partnership con Strayhorn. Lo è anche perché Ellington, notoriamente, sviluppò un rapporto di vera e propria simbiosi con la propria orchestra. Questa orchestra era un laboratorio in cui egli consultava continuamente i suoi musicisti e provava con loro soluzioni alternative a specifici tentativi compositivi. In questa leggendaria Big Band Ellington dava ai suoi solisti la cornice ideale per mettere in mostra il loro talento. Al tempo stesso, essi gli fornivano materiale grezzo (frasi, riffs, soluzioni armoniche, suggerimenti sull'effettistica orchestrale) che trovava spesso la sua collocazione nelle composizioni ufficiali di Ellington. Il grande Duke era tanto abile nel riciclare questi suggerimenti che, a quanto pare (se non è vero è per lo meno plausibile), uno dei suoi musicisti avrebbe detto di lui che era «non un compositore di musica ma un compilatore»! Il caso di Ellington prova, credo meglio di tanti altri, come anche il processo compositivo scritto possa in qualche caso essere cooperativo e collettivo in modo vistosamente appariscente.
Non saprei citare altri casi, altrettanto eclatanti, di collaborazione esplicita, se non il più limitato - ma per questo anche probabilmente frequente - di accettazione più o meno occasionale di interventi collaborativi di cui ci fornisce un buon esempio Bruckner. È noto che Anton Bruckner revisionava continuamente le proprie sinfonie, per cui di quasi tutte ne esistono due o più versioni differenti di sua mano e anche versioni realizzate da direttori d'orchestra e da editori. Più interessante, e meno noto, è il fatto che abbastanza spesso Bruckner dava a musicisti bene intenzionati e, forse anche meno competenti di lui, il permesso di migliorare le proprie composizioni. Ne è risultata una serie considerevole di ambiguità, su quali fossero realmente le vere intenzioni dell'autore, che ancora oggi non si sono del tutto risolte. Per esempio, la sua 5a Sinfonia, composta nel periodo 1875-76, fu pubblicata solamente 20 anni dopo in una forma che porta pesanti interventi di Franz Schalk, e solo nel 1935 la partitura fu restaurata nella sua forma primigenia nell'edizione critica approntata da Robert Haas per la International Bruckner Society (W. Wolff 1942; Cooke 1969). Qui ci troviamo di fronte ad un tradizionale problema di filologia, di ripristino di un originale, un problema che i musicologi hanno sentito come uno dei loro compiti principali a partire sin dalla seconda metà dell'Ottocento. A guardare questo atteggiamento filologico da un punto di vista socio-antropologico viene però da osservare come esso tradisca una visione delle cose che tende a negare il carattere collettivo del processo compositivo e a discreditarlo. Nessuno si domanda mai se Bruckner non abbia preferito la propria 5a sinfonia nella versione rimaneggiata da Schalk e se questa preferenza (qualora sia accertabile) non debba essere riconosciuta come «intenzione del compositore» da rispettare come, e forse di più, dei segni grafici «autentici» che egli ci ha lasciato con la partitura precedente (W. Wolff 1942; Cooke 1969). Come nel caso della «Gerusalemme liberata», e della «Gerusalemme conquistata» di Torquato Tasso, quale sarà la versione migliore? L'autore preferiva la seconda, noi tutti invece, lettori appassionati di poesia e critici letterari, concordiamo nel preferire la prima versione del poema. Non tanto differente è il caso della «Fanciulla del West» di Giacomo Puccini. Gabriele Dotto ha mostrato molto bene, alcuni anni fa, che numerose differenze di dettaglio esistono tra l'autografo pucciniano e le piastre di incisione della partitura approvate poi dall'autore. E ben poche di queste alterazioni possono essere fatte risalire al compositore ma sono, in definitiva, suggerimenti di Toscanini accettati da Puccini (Dotto 1989). E facile immaginare quanti altri simili casi potrebbero venire alla luce se caparbiamente ricercati nella storia musicale.
Non sono peraltro rare le situazioni in cui i compositori esplicitamente riconoscono il loro debito nei confronti di materiali di provenienza popolare. In tal caso, come lo fu per Bartók, tengono in genere a sottolineare che non per questo il compito del compositore diviene meno creativo. Béla Bartók sostenne con forza che per giudicare il talento di un compositore ha ben poca importanza andare a vedere se egli sia l'autore del materiale tematico che adopera o se, invece, utilizzi materiale di derivazione folklorica (Bartók 1977). In un certo senso egli desidera mettere in luce quella che in altro campo il critico d'arte Roberto Longhi definiva «l'irrilevanza dell'oggetto». Longhi intendeva dire con questo che poco importa quale sia l'oggetto che il pittore decide di ritrarre; può trattarsi di un paesaggio naturale, può essere una vile suppellettile, o pure un oggetto immaginario prodotto dalla mente dell'artista e ciò, in definitiva, per la riuscita dell'opera d'arte non ha alcuna importanza
(Longhi 1914). In fondo, dice Bartók, il materiale tematico costituisce solo «l'oggetto» del comporre. Pur se questo modo di concepire la composizione mette in luce il carattere trasformativo del processo (comporre è più trasformare che non inventare), pure quello di Bartók è un atteggiamento estetico che col riconoscere al materiale minima importanza tende a mantenere il compositore su quell'alto piedistallo che il Romanticismo gli aveva fornito. Dico questo non certo per disconoscere l'innegabile originalità dell'arte bartokiana. Rimane pur vero, ciononostante, che il materiale di partenza non è irrilevante. In realtà è come se Bartók avesse scelto di collaborare con un gruppo di compositori anonimi che gli hanno offerto un materiale di base da cui partire. Non dovrebbe essere necessario sostenere che l'arte di Bartók, senza il riferimento costante alla musica tradizionale magiara sarebbe stata tutt'altra cosa. Anche in questo caso dunque, per dare a Cesare ciò che è di Cesare, occorre pur riconoscere che anche la musica di Bartók è un prodotto collettivo, anche se poi fortemente individualizzato, come solitamente avviene nella tradizione eurocolta.
Semmai i compositori della cosiddetta «musique concrète», dato il carattere inerte ed informe del materiale che adoperavano più facilmente ancora di Bartók potevano rivendicare il ruolo preminente del compositore (si tratta però, veramente, di un caso limite). Qualcosa di simile, ma qui il discorso si fa più delicato, avviene oggigiorno con il riciclaggio creativo che si effettua sempre più spesso nel mondo della musica techno, rap, new age, ecc. Avviene in numerose forme diverse. A differenza dei primi sintetizzatori, gli strumenti elettronici di oggi non imitano lo strumentario tradizionale ri-sintetizzando i suoni dell'orchestra. Al contrario, sono programmati per campionare i suoni reali degli strumenti o delle voci. Così i musicisti nel mondo del rap e della dance music, di frequente prendono intere frasi strumentali dai dischi a loro disposizione e, digitalmente, li inseriscono nelle loro canzoni. A volte sono citazioni, a volte parodie (nel senso antico della parola), a volte processi di vera e propria digestione e metabolizzazione creativa di materiale altrui. Questi musicisti, del resto, possono poi anche riciclare le loro stesse cose producendo dei mix differenti di un dato gruppo di registrazioni per mercati e pubblici differenti. Essi realizzano così con l'aiuto della tecnologia e con efficienza industriale forme di «autofagia» che altri musicisti del passato (da Rossini a Nino Rota) avevano realizzato più artigianalmente (Cutler 1995; Norman 1996). In ogni caso, il riciclaggio elettronico che si effettua oggi mostra molto bene, mette a nudo direi, come una tradizione viva abbia bisogno di nutrirsi continuamente di sé stessa, per essere sempre più consapevole di ciò che è. Così facendo, selezionando e riselezionando i materiali da riutilizzare (proprio come nelle tradizioni orali della fascia folklorica) la tradizione va avanti e si rinnova.

VI. ALGORITMI O QUASI

«Se intesa correttamente l'analisi altro non è che l'inverso del processo compositivo», così ebbe a esprimersi una volta Manfred Bukofzer (Bukofzer 1947). Nell'ambito in cui ciò può essere vero (non tutta l'analisi è interessata al processo del comporre) e nei limiti in cui il processo compositivo ha qualcosa in comune con il pensiero logico-formale, è possibile rendersi conto con la riflessione analitica di come i produttori di musica - nella misura in cui sono individuabili nello spazio e nel tempo come entità discrete animate da intento compositivo - attuino volta per volta delle vere e proprie strategie compositive (degli «algoritmi» direbbero i matematici). Attraverso queste strategie è possibile misurare l'entità del loro intervento sui materiali della tradizione e, naturalmente, le stesse strategie del comporre possono essere, esse stesse, più o meno tradizionali o innovatrici. Per dirla altrimenti: si tratta di strategie, di procedimenti che a seconda delle condizioni storico-culturali in cui operano possono essere più o meno standardizzati o, al contrario, più o meno personalizzati o, come si dice in inglese, «idiosincratici» (Delalande 1993). Quello delle strategie compositive è un argomento vasto e affascinante. In questa sede ne citerò solo alcune per portare sostanza alla tesi di questo articolo.
Anche in questo caso potrei rifarmi a Max Weber dicendo che tutte le strategie compositive (procedimenti che consentono la consapevole manipolazione e disegno generale della forma) potremmo collocarle all'interno di un continuum delimitato, da un lato, dal nipo ideale» costituito da quelle puramente meccaniche e, dall'altro, dal «tipo ideale» di quelle totalmente originali ed inventate ad hoc da un compositore. Sono «tipi ideali» perché, se pur è possibile trovare nella realtà esempi che a loro molto si avvicinano, la coincidenza con l'ideale perfetto non si realizza veramente mai.
L'algoritmo meccanicistico ebbe una qualche fortuna, per lo meno salottiera, nel corso del XVIIImo secolo; risultato evidente di una tradizione culturale razionalista. Penso al metodo per comporre con i «dadi» di Mozart e all'altro di Athanasius Kircher che nella sua «Musurgia universalis» (1650), nel capitolo intitolato «Liber Octavus de Musurgia Mirifica», espone un procedimento che avrebbe consentito la composizione musicale anche a chi, del tutto privo delle più elementari nozioni di teoria, avesse voluto cimentarsi in tale unpresa. Poteva decidere poi l'utente (con o senza l'aiuto dei dadi) come combinare e cucire tra loro i segmenti preordinati da Kircher [33]. Oggigiorno i procedimenti meccanici, automatici o semiautomatici si giovano dell'intelligenza artificiale. Uno dei più sofisticati di cui io sia a conoscenza è quello sviluppato dall'americano David Cope. Cope ha elaborato un programma, detto EMI, che consente al computer di elaborare secondo strategie prefissate, materiali musicali che lo stesso David Cope preseleziona e dà al computer come input. La cosa interessante è che lo stile musicale manifestato dai brani prodotti dal computer si «evolve» man mano che aumenta l'input, e col suo aumentare si evolvono pure i processi trasformativi che il computer attua [34]. Sono affascinanti questi procedimenti perché pur nella loro crudezza mettono in evidenza come il comporre sia veramente un «mettere insieme», un comporre, frammenti (melodici, ritmici, armonici, ecc.) che il compositore deve andarsi a cercare e prendere da qualche parte. Essi mostrano anche come il compositore debba decidere di volta in volta sulla base di predisposizioni culturali e preferenze personali se i mattoni della sua costruzione debbano essere in qualche modo limati e adattati prima dell'uso. Questo lo vediamo meglio in quei casi di procedimento compositivo che, sul continuum cui accennavo prima, si allontanano dal «tipo ideale» di produzione musicale meccanica.
Vediamo così che Dittersdorf, Dussek (e tanti altri loro contemporanei) usarono il periodo di otto battute con una regolarità assoluta, mentre la periodicità delle frasi in Beethoven, che Riemann cercò di chiarire nelle sue analisi, è spesso irregolare, ambigua, in un certo senso arbitraria [35]. Allo stesso modo possiamo vedere come alcuni altri compositori un metodo compositivo additivo e modulare sia prevalente: pensiamo ai procedimenti additivi, sul cantus firmus, dei musici medievali, teorizzati fino al XVIII sec. da Padre Martini, ai «soli» virtuosistici di Vivaldi che sono prevalentemente non tematici e si basano su progressioni e processi cadenzali che erano all'epoca dei «moduli» di dominio pubblico. Fu Charles Rosen a commentare che ciò che scompare tra l'epoca di Mozart e quella Schoenberg «era la possibilità di usare in musica ampi blocchi di materiale prefabbricato», vale a dire «gesti convenzionali» di vario genere che si trovano ad ogni passo nella musica dei compositori fino al XVIII secolo (Rosen 1975). Ci sono naturalmente eccezioni alla regola, come quando in Stravinsky troviamo quasi una pietrificazione del sistema tonale e una riutilizzazione di tecniche musicali del passato come se appartenessero ad una lingua morta. E tutti questi atteggiamenti compositivi sono in realtà, ormai lo vediamo chiaramente, tutti collaborativi, in varia e diversa misura. Dei tanti casi di prestiti, citazioni, riferimenti, parafrasi, variazioni, ecc., non mette conto parlare perché di per sé sufficientemente evidenti. Semmai aggiungerei che ciò che abitualmente siamo abituati a considerare «influenze» esercitate da un compositore su di un altro, da un diverso punto di vista possono essere considerate forme di collaborazione differita nel tempo: quando nel 1781 Joseph Haydn percorse la sua nuova via, con il lavorio tematico e la polifonia dei Quartetti op. 33, anche per Mozart la costituzione interna del singolo movimento divenne l'obiettivo principale. Nel 1785, con i sei quartetti dedicati a Haydn, la meta fu raggiunta: Mozart non si limitò ad accogliere il principio del lavorio tematico, ma fece addirittura in modo che il secondo tema derivasse dal primo.
Strategie compositive possono anche ritrovarsi, evidentemente, al livello della macroforma. Penso al caso di Giuseppe Verdi che fu probabilmente il primo operista italiano a passare dal metodo tradizionale di comporre uno per uno i vari «numeri», all'abitudine di stendere un primo abbozzo sommario che contenesse tutta l'opera nelle sue linee fondamentali. Anche in questi casi, nella macroforma, è spesso possibile riconoscere l'indebitamento del compositore a qualcuno o a qualcosa. È il caso di Wagner che inizialmente aveva posto l'invenzione della parte vocale, come gli operisti italiani, al centro della propria visione compositiva. A partire dal 1850 circa, però, i suoi motivi orchestrali venivano abbozzati fin dalle prime fasi del processo creativo (Deathridge, Geck e Voss 1986). Da quel momento in poi Wagner diventa un maestro della grande forma e Alfred Ottokar Lorenz, prendendo in esame la forma Bogen e Bar (Stollen, Stollen, Abgesang), della poesia medievale tedesca, diede una prova abbastanza convincente che queste concettualizzazioni formali spiegano pure (anche se su di una scala temporale molto più ampia) le opere di Wagner (Lorenz 1966). In altre parole: la cosiddetta Barform è applicabile, su scala ipertrofica, anche alle opere di Wagner. All'estremo opposto della pianificazione della grande forma c'è il Durchkomponieren. È il caso, per citarne uno tra i numerosissimi, di Gian Francesco Malipiero in cui colpisce il carattere capriccioso, bizzarro, rapsodico e apparentemente improvvisatorio delle sue strutture musicali. Il suo discorso non si articola quasi mai a sviluppo tematico ma, invece, ad invenzione musicale continua, alimentata da uno scaturire di idee tematiche prima esposte e poi incessantemente rinnovate con piccole varianti. È il caso anche, pur se in modo assai diverso della musica dei XVI secolo il cui ideale, in fondo, non era quello della simmetria e della ripetizione, ma piuttosto quello del Durchkomponieren di un testo sezione dopo sezione. Ma anche il Durchkomponieren non rifiuta necessariamente stereotipi e clichès che trovano il loro spazio a livello di microentità compositive.
In un certo senso la strategia compositiva più diffusa in ambito eurocolto è la stessa notazione normativa che, a partire dal tardo medioevo, consente ai compositori europei una consapevole manipolazione della forma. Esemplare, tra i tanti possibili, è l'esempio di Guillaume Dufay e del suo famoso mottetto Nuper rosarum flores scritto per la consacrazione del Duomo di Firenze nel 1436. Charles Warren in un articolo di parecchi anni fa mostrò in modo convincente che questo mottetto è il risultato di un deliberato tentativo di Dufay di trasporre in musica il progetto architettonico del Brunelleschi (Warren 1973). E se così effettivamente è possiamo e dobbiamo allora dire che il Brunelleschi ne è pure, almeno in parte, il compositore. Si mostra così che quando il processo compositivo è al massimo grado consapevole esso si appoggia spesso a procedimenti extramusicali che sono resi possibili da una notazione efficacemente «prescrittiva». Questo non è il caso di altre notazioni che maggiormente pencolano sul versante «descrittivo» o che, come quella giapponese sono legate ad uno strumento da non consentire di pensare la musica in termini astratti da esso: allora costringono il compositore a comporre con lo strumento in mano (Malm 1959). La caratteristica rivoluzionaria della notazione eurocolta, invece, è quella di consentire di pensare la musica indipendentemente (entro certi limiti, beninteso) dallo strumento sul quale si vuole eseguire. È così che nella nostra cultura tanta continuità ha potuto avere il «filone pitagorico». È ben noto infatti che i compositori medievali usavano la matematica come per esempio Boezio con le sue «medie» numeriche (aritmetica, geometrica e armonica). È altrettanto ben noto come il pensiero rinascimentale fosse interessato alla matematica in rapporto alla scultura, musica, pittura, architettura, etc. Nulla di strano quindi se alcuni compositori del XXmo secolo hanno usato programmi e algoritmi basati sulla teoria degli insiemi, probabilità e frattali (da Joseph Schillinger a Béla Bartók a Milton Babbitt a Xenakis a Ligeti a Robert Cogan) (Escot 1988; 1997; Sonus 1996). Alcuni hanno pure scritto sul proprio, personale processo compositivo e sul ruolo che la matematica gioca in esso. Tutto ciò, naturalmente, grazie all'ausilio della notazione che, ribaltando la dimensione temporale della musica in una artificiale spazialità grafica, sulla quale è facile intervenire architetonicamente.
Ma strategia compositiva non vuole dire sempre e necessariamente ordine e struttura. Al contrario, tanta della grande musica che conosciamo è grande proprio perché il compositore (i compositori) ha saputo mantenersi in equilibrio precario tra l'ordine e il caos riuscendo a comunicare ai suoi ascoltatori l'apprensione e l'ansietà che il muoversi tra questi due poli può comportare. Leonard B. Meyer, che sviluppò negli anni '50 un'interessante teoria delle emozioni in musica, lo mise in luce piuttosto bene (Meyer 1956). La sua teoria delle aspettative riguarda la reazione affettiva alla natura del suono musicale in sé, senza prendere in considerazione referenti esterni al suono stesso.
Ed è una teoria che ci aiuta a comprendere quanto possa essere personale l'esperienza dell'ascolto dato che l'orizzonte delle aspettative è condizionato sia dalla cultura che dalla psicologia individuale. Meyer riconosce che questo tipo di risposta ai caratteri specificamente sonori di un brano musicale non è la sola possibile (non è la sola a creare effetto, affetto e senso) ma la considera la più significativa: ciò che rende possibile alla musica di accendere delle emozioni di piacere è il comunicare la sensazione che l'incertezza è sotto controllo e sarà risolta efficacemente. Il significato di un evento musicale - si tratti di una nota, di un motivo, di una frase o una sezione - risiede nel fatto che essi conducono l'ascoltatore allenato a prevedere, consapevolmente o meno, l'arrivo di un evento susseguente e conseguente - oppure un numero anche vasto di possibili eventi alternativi. Il significato della musica sarebbe quindi una funzione del grado di probabilità che un particolare evento sonoro - in un dato contesto - sembra possedere (Meyer 1961). Arriviamo così a dover parlare di «ascolto», «ricezione» e «costruzione sociale» del fatto musicale.

VII. IL PROCESSO COMPOSITIVO PROSEGUE
CON L'ASCOLTO E LA RICEZIONE

Si è osservato nella pagine precedenti che sarebbe fuorviante affermare che il processo compositivo, in quelle culture che hanno sviluppato una notazione normativa, si compia completamente con la preparazione della partitura. Questo perché la cosiddetta «esecuzione-interpretazione» che ha luogo successivamente, consiste nell'agire su quegli aspetti del far musica considerati meno essenziali dalla notazione (o meno adatti ad essere espressi da essa) e che però sono tutt'altro che irrilevanti per la costruzione finale dell'oggetto sonoro. Ma c'è di più. Dopo la partitura e dopo la performance, viene l'ascolto che filtra e organizza il dato sonoro fisico e lo confonna in modo da rendergli attribuibile un qualche senso o significato. Si tratta, in fondo, di riconoscere che la musica è in egual misura attività costruttiva, oggetto sonoro fisicamente misurabile, individuabile nello spazio e nel tempo, e fatto psico-percettivo.
Probabilmente il primo a sottolineare che l'ascolto non è cosa aproblematica fu Hugo Riemann, quando suggerì che esso non consiste nel registrare passivamente gli effetti della vibrazione acustica sull'organo dell'udito ma, piuttosto, nell'attivare le funzioni logiche della mente [36]. Da questa sua convinzione scaturì la tesi di dottorato che dette a Göttingen nel 1873: «Über das musikalische Hören». E poi ci fu Besseler, quasi cinquant'anni dopo, che articolò alcune domande fondamentali pertinenti all'ascolto che sono ancor oggetto di riflessione nella musicologia contemporanea (Besseler 1925). Tredici anni dopo Hans Mersmann ci diede un'intera ricognizione dell'arco storico della musica occidentale, prendendo il punto di vista di chi ascolta. Il focus di questi studiosi era il tentativo di comprendere come gli aspetti formali delle composizioni musicali potessero essere più o meno consapevolmente percepiti dal pubblico in rapporto alle diverse possibili aspettative estetiche. E ci vorranno circa altri trent'anni per arrivare alla conclusione (quasi universalmente condivisa oggigiorno) che l'esperienza musicale dipende «crucialmente» da quanto l'ascoltatore può portare ad essa (Nattiez 1987a; 1987b; Delalande 1993). L'ascoltatore dunque «costruisce» significati sul dato sonoro (a livello individuale e in un contesto sociale) e quindi, in tal senso, contribuisce alla «composizione» del risultato finale. E se l'ascolto è così importante, egualmente importante è il comportamento degli ascoltatori nel loro complesso, dunque il comportamento del pubblico e dei pubblici che si succedono nel corso della storia, nei confronti di un compositore, un genere, stile musicale o repertorio (Leppert 1987). Di ciò si è occupato quel ramo della storia sociale della musica che diciamo Rezeptionsgeschichte. Essa ci ha mostrato come sia in questo ambito, quello del pubblico, che si attua un complesso processo di selezione e costruzione del repertorio che è indubbiamente creativo che ha il suo esatto corrispondente in quell'attività di selezione condotta da una comunità che plasma e configura i caratteri della musica di tradizione orale (Mueller 1951; Karpeles 1955). Anche quando non è il pubblico o la comunità ad esercitare una censura e a promuovere il processo di selezione, ma un compositore, è più che lecito presumere che sia il previsto giudizio degli altri ad attivare una censura preventiva (pensiamo al laborioso processo compositivo di Beethoven, Chopin, Webern) (Fay 1880; Lockwood 1992; Slireffler 1994). Insomma, il processo selettivo, anche quando attuato dal singolo compositore è sempre un processo sociale, perché ha dei termini di riferimento sociali. Quando per esempio un operista italiano dell'Ottocento preparava una versione particolare di una sua opera per adattarla al gusto parigino, così facendo lasciava entrare in modo assai concreto nella propria musica l'orizzonte delle aspettative di quel pubblico [37] (Gavazzeni 1960). Pure in questo modo particolare, ma pure reale e tangibile, il pubblico partecipa (inconsapevolmente) al processo compositivo. Del resto, già all'inizio del secolo, parecchio prima quindi che la Rezeptionsgeschichte divenisse qualcosa di importante nella musicologia, Gaston Rageot, studioso di estrazione positivista, affermava che l'opera d'arte è un fatto storico non solo nella sua apparizione in un determinato tempo e luogo, ma anche e soprattutto nel suo destino. Ne consegue l'utilità estrema di studiare ciò che avviene all'opera a partire dal momento in cui viene consegnata al pubblico. Secondo Rageot l'attenzione dello storico deve rivolgersi dunque non tanto al momento poietico dell'opera, ma innanzitutto e soprattutto alla sua vita nel corso dei tempi che seguono (Rageot 1906). E il pubblico nel corso del tempo sarà costretto a dare alle musiche del passato nuovi e diversi significati. Non potrà fingere di ascoltare musica antica come se le proprie orecchie non conoscessero la musica che collega quell'antichità più o meno remota alla contemporaneità [38]. La musica è una macchina del tempo imperfetta, consente ai nostri occhi di scorgere aspetti tangibili del passato mentre i nostri piedi rimangono ancorati al presente (Sessions 1950; Martina 1993).

VIII. COSTRUZIONE E DE-COSTRUZIONE SOCIALE
DEL FATTO MUSICALE E DEL SUO SENSO


Quando si parla di ascolto (attività individuale) e di ricezione (risposta collettiva all'attività di ascolto) non si è lontani da uno degli argomenti che molto hanno occupato la sociologia delle arti, ma non solo delle arti, a partire dagli anni'50/'60: la «costruzione sociale» dei fenomeni. Si può parlare di costruzione sociale dell'io individuale (Coulter 1978, Gergen & Davis 1985), delle arti e dei valori estetici (Zolberg 1990), o addirittura della realtà nel suo complesso (Berger & Luckmann 1966). Per quanto riguarda le arti, con «costruzione sociale» si intende dire che, dati alcuni oggetti o forme di comportamento che all'interno di una cultura sono potenzialmente classificabili come fatti «artistici», allora l'esatta loro collocazione in gerarchie di valore (il loro «senso» e «significato») in un dato momento storico sono il risultato di un processo collettivo di costruzione di quel «senso» e di quel «significato». Si tratterebbe di un processo collettivo di interpretazione di un senso che un dato oggetto o comportamento può originariamente possedere (magari inteso dalla persona che ne è in certo senso l'autore), di fraintendimento di quel senso (Bloom 1975), o di creazione ex novo di significati che nulla hanno a che fare con le intenzioni originarie del cosiddetto «autore» (Sorce Keller 1988a). Pensiamo ad una cattedrale: può essere stata costruita per dare prestigio ad una città. La generazione successiva può trovarla assai brutta, un'altra ancora può apprezzarla come simbolo religioso, una successiva può venerare la sua antichità, un'altra ancora può decidere che è soprattutto bella. Costruzione sociale è dunque il processo di formazione di un consenso attraverso il quale si arriva a questi giudizi. Prendendo atto di esso diviene ben più facile spiegare le alterne vicende di opere d'arte del passato, valutate o non valutate a seconda dei casi e delle circostanze storiche e, allo stesso modo, diviene più agevole comprendere come compositori una volta famosi a un certo punto cessino di esserlo o, viceversa, oscuri musicisti divengano ad un dato momento dei riferimenti importanti per le generazioni successive. Ben più facile diviene così spiegarsi la posizione critica dell'Artusi di fronte a Monteverdi o quella di Scheibe nei confronti di J.S. Bach (Danuser 1996b).
Molto hanno da dire i sociologi per spiegare la «costruzione di senso», partendo dall'osservazione che delle tante cose consuete che ci capitano nel corso della vita, la maggior parte non ci colpisce inizialmente più di tanto. Mai e poi mai potremmo immaginare che alcuni di questi avvenimenti, carichi di modesta rilevanza intrinseca diventeranno dei punti di riferimento della nostra memoria. E alcuni lo divengono perché producono conseguenze che, in retrospettiva, possono farceli vedere come punti di svolta nella nostra vita. Qualcosa di simile, aggiungono i sociologi, può succedere all'opera d'arte. E quando invece di opere d'arte ci occupiamo dei loro autori, vediamo allora che anche loro, gli artisti si formano in un rapporto di interazione con i valori e le classificazioni della comunità. Sono valori e classificazioni che interagiscono, a volte, con ciò che viene valutato e classificato. Consideriamo, per esempio, cosa la categoria di «genio» abbia fatto agli artisti romantici che vedevano se stessi come «geni», e come a loro volta il loro comportamento abbia influenzato la stessa costruzione sociale della categoria di «genio». Ora, che simili processi di costruzione e decostruzione di significato e valore, per le opere d'arte e per i compositori, si verifichino anche nell'ambito della musica eurocolta è difficile dubitarne. Che selezioni ripetute su base valutativa diversa recuperino talora prodotti scartati da selezioni precedenti promuovendo di volta in volta (o degradando sul campo) lo status e il prestigio di opere ed autori è in fondo, pure, ovvio e naturale. È un fatto ormai noto che, un tempo, persone musicalmente assai competenti potevano parlare della «scuola classica di Mozart e di Hummel», mettendo quindi i due musicisti sullo stesso piano; che riuscivano a vedere in Stemdale Bennett (1816-1875) una figura meritevole di figurare nel Pantheon della musica inglese al pari di Henry Purcell e che arrivavano ad apprezzare le «classiche» interpretazioni che Sigismund Thalberg dava di Beethoven, classiche perché avevano il buon gusto di rinunciare a quegli «abbellimenti estemporanei che non erano strettamente necessari» (Salaman 1901). Nel corso del tempo, evidentemente, la graduatoria dei meriti ha sovente visto sostituzioni, dedassificazioni e riabilitazioni. Si pensi all'ascesa vertiginosa di Johann Sebastian Bach (1685-1750) durante la prima metà del XIXmo secolo, sotto la spinta di opinion makers quali il suo primo biografo Johann Nikolaus Forkel (1749-1818); Felix Mendelssohn-Bartholdy che nel 1929 diresse la famosa esecuzione della Passione Secondo S. Matteo; i fondatori della Bach-Gesellschaft nel 1850 tra cui vi erano persone assai influenti nell'establìshment musicale tedesco dì allora, per esempio il musicista, didatta e teorico Moritz Hauptmann (tra l'altro successore di Bach alla Thomaskirche di Lipsia), il compositore Robert Schumann e il critico musicale Hermann Kretschmar (Einstein 1935). La costruzione sociale di Bach è continuata poi nel nostro secolo fino ad arrivare alle trascrizioni di Stokowski, agli arrangiamenti degli Swingle Singers, di Wendy Carlos e Jacques Loussier. Si pensi, per contrasto, all'immediato e - sembrerebbe - definitivo declino della reputazione di Saverio Mercadante, immediatamente successivo alla sua morte. Si consideri, da ultimo, il singolare caso di Rossini, celebrato quant'altri mai in vita, poi declassato a compositore di secondo rango (il semplice Maestro del «Barbiere») non appena si affermò la musicologia tedesca (che applicava canoni estetici forgiati quasi unicamente sullo studio della absolute Musik o del dramma wagneriano) e successivamente - ai giorni nostri - riportato in primo piano da un'operazione ad un tempo musicologica e commerciale, pilotata principalmente da Philip Gosset dell'Università di Chicago.
Se vi sono state composizioni (ed autori) che alternativamente nel tempo sono state classificate al massimo livello per essere poi magari declassate e successivamente riabilitate, è pur vero che ve ne sono altre che non hanno mai ottenuto grande considerazione - spesso indipendentemente dal livello qualitativo dell'artigianato che le ha prodotte. La storia sociale della musica ha messo in luce che numerose possono essere le ragioni che impediscono ad una composizione musicale di entrare nel Pantheon e quindi in un regolare circuito di uso; per esempio: il far parte di una tradizione musicale minoritaria nell'ambito di una società articolata e pluralistica; l'appartenenza ad un genere relativamente poco importante (è un fatto curioso, ma i grandi capolavori si ritrovano quasi solamente nei «generi maggiori»: sonata, sinfonia, melodramma, oratorio, ecc.); nel caso della musica cantata, l'uso di una lingua poco conosciuta può essere di gran detrimento; può esserlo pure l'uso di uno stile d'avanguardia, in periodi storici in cui l'innovazione è scarsamente considerata; anche la mancanza di opinion makers che si interessino alla composizione o al suo compositore può rivelarsi un handicap insuperabile; oppure non entrano nella tradizione colta europea (in cui il senso del ritmo si è intellettualizzato fino a perdere molto della sua fisicità) musiche che inducono movimenti ritmici viscerali, ipnotici, e che vengono quindi per questo derubricate a rango di musica leggera e di consumo (Sorce Keller 1996).
Ecco dunque che se l'arte non è creata nel vuoto essa nel vuoto non vive nemmeno. Come ha detto una sociologa contemporanea: «Da un punto di vista sociologico l'opera d'arte altro non è che un momento in quel processo a cui partecipano più attori, operanti attraverso istituzioni sociali e seguendo tendenze storicamente osservabili» (Zolberg 1990:9). Certo, agli inizi del secolo Gaston Rageot era una voce solitaria a dire queste cose. A partire dagli anni '50 tale voce dà luogo ad un vero e proprio coro, specie nei paesi di lingua tedesca, dove la Rezeptionsgeschichte ha progressivamente attirato l'interesse degli studiosi ed è, successivamente, approdata agli studi di costruzione sociale di area, principalmente, anglo-americana (Faltin e Reinecke 1973; Leppert e McClary 1987; Borio e Garda 1989).
In definitiva, è possibile sostenere che ogni tentativo di apprezzare un evento artistico è in certa misura una ri-composizione. Harold Bloom affermò una volta che ogni opera d'arte è al tempo stesso imitazione e fraintendimento di un'opera precedente (1975). Questo è evidentemente quello che i registi cinematografici fanno continuamente e alla luce del sole, quando adattano allo schermo un'opera letteraria; e sono considerati veri artisti ciononostante. I riadattamenti musicali invece, ricevono in genere un accoglienza più fredda. Quando Raul Gunsburg riadattò e mise in scena la «Damnation de Faust» di Berlioz, facendone per la prima volta un successo di pubblico, Debussy commentò che l'operazione era un atto blasfemo (Debussy 1921). Di certo era una operazione che indeboliva lo status di Berlioz in quanto «autore» e un altro autore come Debussy, consapevole come era dei propri talenti e meriti, non poteva non risentirsene. Eppure è inevitabile che cose del genere avvengano e continuino ad avvenire. Un brano può essere «edito», «arrangiato», «trascritto», «citato». Un pezzo può anche essere soggetto ad «interpolazioni», procedimenti di «centonizzazione» e «parodia». Può persino essere rivisitato dall'autore stesso anni dopo che l'originario istinto creativo si è estinto. Rimane pur sempre musica, anche se non necessariamente la «stessa» musica. E sono tutte spesso operazioni utili, se non necessarie. In fondo gli Swingle Singers ravvivarono l'interesse di molti studenti di conservatorio per i quali «Das woltempetierte Klavier» era diventato solo una raccolta di melodiosi esercizi da tastiera. Liszt e Thalberg fecero meravigliosamente a parafrasare delle arie d'opera che erano state cantate e ricantate fino alla noia. In un altro ambito la revisione di Mendelssohn della «Matthäus Passion» e l'edizione che fece Alessandro Longo di alcune sonate dì Scarlatti ebbe grande successo nel rendere vive delle musiche che nel suo tempo, in altra forma, non avrebbero potuto vivere.
Tutti questi sono atti compositivi e, al tempo stesso, atti «forti» di costruzione sociale di senso. Dato che ho parlato di ascolto e di ricezione, occorre sottolineare che gli atti «deboli» di costruzione sociale, quelli che avvengono nella mente di un singolo ascoltatore e nel suo successivo influenzare altri ascoltatori individuali, non sono meno importanti. Se non fossimo capaci di prescindere dal contesto originario (geografico e temporale) di un fatto artistico, se non sapessimo costruire su di esso dei significati compatibili con il nostro modo di essere e con la nostra cultura, non potremmo mai ascoltare Hildegard von Bingen e Stravinsky, Machaut e Ravi Shankar, Giuseppe Verdi e il gamelan balinese, Xenakis e Quincy Jones. Eppure non solo riusciamo a farlo ma dando prova di grande creatività sappiamo perfino cogliere l'originalità di una musica in rapporto alle idiosincrasie dell'altre (Martin 1995). Sono pur tuttavia tutte operazioni di «costruzione di senso» talmente al di fuori dell'orizzonte culturale del «compositore» riconosciuto, che egli non avrebbe potuto immaginarle e, probabilmente, avrebbe detestato se avesse potuto farlo (ma prima dell'Ottocento, del resto, i compositori non prevedevano nemmeno che la loro musica potesse diventare la musica di generazioni a venire). Come più volte fece notare Roland Barthes, paradossalmente, la nascita del fruitore va di pari passo con la «morte» dell'artista creatore.

IX. CONCLUSIONI

Come si compone allora un brano musicale? Lo si compone prendendo un brano, o una sua parte e trasformandolo in uno nuovo, secondo procedimenti stabiliti dalla propria cultura che si mantengono all'interno dei limiti che essa pone all'innovazione. Sono procedimenti a cui concorrono in molti, più o meno consapevolmente. Quello del comporre è dunque, essenzialmente, un atto trasformativo (le parole «creazione e invenzione» sono a questo proposito altamente fuorvianti). C'è un input e c'è un output. Questo processo può essere consapevole o inconsapevole, può essere orale (variazione, selezione, esecuzione) oppure scritto (cosciente manipolazione della forma). In ogni caso: finché si opera all'interno di una tradizione il risultato è sempre altamente ridondante: formule, cadenze, frasi fatte (progressioni melodico-armoniche), effetti standard (quinte vuote, settime di diminuita), ecc. Tutte cose che sono (mi riferisco evidentemente all'ambito della musica eurocolta del common practice period) e dovevano essere di dominio pubblico. Ogni brano allora, in un certo senso altro non è che una ricapitolazione di ciò che una tradizione musicale ha saputo produrre fino a quel momento e, al tempo stesso, una esplorazione di alcuni dei suoi limiti. Ciò che è bello vedere, verificare e apprezzare in un brano musicale, in fondo, è proprio questo: il grado e il modo della trasformazione. Ogni tanto qualcuno lo ha notato e lo ha detto chiaramente, come quando Willibald Gurlitt affermò che l'originalità e la maestria di Bach «non si fondano tanto sulla bontà delle idee musicali e sulla qualità dell'invenzione musicale quanto su un fecondo genio della combinazione che sviluppa, rielabora e porta a compimento i modelli preesistenti» (Gurlitt 1954).
Ciò che muta, naturalmente, da cultura a cultura è il livello dell'intervento trasformativo e la consapevolezza individuale e sociale di esso; un intervento che può agire a livello strutturale oppure a livello microcompositivo (basso continuo e abbellimenti, p. es.). È questo che rende interessante lo studio comparato dei repertori e delle tradizioni. È affascinante vedere e comprendere perché in un certo luogo e in un dato tempo certi procedimenti trasformativi e non altri sono accettati e preferiti. Si è visto così che il processo compositivo nelle società tradizionali non coinvolge in genere la manipolazione della forma. La forma è un dato di base in queste società. La consapevolezza e il desiderio che comporre voglia dire anche manipolare la forma (come nell'ambito eurocolto) nasce in genere dalla presenza di una notazione prescrittiva che, in certa misura, astrae dallo strumento per evidenziare il fatto formale e architettonico.
In un certo senso, quindi, tutta la musica è una variazione di musica precedentemente prodotta. E questo perché fare musica vuol dire inserirsi in una tradizione e prendere da essa gli elementi che la caratterizzano in quanto tale, elementi che il singolo artista trasforma, personalizzandoli (in qualche caso) e dando loro quella forma particolare che il suo modo di essere ritiene appropriata ad uno specifico momento e occasione. Che sia così lo si vede particolarmente nel caso di quello che una volta si diceva «canto popolare»: laddove ciascuno impara «ad orecchio» una canzone e, nel far questo a poco a poco la interpreta, la altera. Così come la meccanica quantistica ci dice che non è possibile osservare una particella elementare senza alterarne velocità e direzione, similmente potremmo dire che non è possibile eseguire una musica senza in qualche modo alterarla e ri-comporla. A volte nel momento esecutivo il musicista la modifica con interpolazioni per supplire a qualche vuoto di memoria. E a volte progressive alterazioni di un canto oralmente tramandato avvengono inconsciamente, proprio per quell'inevitabile creatività, desiderio di trasformare e innovare che - fortunatamente - caratterizza tanti esseri umani. E così a poco a poco, passando da persona a persona, da una generazione alla successiva, alcuni canti perdono la fisionomia originaria e diventano, ad un certo punto, canzoni del tutto nuove, pronte a loro volta a subire lo stesso processo trasformativo. La cosa affascinante è proprio questa. Nel corso del suo esistere un canto oralmente tramandato genera un vero e proprio Stammbaum di varianti nei cui rarnì, ad un certo punto, sì perde il collegamento con l'archetipo originario. E a quel momento, in fondo, non è nemmeno più lecito parlare di varianti. E anche nell'arte colta, in definitiva, succede qualcosa di non molto diverso. Solo che in genere non lo si dice, non lo si riconosceapertamente. Detto altrimenti, e tradotto in ambito musicale: tutta la storia della musica (la storia di tutte le musiche), in definitiva, non è altro che una serie di più o meno consapevoli «variazioni» apportate dai compositori alle opere dei compositori a loro precedenti.
Sulla base di tutte queste cose mi sento di trarre almeno questa conclusione minima: l'espressione «comporre musica», intesa come attività individuale autoespressiva, ha senso soltanto come presa di posizione in campo estetico. Costituisce, per dirla in altro modo (e meglio), una dichiarazione della propria poetica che ci richiama ad un quadro di riferimento culturale ben determinato. Certamente, se parliamo della musica del periodo classico-romantico ha un senso preciso (un senso storico) parlare di «compositori» e di «comporre musica». Molto meno senso avrebbero queste espressioni in riferimento al Medio Evo europeo, al jazz (pochi musicisti di jazz si dicono «compositori»), alla musica europea di ambito folklorico, ecc. ecc. Lo abbiamo visto. Proprio per questa sua limitata applicabilità in ambito interculturale l'espressione «comporre musica» risulta, in definitiva, di modesta utilità conoscitiva. Siamo in tanti a comporre musica, che lo si voglia o meno, che lo si sappia o meno, in certi luoghi o in altri, secondo regole e procedimenti che sono dettati nella loro applicabilità e nei loro limiti dalla nostra cultura o sbucciatura di appartenenza (o dal nostro appartenere a zone di intersezione tra culture differenti, come sempre più di sovente capita oggi): in definitiva, dalle nostre coordinate spazio-temporali. Per dirlo altrimenti: il processo compositivo comincia con una tradizione di riferimento (in ambito quindi collettivo e comunitario). Passa poi (ma non necessariamente e non in tutte le culture) attraverso processi trasformativi attuati da individui più o meno bene identificabili. Infine è dì nuovo in ambito collettivo che il processo compositivo si completa e si compie - ascolto, ricezione, costruzione sociale del significato.
Insomma, si potrebbe forse parafrasare la famosa sortita di Johann Gottlieb Fichte che all'inizio di una sua lezione, così si racconta, esordì dicendo: «Oggi vi dimostrerò che noi tutti siamo Dio». Mutatis mutandìs anche noi musicologi potremmo forse dire ai nostri studenti: «Posso dimostrarvi che, in un certo senso, siamo tutti compositori!»

NOTE

1 Chi scrive si è dato numerose volte il divertimento di porre questa domanda, e domande sulla musica in genere, alle persone più diverse, appartenenti agli ambienti più differenti che gli capitavano sotto mano.
2 Autori dei grandi film di Fellini furono, oltre naturalmente a Federico Fellini, anche lo sceneggiatore e scrittore Ennio Flaiano, il geniale scenografo Pietro Gherardi, il compositore Nino Rota e poi, last and not least, i grandi e meno grandi attori che il regista italiano sapeva scegliere.
3 Pensiamo a come migliaia di compositori europei abbiano manipolato il sistema tonale, che loro stessi non avevano inventato, e come abbiano impiegato di sovente stereotipi melodici, armonici, formali e orchestrativi che erano di pubblico dominio (come i proverbi e le barzellette che utilizziamo nel linguaggio parlato). Pensiamo a come, se con un supercomputer potessimo estrarre tutte queste cose dalle opere di uno di loro, quante poche pagine originali ne rimarrebbero.
4 «La città del sole», l'opera in cui Campanella esprime questi pensieri, è del 1602.
5 Singolare il caso di Fiorella Terenzi che dopo essersi laureata in astrofisica con una tesi intitolata «Sintesi numerica dei suoni stellari» (Università degli Studi di Milano, 1988) ha prodotto un disco, «Music from Galaxy», in cui questi suoni sono rielaborati.
6 Può essere interessante ricordare che il «De institutione musica» di Boezio rimase come libro di testo ad Oxford fino alla metà del XIXmo secolo!
7 Una parte non trascurabile, e in effetti tra le più interessanti della letteratura etnomusicale contemporanea è dedicata allo studio dei processo compositivo e dei modo di pensare la musica o pensare «in musica» di alcune società tribali. Eccellenti esempi al riguardo sono, per citarne solo alcuni storicamente importanti: Lach 1913, Heinitz 1931, Nettl 1989, Zemp 1978; 1979.
8 Steven Feld ha analizzato il rapporto tra suono, sentimento e commozione tra i Kaluli della Nuova Guinea Papua (Feld 1982). Uno dei punti principali del suo studio è l'analisi di un mito dei Kaluli che narra di una giovane che rifiuta di condividere il proprio cibo con il fratello minore, che di conseguenza disperato si tramuta in uccello (si noti che diventare un uccello per i Kaluli equivale a morire e che le voci degli uccelli per loro altro non sono che le voci dei morti). La sorella allora cerca di rimediare all'errore e richiama il ragazzo, che però ora non può più rispondere, perché ora può solo parlare il linguaggio degli uccelli. Questo linguaggio può tuttavia essere adottato anche dagli esseri umani, che lo traducono in pianto, poesia, canto, forme di espressione che contrastano drasticamente col linguaggio quotidiano, di carattere essenzialmente pratico. Il linguaggio degli uccelli, al contrario - insieme alla sua traduzione umana - è il linguaggio degli affetti destinato soprattutto a suscitare risposte di tipo emotivo (Feld 1982).
9 Occorre avvertire il lettore non familiare con la letteratura antropologica che è oramai tramontata l'idea che le società tribali (una volta cosiddette «primitive») ci offrano una testimonianza contemporanea di un passato arcaico dell'umanità. Le società tribali di oggi sono, per l'appunto, contemporanee. Hanno una storia di cui quasi sempre non ci è dato sapere molto ma che può nascondere processi di cambiamento, magari rivoluzioni anche assai drastiche. È pure tramontata la credenza che i processi di cambiamento in queste società possano essere stati di tipo lineare (dal semplice al complesso) e che quindi nelle società tribali si debba necessariamente trovare musica monodica che verrebbe poi sostituita da una prassi polifonica quando il corpo sociale diventa più complesso e articolato.
10 Del resto Dionigi Aeropagita, tra il V e il VI secolo dell'era cristiana, nel «Coelesti hierarchia» afferma che il compositore di inni liturgici altro non è che la persona a cui viene rivelata la musica che si canta in Paradiso...
11 Chi scrive ricorda un divertente racconto fatto da Tony Seeger al tempo in cui studiava la musica degli indiani Suya in Brasile e sui quali ha poi scritto un'affascinante monografia (Seeger 1987). Seeger raccontava con grande senso dell'umorismo come alla richiesta di ripetere una canzone che lui trovava particolarmente interessante gli indiani rispondessero cantando una canzone che a lui sembrava del tutto differente anche se loro poi sostenevano caparbiamente che era esattamente quella di prima. Più tardi, Seeger raccontò ancora come per vendicarsi, dopo avere cantato agli indiani una canzone americana che a loro piaceva molto e che volevano risentire continuamente, lui li ripagò con la stessa moneta, cantando una canzone diversa e sostenendo che era quella di prima; concedendo che si trattava « ... solo dì una variante»).
12 Charles Seeger seppe contare più di trecento varianti della ballata «Barbara Allen», varianti tanto connesse tra loro da indurci a pensare che possano discendere da un comune progenitore (Seeger 1966).
13 L'International Folk Music Council (oggi International Councilfor Traditional Music) adottò nel 1954, dopo lungo e tormentato dibattito una definizione del termine «folk music» oggi datata ma che bene evidenzia come si dovesse intendere il processo di «trasformazione selettiva» di materiali mutuati da una tradizione: «Folk music is the product of a musical tradition that has been evolved through the process of oral transmission. The factors that shape the tradition are:
(i) continuity which links the present with the past; (ii) variation which springs from the creative ìmpulse of the individuai or the group; and (iii) selection by the community, which determines the form or forms in which the music survives. The term can be applied to music that has been evolved from rudimentary beginnings by a community uninfluenced by popular and art music and it can likewise be applied to music: which has originated with an individual composer and has subsequently been absorbed into the unwritten living tradition of a community. The term does not cover composed popular music that has been taken over ready-made by a community and remains unchanged, for it is the re-fashioning and re-creation of the music by the community that gives it its folk character.» (Karpeles 1955).
14 Quindi, mentre una o due strofe di un canto narrativo non sono in grado di esprimere, letterariamente, un senso compiuto, prive come sarebbero del loro contesto, una singola strofa di un canto lirico-monostrofico, al contrario, esprime in genere un'idea completa e indipendente da quella espressa nelle altre. Perciò, mentre una singola strofa di ballata ha solo un senso musicale (dato che ogni strofa dei testo ripete la stessa identica melodia), in un canto lirico-monostrofico, invece, una singola strofa costituisce un'unità di senso sia letterario che musicale.
15 Ma canti lirico monostrofici esistono anche, se pur in forme localmente differenziate, in numerose parti del continente europeo. In Spagna c'è la copla (anche se questo stesso termine in Colombia indica un tipo di ballata), il villancico, il conte hondo con le sue derivazioni nel fiamenco; in Portogallo il fado; in Romania la doina, pure nota con la denominazione di hora lunga, che si trova anche in Moldavia. In Austria lo Schnaderhüpfl (anche noto come Gsangl o Gstanzl); è un canto satirico improvvisato, in tal rispetto simile agli stornelli della Toscana e del Lazio. Essi ci mostrano dunque modalità di composizione orale assai generalizzate.
16 Scompare, salvo per i connotati stilistici che ha lasciato in eredità al brano che lo ha rimpiazzato.
17 È vero che ciascuna delle balene tende a cantare la stessa canzone eppure, quando sono in gruppo, proprio come gli uccelli che i Kaluli della Nuova Guinea prendono a modello, non si produce un vero e proprio effetto di unisono, anzi, ciascun individuo procede per conto proprio e, mentre lo fa, ripete la canzone con una certa libertà (che potremmo anche definire creatività). In altre parole, le balene non ripetono le canzoni meccanicamente. Al contrario, mentre le cantano portano avanti il processo compositivo e contribuiscono alla tradizione incorporando nelle vecchie canzoni elementi nuovi. Eppure, fondamentalmente, le balene di uno stesso gruppo cantano la stessa canzone, in un dato anno. Ma l'anno successivo canteranno una canzone che, anche se imparentata con quella dell'anno precedente, risulta considerevolmente differente. Tuttavia le differenze tra anno e anno non sono casuali, tanto è vero che i canti di due anni consecutivi sono più simili tra loro che non quelli appartenenti ad anni non consecutivi. Appare così ogni canzone si inscrive in una sorta di percorso che manifesta da parte di chi lo percorre sia una componente di conservatorismo sia una tendenza, entro certi limiti, innovativa. Infatti, per quanto complesse le modifiche apportate da un anno all'altro ciascuna megattera riesce a tenere musicalmente il passo con le altre, cosicché ogni anno ci è dato di udire una e una sola canzone (se pur prodotta in versioni individualmente più o meno personalizzate). Roger Payne ha anche registrato e analizzato canti di megattere delle Hawaii e i canti delle stesse megattere trasferitesi alle Bermude per l'inverno e ha verificato che, sebbene i canti prodotti durante lo stesso anno alle Hawaii e alle Bermude sono differenti tra loro, è affascinante notare che entrambi obbediscono alle stesse regole di mutamento e hanno la stessa forma. Ciascuna canzone, per esempio, consta di circa sei «temi» - passaggi con numerose frasi identiche (o in fase di lentissimo cambiamento). Ciascuna frase contiene da due a cinque suoni. La popolazione di megattere delle Hawaii e quella delle Bermude sono quasi sicuramente non in contatto tra loro. Cosicché il fatto che il progetto compositivo dei canti sia lo stesso per entrambe suggerisce fortemente che le balene ereditino un set di regole che sono poi in grado di applicare (Payne 1979; 1995).
18 Come funzioni il meccanismo nelle culture umane, a livello della trasmissione di un testo lo esprime bene il Lönnrot nelle sue osservazioni sul canto epico finnico (nella prefazione alla 2a. ed. del Kalevala): «Accade che in occasione di una festa di nozze o d'altro ritrovo taluno oda un canto nuovo e cerchi di tenerlo a mente. Quando poi più tardi in qualche altra occasione lo canta dinanzi a nuovi uditori, egli rammenta meglio il contenuto proprio della narrazione che il suo preciso tenore parola per parola in ogni tratto di quella. I luoghi che non rammenta esattamente a parola, riferisce egli con parole sue, spesso anche migliorando quelle già udite, e se con ciò una qualche circostanza di minor rilievo nel complesso della narrazione avviene che sia omessa, può pure avvenire che un'altra, in luogo di quella venga dal cantore di testa sua sostituita. Alla stessa maniera il canto vien poi trattato da un secondo, da un terzo uditore e va per tal via man mano cambiando, ma piuttosto in singole espressioni o tratti che nel contenuto stesso. Allato a questa maniera di tradizione poetica va poi anche un'altra, che meglio conserva il canto nella sua antica espressione e svolgimento, quella ciò che da generazione a generazione si propaga di padre in figlio. Ma nello stesso tempo in cui questa maniera di tradizione impedisce la sua consorella di andar troppo lungi nel deviare, essa stessa da un altro lato costretta ad andarle appresso per non rimanerne troppo discosta.» (Comparetti 1891).
19 La musica eurocolta si appoggia all'oralità soprattutto per quanto riguarda la prassi esecutiva-interpretativa (Leydi 1991).
20 Una discussione generale dell'argomento in italiano, con buoni riferimenti musicali riferiti alla produzione dei primo novecento si ha in U. Eco (Eco 1962).
21 Ciononostante, soprattutto tra i musicisti che non la sanno fare, l'improvvisazione suscita sempre ammirazione mista ad invidia. L'etnomusicologo John Blacking faceva notare spesso nel corso delle sue lezioni che nessuno si meraviglia quando due o più persone conversano tra loro. Nessuno dice che stanno improvvisando. E riferendosi ai musicisti eurocolti, aggiungeva che sono quasi tutti incapaci di improvvisare e, quindi, è come se sapessero leggere e scrivere la loro musica senza essere capaci di «parlarla».
22 Chi come me visse quegli anni in Italia, ricorda soprattutto e prima di tutto il gruppo romano detto «Nuova Consonanza», fondato nel 1964, a cui collaborarono, tra gli altri Franco Evangelisti e Ennio Morricone.
23 In realtà non si tratta nemmeno di scelta vera e propria. Il musicista sa improvvisare in quella tradizione in cui lui è stato allevato e i cui procedimenti stilistici egli ha assimilato sin dalla giovane età, al punto da incorporarli nel proprio modo di essere.
24 Vedi il già citato esempio delle tarantelle di Montemarano (Giuriati 1982; Sorce Keller 1988;1991).
25 Un aneddoto che girava una volta trai musicisti di jazz americani (non storicamente accertato) esprime bene come l'opinione a riguardo dei jazzisti sia differente. Si racconta che un sassofonista grande ammiratore di Lester Young che aveva imparato a suonare nello stile di Lester Young, andò un giorno ad ascoltare questo grande musicista che adorava. Ma Lester Young era un artista estremamente creativo, tanto che quella sera suonò in modo tale da non essere quasi riconoscibile. Pare allora che questo suo fan sfegatato gli abbia detto: «you ain't you ... I am you!»
26 Stravinsky diceva che «...senza limitazioni comporre è impossibile.» (Stravinsky 1947).
27 Chi non abbia familiarità con questo genere musicale troverà probabilmente che i singoli blues sono monotoni e sostanzialmente simili.
28 «Formule», di un tipo o dell'altro, esistono in ogni forma d'arte. È semmai singolare che in musica siamo più restii ad ammetterne l'esistenza e la legittimità che non in altre arti. Per quanto riguarda il cinema, e i film dell'orrore o stasher movies in particolare, è stato fatto notare come, a meno di piccole varianti, raccontino tutti essenzialmente la stessa storia e ciò perché le storie dell'orrore appartengono, in definitiva al genere della favolistica (il territorio delle formule par excellence) (Thompson 1966). L'effetto di questi film si basa sulla riproduzione di stereotipi che il pubblico ama vedere e rivedere all'infinito. Essi hanno successo proprio in rapporto alla familiarità degli stereotipi in gioco. Se sono troppo originali, il publico non li afferra. Qui, ancora una volta la cosiddetta «auteur-theory» - il mito secondo il quale i film sono concepiti da una sola mente creatrice (quella dei regista) trova ben poco riscontro nella realtà (Clover 1992).
29 Consideriamo come i trattati di prassi esecutiva dei XVIII secolo, quelli di Quantz, Leopold Mozart e C.P.E. Bach, siano in effetti così tanto collegati e dicano così tanto del pensiero compositivo dell'epoca.
30 Da questo punto di vista il metodo analitico sviluppato da Schenker consiste in buona parte nell'evidenziare questo processo di ornamentazione a livelli sempre più ampi.
31 Dato che gli abbellimenti, quando si tratta di note, in genere non sono note strutturali, essi ritardano l'arrivo della nota strutturale che ci aspettiamo di sentire. Molti ornamenti tendono a creare dubbio e incertezza, per quanto momentanea, su quale sia la nota strutturale e quale no. Questa distinzione tra le deviazioni espressive realizzate dai musicisti di tutte le culture e gli espedienti con i quali culture differenti sistematizzano gli ornamenti non è quindi facile da fare. Deviazioni di intonazione che nella musica occidentale sono considerate espressive (p. es. il vibrato dei violini o dei cantanti operistici) sarebbero invece considerate ornamenti nella musica indiana. In effetti, quello che oggi considereremmo ornamento in altre culture, specie in quelle orali, sarebbe nient'altro che «composizione» tout court. L'ornamentazione, per esempio, è parte essenziale della melodia nella musica colta indiana e non è incidentale o facoltativa in quella tradizione ma, invece, necessaria.
32 Hajdu evidenzia bene come questo tipo di rapporto andasse bene a tutti e due i musicisti. Ellington dava a Strayhorn la sicurezza economica, rispetto artistico, nonché la Big Band: un mezzo espressivo per la musica di entrambi. Durante tutta la durata della loro collaborazione - fino alla morte di Strayhorn nel 1967 - i due non sentirono mai il bisogno di stipulare un contratto che li impegnasse legalmente a collaborare in un certo modo. Ellington pagava semplicemente, senza nemmeno mai discutere, tutti i conti e i debiti di Strayhorn senza nemmeno stipulare mai quando Strayhorn dovesse comporre. Lo trattò sempre come un suo pari e come un amico. Strayhorn, un originale bon vivant, brillante ma, in fondo, timido, lasciava volentieri che Ellington prendesse le luci della ribalta, sia la gloria e gli oneri che questa comportava. Salvo qualche piccolo occasionale battibecco su chi fosse in realtà l'autore di questa o quella canzone la partnership funzionò sempre molto bene (Hajdu 1996).
33 Abbiamo visto precedentemente che i suonatori di tarantella di Montemarano non hanno bisogno dei dadi, ma operano su di un materiale che facilmente potrebbe essere categorizzato in frammenti secondo i metodi di Mozart o di Kircher ed elaborato di conseguenza.
34 Informazioni sul lavoro di David Cope e campioni della musica prodotta con l'ausilio del programma EMI, sono accessibili al seguente sito internet: http://arts.ucsc.edu/faculty/cope/home.
35 È interessante notare come il periodo di otto battute, non appena ufficialmente teorizzato da Heimich Christoph Koch nel suo «Versuch einer Anleitung zur Komposition» (1782-93), trovò subito - principalmente con Beethoven - chi volle infrangere la regola. Spettò a Hugo Riemann il compito di tentare di capire e fare quadrare le cose in qualche modo...
36 Quasi un secolo dopo si parlerà di ascolto «strutturale», arrivandoci sia dal versante teorico analitico (Salzer 1952) che da quello sociologico (Adorno 1971).
37 Lo storico tedesco Reinhart Koselleck, nei suoi studi sulla ricezione, usa in modo ammirevolmente sofisticato il concetto di Erwartungshorizont e il concetto collegato di Erfahrungsraum (Koselleck e Schreiner 1990).
38 P. es.: certamente per l'ascoltatore abituato solamente alla musica dei XVIIImo e XIXmo secolo le formule di cadenza che si trovano in molta musica rinascimentale sembreranno semi-cadenze prive di vero senso conclusivo.