ROBERTO ZANETTI

LE OPERE DI G.F. MALIPIERO
NEL SECONDO DOPOGUERRA


LA MUSICA ITALIANA
NEL NOVECENTO

pp. 1329-1347
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Malipiero, Pizzetti e Alfano sono i tre membri della «generazione dell'Ottanta» a cui il destino consentì di affrontare un nuovo dopoguerra. Di questi solo Malipiero e Pizzetti mostrano però di avere ancora cose da dire, un cammino ascensionale ancora da percorrere. Dal canto suo l'Alfano vive invece - come visto - una fase di vero e proprio ripiegamento, da cui sortiranno solo talune conferme, ma più spesso sbiadite, opacizzate, delle qualità di un tempo. Tra gli altri due non si sottovalutino le diversità che, già viste altrove, si ripropongono ancora dopo il 1945 in materia di linguaggio, di linee operative, di tematiche e altro, anzi addirittura accentuandosi. Differenze che non solo riguardano lo sviluppo delle singole attitudini e degli orientamenti compositivi che naturalmente s'innestano sul corpo delle loro produzioni come fino a quel momento cresciuto; ma che si osservano anche nell'adattabilità ai tempi nuovi che i due compositori, ormai sopra la sessantina, hanno ancora da vivere. Malipiero, dopo un certo ristagno creativo, cioè dopo quella fase che Bontempelli aveva definito di «pianure monocrome», riprende slancio e in misura tale da poter scrivere ancora alcune tra le cose sue più alte, proprio nel corso degli anni Cinquanta, e da intendersi come manifestazioni insieme di fedeltà e di rinnovamento. La sua inquieta personalità, insofferente di schemi e imposizioni, pur non portandolo all'adesione piena alla dodecafonia - sistema troppo vincolante perché potesse essere da lui accettato -, gli farà puntare verso il superamento del linguaggio modaleggiante e, dunque, lo riaccosterà al pancromatismo, così da dargli una applicazione più radicale che non nell'ormai lontano passato. È indubbio comunque ch'egli risente in ciò della pressione evolutiva che la dodecafonia comporta, e finirà quindi per assimilarne certi postulati, ma in maniera che la sua personalità e il suo attaccamento alla libertà inventiva e elaborativa manterranno sempre sotto pieno controllo.[1]
Ovvero, si potrebbe dire, meglio, che lo sviluppo del cammino di Malipiero e quello della dodecafonia si svolgono su due diversi binari ma che procedono affiancati ed entrambi segnati dalla consapevole necessità di rinnovamento. Per contro Pizzetti non nutre alcuna inclinazione, non solo per la dodecafonia, ma per l'aggiornamento linguistico, come già in passato quando anzi non aveva dimostrato, anche pubblicamente, alcuna simpatia e comprensione per lo Schönberg degli esordi (occorre però precisare che sentimenti non poi molto diversi aveva nutrito anche Malipiero, ma senza pubblicizzarli negli stessi termini di Pizzetti).[2] E, dunque, anche nel prosieguo postbellico il linguaggio di Pizzetti resta immune da qualsiasi influenza della dodecafonia - dello schönberghismo, persino di quello più temperato degli ultimi anni. Ma resta anche fermo alle condizioni di un tempo, semmai mostrando soltanto di affinarsi entro i limiti possibili. Come vedremo Pizzetti punterà più ad affinare e perfezionare la sua drammaturgia e tramite questa puntare su valori espressivi e estetici considerevoli, di validità pari se non superiore alla sua più riuscita creatura d'anteguerra, alla Debora cioè.
Gian Francesco Malipiero [e Ildebrando Pizzetti]
La produzione del secondo dopoguerra di Malipiero, vista nel suo complesso, fa subito rilevare una massiccia presenza di lavori teatrali, cioè di opere, per quanto iscrivibili nel filone che diciamo «cameristico», ma anche di composizioni genericamente drammatiche, del tipo cioè dell'antica rappresentazione sacra, magari addirittura convertite in rappresentazioni da concerto, nonché di un vero e proprio balletto.[3] Ma quel che più conta è che da questa autentica mole di partiture ne emergono talune che si situano senz'altro tra le cose migliori che il musicista abbia dato nell'arco della sua lunga attività compositiva: lavori, insomma, da porsi a fianco - e non occorrerà stabilire se appaiati o arretrati di un tanto - alle grandi affermazioni delle Sette canzoni e di Torneo notturno. Certo una simile valutazione merita, anzitutto, Venere prigioniera, ma non da meno si deve ritenere la pur diversissitna Rappresentazione e festa di Carnasciale e della Quaresima. Comunque lavori che hanno per contorno numerosi altri di levatura e interessi considerevoli, come Mondi celesti e infernali, Il figliuol prodigo, Donna Urraca, Don Govanni, Capitan Spavento. E dunque testimonianze preziose di una ancora felice stagione creativa con la quale Malipiero ha potuto coronare la sua operosa esistenza.
Le partiture che abbiamo enunziato, sia le maggiori che le minori insomma, sono cronologicamente disposte sulla via evolutiva che porta il linguaggio malipieriano a una maggiore articolazione cromatica, a una concezione armonica più dissonante, insomma a quello stadio di libera articolazione pancromatica che, all'epoca, taluni confusero per adesione alla dodecafonia. Così se in Mondi celesti e infernali vediamo ancora contrapporsi o giustapporsi piani armonici diatonici e cromatici, il prosieguo dell'esperienza compositiva teatrale e strumentale fa osservare la graduale integrazione di quei due piani, e, ad esempio, nelle Fantasie concertanti come in Venere prigioniera, le enunciazioni che utilizzano tutti i dodici suoni cromatici risulteranno frequenti. Ma certo non è dodecafonia, ché in questi lavori e in altri del periodo il linguaggio malipieriano mostra di formarsi con la fusione di procedimenti modali e esatonali, come ha convenientemente spiegato il Santi nel suo studio.[4] Ma è fuor di dubbio che da Stradivario e da Mondi celesti e infernali, come pure dalle svariate composizioni strumentali coetanee, il cammino linguistico e tecnico di Malipiero procede con un impegno di aggiornamento considerevole e che resta un merito da ascriversi all'ormai anziano ma instancabile musicista. Un impegno che, diciamolo francamente, gli ha continuato ad accattivare la simpatia delle giovani generazioni e dei giovanissimi, che mai hanno colto nella sua produzione postbellica quella stanchezza o quella sfiducia che altri e meno provati autori dimostravano.
Un primo lavoro su cui bisogna spendere qualche parola è senz'altro quella strana esperienza di teatro e di rappresentazione sacra che s'intitola Mondi celesti e infernali (agosto 1948-agosto 1949), definita come «tre atti con sette donne», che si propongono di rappresentare - come spiegato dall'autore [5] - «i sette aspetti delle donne (che) in realtà sono l'aspetto eterno della donna. Passano i secoli, ma essa rimane fedele ai sentimenti che la governano al di sopra di tutte le vicende umane. Che il suo mondo sia celeste o infernale, essa non cambia».
Una galleria di personaggi femminili disposti entro un arco di tempo che, da una parte, procede dall'assira Sammuramai alla greca Medea, alla romana Poppea, e, dall'altra, dalla veronese Giulietta alla veneziana Rosaura, alla moderna Lei, che fungono come da corona alla centrale immagine della Vergine Maria, in cielo - e che si prescrive debba dominare il palcoscenico da una grande tela «dipinta in uno stile primitivo». È Maria, dunque, il nucleo centrale e ispiratore,[6] di un itinerario che procede nei due sensi, a ritroso nel tempo e verso l'oggi, ponendo come figure terminali due personaggi che idealmente chiudono il cerchio, come esplica anche il fatto che entrambi non s'esprimono vocalmente. [7] Ne esce un tipo di teatro fantastico, costituito da una serie di visioni interiori, che si pongono una dopo l'altra, e con un modo d'avanzamento per così dire meccanico, sotto il fuoco di lampi rapidi e sempre ugualmente intensi così da far apparire in sostanza una «protagonista unica», la donna, attraverso emblematiche situazioni e miti diversi che in essa si compendiano. È un vagheggiamento onirico che suona come atto d'amore universale e eterno. Ed è facile, a questo punto, individuare gli agganci del messaggio e della concezione drammaturgica di Mondi celesti e infernali con quelli che s'erano espressi nel primo teatro malipieriano, a cui rimandano inoltre la natura simbolica, la costruzione e la stessa disposizione musicale, per quanto il tutto possa apparire ampliato per sostenere un'arcata spettacolare più vasta, come già specificano i tre atti.[8]
Attraverso le esperienze abbastanza dissimili del Figliuol prodigo (1952) [9] e di Donna Urraca (1954), [10] che però Malipiero interpreta conseguentemente a quello che è ormai il segno del suo teatro, il ripensamento del mito, e che vengono inoltre ricondotte entrambe a un analogo procedimento drammatico, si giunge a Venere prigioniera, lavoro che prolunga e perfeziona proprio le linee stabilite in precedenza e, specialmente, da Donna Urraca.[11] Venere prigioniera è anzi da valutarsi come una complessa sintesi del teatro malipieriano nel suo più ampio sviluppo e non soltanto dei suoi migliori lavori. Lo stesso musicista ha indicato tale suo significato, pur limitandolo soltanto a certe espressioni della sua produzione, come risulta dal passo del Catalogo annotato dove illustra i motivi che lo portarono a scegliere il racconto tardo ottocentesco di Emmanuel Gonzales, a derivarne quindi un libretto e a musicarlo:
Mi sedussero la prima e l'ultima scena per la loro forza drammatica, e la prima scena del secondo atto mi affascinò perché la commedia Venere incatenata che si rappresentava nel castello di Don Giovanni Mediana, mi ha permesso di rimanere fedele a Sette canzoni, in quanto i contendenti, per liberare la dea, sono costretti a cantare se non sette, cinque canzoni. Certo è necessario che queste si ascoltino. Qualora volessi giocare sulle parole potrei dire che la prima scena è la canzone della miseria e l'ultima dell'amore che però è vinto dall'inesorabile vendetta, che la prima scena preannunciava nell'ombra della più squallida miseria. Cinque e due farebbero sette.
Malipiero insomma dichiara la piena fedeltà al dramma formalmente sintetico, al teatro di immagini allineate, come aveva perseguito appunto decenni addietro non solo con le Sette canzoni ma anche con Torneo notturno. Al quale ultimo poi, ci sembra, particolarmente rimandano certi elementi narrativi e certi caratteri (Melchiorre e Uidillo, autentici protagonisti) la fantasia notturna e la psicologia di certi personaggi. Mentre per altri versi - e anzitutto l'ampiezza degli svolgimenti e l'azione che procede complessa, di difficile lettura, ma come sorretta dal susseguirsi di colpi fantastici, in un'atmosfera quasi di sogno - potrebbero invece riallacciarsi ai Capricci di Callot. Un'analisi più in profondità, sia a livello librettistico e drammaturgico e sia a livello musicale, porterà poi addirittura a vedere in Venere prigioniera la summa di tutto il teatro precedente malipieriano. Come ha appunto suggerito il Santi nel suo studio più volte citato e che anche in questo caso - come altre volte in precedenza - si spinge talmente avanti nell'analisi da letteralmente escludere un intervento critico conseguente. In sintesi le indicazioni dello studioso in relazione a quella che chiama «una sorta di Forza del destino malipieriana» [12] hanno portato in luce,intanto, «quei contrasti tipici del primo teatro (di Malipiero) adombranti il medesimo dualismo prima ch'esso venisse definito in termini dialettici nel Torneo notturno, ed avviati ad acquistare il senso attuale più avanti, quando saranno ripresi nel terzo periodo (vedi specialmente l'Allegra brigata)».
Contrasti cioè che scaturiscono da situazioni di cui il teatro malipieriano ha fatto ampio uso, come amore, morte, sacro, profano, follia, ecc.: «da essi e dagli impulsi di ribellione frementi nell'animo del musicista era scaturito altresì il tema della vendetta, accolto, dopo il Torneo notturno, in Ecuba, ne La vita è sogno, nell'Allegra brigata, nella figura di Medea in Mondi celesti e infernali, e infine in Donna Urraca, prima di sbocciare in Venere prigioniera».
Un altro motivo ricorrente nel teatro di Malipiero è quello del figlio, che «prima di ritrovarsi in Venere prigioniera, s'era incontrato nelle Sette canzoni (Il Ritorno), nel Torneo notturno (La tormenta), nella Favola del figlio cambiato, in Ecuba, ne La vita è sogno, in Vergilii Aeneis (negli episodi di Anchise e della madre di Eurialo), in Mondi celesti e infernali (Medea) e nel Figliuol prodigo».
L'ambientazione squallida, desolata, persino sinistra della prima scena di Venere prigioniera è ancora un elemento che ricorre altrove, in precedenza, come pure quello della prigionia. In merito al primo «basterà ricordare, una volta per tutte, il Torneo notturno, in particolare gli episodi della Tormenta e del Focolare spento. La prigione dell'ultimo quadro si collega al motivo della prigionia ravvisabile anche in Filomela, in Merlino, nei Capricci, ma figurativamente riproduce l'ultima scena del Torneo, la prima e l'ultima de La vita è sogno e l'ultima di Donna Urraca».
E ancora lo spettacolo nello spettacolo come s'incontra nel lavoro che è al centro della nostra attenzione (primo quadro del secondo atto) ha precedenti (compreso quello della simbolica figura della regina) «nell'Orfeo, in Filomela, nel Castello della noia del Torneo, incarnata da Donna Rosaura nella seconda parte del Finto Arlecchino, nell'episodio della bambola infranta nel terzo atto dei Capricci».
E per finire l'attenzione può volgersi ai personaggi di Venere prigioniera che svelano affinità con altri di lavori precedenti:
Don Giovanni Mediana rivive il recente Don Paolo Romeo di Donna Urraca, e potrebbe specchiarsi in molte altre figure, per esempio, dell'Allegra brigata. Per il suo abito logoro richiama il cieco dei Vagabondi delle Sette canzoni, il Viandante di Merlino, Giglio, «l'attore povero» dei Capricci di Callot, e persino il suonatore ambulante di Stradivario. Quanto a Uidillo, come non identificarlo col Figlio-di-re della Favola del figlio cambiato? E il fuoco che Uidillo alla fine appicca alla scena, come non assimilarlo al fuoco purificatore di Filomela e di Merlino, o persino a quello trasfiguratore della Cena di San Francesco e Santa Chiara del mistero? Né le figure arcadiche dei Pastorelli sono meno familiari al teatro di Malipiero, o vi sarà ancora bisogno di sottolinearne la consueta interpolazione delle antiche poesie.
E, passando alla conformazione architettonica del lavoro, troviamo qui, per finire, quella che il Santi chiama una perfetta forma «a piramide» [13] «che ripete lo schema di Mondi celesti e infernali e del Figliuol prodigo, in quest'ultima fase creativa in cui l'istanza formalistica [...] si fa particolarmente sensibile in Malipiero, ma della quale è già possibile intravvedere il gusto fin da Pantea (le tre allucinazioni, fra un prologo e un epilogo) e dalle Sette canzoni (le canzoni distribuite fra un crepuscolo e l'altro)».
Venere prigioniera è dunque lavoro di enorme significato nel panorama drammaturgico-musicale di Malipiero. E rilevantissimo è il valore della sua realizzazione musicale, ovvero del modo specifico che la musica assume nell'opera e che si sottrae al ricalco in senso espressivo del divenire dell'azione. Per contro la musica lascia all'azione, di cui va indicata la sicura efficacia teatrale, la sua libertà di procedere, per impegnarsi nell'evocazione di atmosfere allucinate o di sogno, di immagini fantastiche, ma sempre asincrone alle situazioni sceniche. È stato osservato in proposito, [14] che «sono sempre in gioco, nel rapporto straniato tra musica e sostanza narrativa, gli inganni e le mistificazioni della società contemporanea, i falsi miti borghesi (il mondo in cui si svolge la vicenda è prigioniero delle più ottuse convenzioni), ma senza riferimenti diretti, se non per l'«indifferenza» di un discorso sonoro che vanifica l'insieme e la stessa ubicazione psicologica, nel crollo di tutti i valori, nell'irrealtà».
L'importante parto malipieriano fu posto nel programma del XX Maggio musicale fiorentino e rappresentato insieme al Figliuol prodigo il 14 maggio 1957, sotto la direzione di Bruno Bartoletti. L'esito fu abbastanza positivo, senza che i dissensi, che comunque vi furono, assumessero misura di protesta, anche per merito, si valutò, dell'eccellente realizzazione e musicale e scenica.[15]
L'altro lavoro notevole, la Rappresentazione e festa di Carnasciale e della Quaresima, un atto su un testo di autore anonimo, tratto e ridotto da un'edizione fiorentina del 1558, ripropone altri aspetti importanti del musicista. Ad esempio la sua fedeltà a temi e repertori particolari, come pure a quei contrasti stridenti di cui si diceva, [16] e che potremmo qui indicare nell'espressione talora caricaturale fino a quelle contrazioni in cui s'annida il senso del tragico della situazione umana. L'intero lavoro può dirsi impregnato di un'inquietudine sotterranea che tutto condiziona, anche le immagini che vorrebbero comunicare allegrezza e che invece sono risucchiate nel vortice di quel malessere esistenziale. La sonorità prevalente è di triste grigiore, nella quale sfumano pure quei rari sprazzi d'animazione e di letizia come a simboleggiare la penitenza che allunga la sua ombra fino a sfibrare la gioia di vivere, così come la gente di Quaresima avrà ragione di quella di Carnasciale. È evidente che la musica di Malipiero segue in tal modo il significato dell'antico testo e lo interpreta immaginosamente, anche per il disporsi pertinente di modi linguistici e espressivi che ormai sono suoi caratteristici, abilmente miscelando vecchio e nuovo. Ne esce insomma una partitura moderna e inquietante, ma di comunicativa innegabile e certo ai vertici della produzione malipieriana.
Lungo gli anni Sessanta altri lavori vengono ad arricchire il già pingue carnet del compositore veneziano. E sono lavori anche molto diversi tra loro, ma tra i quali anzitutto emergono quelli che si collocano su una via che si dice derivata dai Capricci di Callot. Così possiamo valutare la mascherata eroica in un atto Capitan Spavento (1962),[17] e ancora l'opera in tre parti Metamorfosi di Bonaventura (1963-65), [18] nonché, almeno in certo senso, il prologo e sette quadri dal titolo Gli eroi di Bonaventura (1968), che riportano in vita hoffmannianamente, in una fantastica carellata, svariati personaggi dei lavori teatrali minori del musicista.[19] Dei tre lavori è comunque particolarmente interessante il secondo, quelle Metamorfosi che muovono anch'esse da una dimensione hoffmanniana e che musicalmente riferiscono di un ulteriore passo in avanti compiuto dal musicista verso lo sfruttamento costante del totale cromatico, sempre però in modo non dodecafonico. Nelle Metamorfosi abbiamo un protagonista, Bonaventura, che - è stato osservato [20] - «si eleva a simbolo dello scacco umanistico, del fatale destino dell'umanità irrisa e violentata dal convenzionalismo: (egli) diviene pertanto vittima e giudice, tremenda accusa alla falsità grottesca del mondo».
Attraverso le sue metamorfosi - da guardia notturna a narratore di storie, a uomo che nella solitudine cerca il rifugio ultimo -, Bonaventura esprime quello ch'è ormai un tipico atteggiamento del musicista. Il suo situarsi in disparte, fuori dal mondo, con un gesto aristocratico ma consapevole, critico, dolorosa rinunzia, anche, a un mondo in cui non si riconosce e in cui si sente incapace a vivere. Soltanto il sogno può lenire un poco quella sua angosciosa rinunzia: ed ecco così evocate le creature poetiche di Bonaventura, nel modo di «fantasmi musicali d'impressionante rilievo», [21] e prima ch'egli scopra l'inutilità persino del ricordo e lo ammetta in un memorabile finale dove la musica si «libra sul baratro del nulla e dispone all'estrema finzione della rosa rossa deposta sul sepolcro della vita».
Ancora diverse altre opere Malipiero ha scritto nell'ultimo decennio della sua vita. Le citiamo di seguito: Don Giovanni, quattro scene in uno o due atti da Puskin (1962-63); [3] Don Tartufo Bacchettone, due atti di Molière-Gigli (1966); [3] Il marescalco, commedia in due atti da Pietro Aretino (1960-68); [3] L'Iscariota, un atto (1970) [3] Uno dei Dieci, un atto (1970). [25] Un nutrito gruppo di opere che, aggiungendosi alle molte altre precedenti, confermano un amore per il teatro che è andato crescendo col passare degli anni. Ovvero - come ebbe occasione di dire lo stesso Malipiero - dimostrano che «il teatro è un vizio, si crede di poter guarire e poi ci si ricasca, appunto come accade per tutte le passioni».
Passando alle «rappresentazioni da concerto» dobbiamo premettere che il loro germe andrebbe individuato nell'ultimo degli otto Dialoghi (La morte di Socrate) sui quali torneremo più avanti, anticipando però, fin d'ora, che questi sono da considerarsi una delle più importanti manifestazioni del Malipiero post-bellico, in quel settore che diciamo concertistico ma che esplicita - come le rappresentazioni da concerto, appunto - obiettivi anche più avanzati. In tutto le rappresentazioni da concerto vere e proprie risultano essere quattro e comprese in un arco di tempo ristretto, tra il 1957 cioè - e subito in conseguenza proprio all'Ottavo dialogo di cui si diceva - e il 1960, che risulta poi essere un lasso di tempo lasciato vuoto dalle esperienze specifiche teatrali. La prima di tali composizioni, nonostante la denominazione e certe caratteristiche comuni con le altre, è destinata a porsi un po' in disparte. Difatti, Magister Josephus - tale il suo titolo -, composto nel 1957, è destinato a quattro voci soliste (soprano, contralto, tenore, baritono) e orchestra, e svolge un testo inventato di sana pianta dal compositore. [26] Il valore della partitura è stato rilevato subito dalla critica. In particolare il Mila, [27] l'ha considerata come una delle più singolari concezioni in cui l'esito di uno spirito bizzarro abbia mai associato le ragioni del pensiero e quelle della fantasia, la creazione e la critica d'arte, l'arte e la storia... Ma, se volessimo cercare di serrarne il contenuto in una definizione, la diremmo una musicale meditazione sulla storia della musica, con esempi inventati dall'autore.[28]
Le altre rappresentazioni, rispetto alla precedente, hanno in comune il fatto di utilizzare soltanto una voce, quella baritonale (ch'è poi la stessa che già era stata protagonista della Morte di Socrate), nonché di riferirsi a specifici fatti drammatici o narrativi, o comunque di utilizzare testi preesistenti. Singolare comunque resta anche -la seconda rappresentazione da concerto, quel Preludio e morte di Macbeth, per baritono e orchestra (1958), centrata su due momenti della tragedia scespiriana: cioè la scena dell'assassinio di Re Duncano, ambientata in un'atmosfera notturna cupa e sinistra, e la conclusione, quando Macbeth, all'avanzata della foresta di Birnam, sente ormai prossima la sua fine. È un lavoro di notevole mole e nel quale, forse in misura maggiore che negli altri dello stesso, genere, sbalza l'irresistibile attrazione di Malipiero per il teatro e per un suo modo di viverlo affatto personale. Si tratta quasi di una sintesi vocale-sinfonica, insomma, di un'opera inespressa e che sappiamo intentata.[29] Le restanti rappresentazioni da concerto sono L'asino d'oro, sempre per baritono e orchestra (1959) e Concerto di concerti ovvero dell'uom mal contento per baritono, violino concertante e orchestra (1960), con cui Malipiero diceva d'aver concluso irrimediabilmente il ciclo di tali composizioni.[30]
Conviene ora, prima di passare alla produzione da concerto vocale o strumentale che sia, soffermarsi proprio sui già citati Dialoghi (1955-57) per il loro alto significato, come per la loro polivalente conformazione, a mezza via tra le musiche da concerto e le rappresentazioni, o per meglio dire soluzione personalissima e convincente di tale contrapposizione, così da fonderle in un solo momento musicale. Come precisa, in definitiva, l'intitolazione di Dialoghi, che il Mila, nei cenni illustrativi per l'edizione discografica così esplicava:
Dialoghi: titolo ambivalente, che indica tanto la natura affettiva di questi colloqui interiori con le ombre del passato, con le pagine di Platone e di Jacopone da Todi, con Monteverdi e Vivaldi, quanto la natura concertante delle composizioni, dove i più diversi strumenti e talvolta la voce umana conversano animatamente a gara, nell'anarchica uguaglianza di quella affabulazione incessante della fantasia, la cui libertà discorsiva è un carattere saliente dell'arte di Malipiero.
La ricca articolazione della materia compositiva entro la successione di otto Dialoghi risulta nel seguente ordine:

1. Con Manuel de Falla («in memoria») per piccola orchestra (1955-56) [31]
2. Fra due pianoforti (1956)
3. Con Jacopone da Todi per canto e due pianoforti (1956)
4. Per cinque strumenti a perdifiato (1956)
5. Per viola e orchestra («quasi concerto») (1956)
6. Per clavicembalo e orchestra («quasi concerto») (1956)
7. Due pianoforti e orchestra («Concerto») (1956)
8. La morte di Socrate (dal Fedone) per una voce di baritono e piccola orchestra (1957).
Superfluo sottolineare che un po' tutti i generi concorrono all'attuazione di questo grandioso polittico, dal brano cameristico per pochi strumenti al brano sinfonico, dal «quasi concertante» al vero e proprio «concerto», dalla pagina strumentale a quella vocale con pochi strumenti, a quella vocale-sinfonica. Il valore dell'intero complesso ristà specialmente nella messa a punto di un mondo sonoro di superiore autenticità e concentrazione, nel quale - è stato scritto [32] - «sembra riprendere il più genuino discorso malipieriano, il discorso della limpida chiarezza, della lucidità spirituale, dell'inesauribile capacità di dar vita a lavori vivificati da una fantasia inesauribile dove il senso strumentale e l'empito vocale si affondano in una concreta umanità. Proprio la misura di questa umanità, la sua intima serenità e saggezza, è emersa in maniera assai chiara nei due Dialoghi presentati...»
In generale, dalle diverse partiture che compongono la notevole mole dei Dialoghi malipieriani, sbalza evidentissima la grande coerenza discorsiva, assecondata da uno stile compatto eppure ricco di elementi costitutivi. La discorsività tanto più sorprende per logica organizzativa, per risultati coerenti, come pure per naturalezza e ricchezza fantastica, quanto più ci si addentra in un'analisi in profondità dei lavori: difatti si può osservare come siano figure minime per estensione, addirittura pochi intervalli melodici a farsi nuclei generatori di sviluppi imprevisti e fecondi.
Sui vari Dialoghi emerge comunque l'ottavo, quella Morte di Socrate di cui subito, fin dalla sua prima apparizione a Venezia, si diedero valutazioni largamente positive.[33] Vi fu chi la disse [34]
pagina profondamente meditata nella quale la pacata fine di Socrate affidata a un declamato interiormente animato da una calibratissima tensione espressiva, si disegna in un tessuto orchestrale insieme direttamente partecipe del testo e dell'interpretazione malipieriana del grandioso dramma socratico. È infatti nei rapidi interludi che affiorano tra una pausa e l'altra della voce, che la pagina platonica s'è rivelata per quello che effettivamente è, cioè l'elevato pretesto per confermarci il sereno modo del compositore di guardare ai contrastanti aspetti della vita, senza esasperazione, bensì invece con consapevole partecipazione ad essa. Così il breve corale finale riassume, con la forza di un'espressione profondamente ispirata il messaggio spirituale e ideale di Socrate, com'è risentito e rivissuto nel compositore, mentre i fagotti che intervengono in FF all'ultima battuta per riproporre la ricorrente serie di sei suoni (essenzialmente vincolata nel pezzo al dramma della morte del filosofo) figura come un'estrema affermazione, al di là dell'accettazione della morte, dell'esistenza e della stessa vocazione dell'uomo a viverla.
Importante l'accenno alla serie che si può ben dire abbia funzione particolarmente attiva nella composizione, come mai in precedenza era accaduto in Malipiero. Una serie di soli sei suoni, esposta dalle viole sin dalla prima battuta, ma a cui non si può assegnare un semplice valore tematico, poiché essa appare talora distribuita tra diverse parti, ricevendo pertanto, un trattamento che mostra di approssimarsi parecchio ai procedimenti schönberghiani, al punto che molti si dissero convinti dell'imminente adesione in toto al metodo dodecafonico di Malipiero, adesione invece mai avvenuta. Comunque nell'ottavo Dialogo, come pure in qualche composizione precedente e specie poi in talune successive, l'intensificazione del cromatismo comporta un'indubbia apertura all'espressionismo novecentesco, del tipo di quella che già s'era rilevata molti anni più addietro. E così profondamente rinnovata, dinamizzata da tensioni feconde, appare la pur sempre fondamentale disposizioni malipieriana al diatonismo.
Prima di lasciare la produzione malipieriana in cui vien fatto uso della parola, un rapido cenno alla parte cantatistica che addensa taluni numeri nell'immediato dopoguerra. Lavori poco conosciuti, in genere, come tanta parte della sterminata produzione malipieriana, ma che ci sembrano di non trascurabile interesse, come già riferiscono le scelte testuali, ulteriori dimostrazioni di certi orientamenti che sono andati emergendo nel tempo e che costituiscono un importantissimo aspetto della personalità culturale del musicista. Due i lavori di particolare interesse, entrambi appunto cantate per coro e orchestra. Il primo è Li sette peccati mortali, su testo di Fazio degli Uberti (1945-46), alla cui articolazione episodica Malipiero lasciava aperta anche una soluzione coreografica. L'altro lavoro ha per titolo invece La terra e utilizza dodici frammenti dal primo libro delle Georgiche di Virgilio (agosto-ottobre 1946). Una composizione questa destinata poi ad essere appaiata alla più tarda pagina per piccolo coro e venti istrumenti Ave Phoebe... dum quaeror, su quattro frammenti desunti,dalle Egloghe (1963-64). Un dittico virgiliano, a cui non si dimentichi di aggregare l'epico Vergilii Aeneis, nucleo centrale e imponente di quella che possiamo intendere come una tra le più notevoli e godibili rivisitazioni moderne della poesia e delle diverse tematiche di Virgilio.
Un altro gruppo di lavori di grande rilievo nella produzione sempre del dopoguerra di Malipiero, lo costituiscono le sinfonie, i cui primi numeri, però, e cioè le n. 1-2, abbiamo già visto nascere nel periodo anteguerra (1933-36), e la n. 3 nell'ultimo periodo della guerra (fu infatti terminata nel febbraio 1-945). La prima dunque delle sinfonie del secondo dopoguerra è la Quarta, portata a termine il 3 dicembre 1946 e singolarizzata dall'indicazione «in memoriam», e per l'esattezza a ricordo di Natalia Kussewitzky (e difatti la diresse Sergei Kussewitzky con la Boston Symphony, il 27 febbraio 1948). «Non un epitaffio» si premurava di precisare il compositore, anche se «vi si sente la presenza di qualche cosa che è scomparso»: particolarmente il finale Lento, costruito nel modo di una breve serie di sei rapide variazioni, dove sembrano tornare certe immagini funebri tipiche del musicista, solo meno dissonanti di un tempo e più pacate per espressione, anche per lo spiccato linguaggio diatonico («passa il corteo di un funerale al suono di una campana lontana»). Con i suoi quattro tempi (precedono il Lento di cui s'è detto, un Allegro moderato, un altro Lento, lunebre, un Allegro che s'atteggia a «scherzo»), la Sinfonia n. 4 mantiene comunque quell'ideale aggancio al sinfonismo preclassico italiano, facendo sempre rilevare quel suo modo di procedere mediante libere e fantastiche invenzioni musicali, che solo a tratti, ovvero in qualche episodio, cede a una concezione tematica e agli sviluppi che ne conseguono. Espressivamente è una composizione di elevato sentire e di commossa nobiltà, che svela sia nell'eloquio melodico che nell'accurata veste timbrica.
Composizione che si può ben dire sprizza gioia di suono e d'invenzione è la successiva Quinta sinfonia detta «Concertante in eco» destinata a due pianoforti e orchestra (1947). Evidente, fin da tale sottointitolazione, il riaggancio con la tradizione concertante del barocco italiano, con il ruolo spiccato assegnato alle due tastiere, le quali (precisa l'autore) «dominano come spina dorsale dell'organismo istrumentale, ma non come elemento solista». Per di più esse sono trattate «in eco», più spesso dunque canonicamente, così da svolgere un gioco musicale di elementi e figurazioni che si rincorrono a brevi distanze per l'intero arco della composizione. [35] Ma questa Quinta sinfonia è da ricordare - e forse da porre tra le cose migliori del settore, con la Settima, e tra le pagine memorabili della musica italiana del periodo -, specialmente per quel suo incessante cantare, prevalentemente malinconico, autunnale, ma sempre stringato e fantastico, mai retorico.
Singolare la Sesta sinfonia, per la destinazione ad un complesso di soli strumenti ad arco. Detta appunto «degli archi», scritta nel 1947 per Paul Sacher e la Basler Kammerorchester (che poi l'eseguirono l'11 febbraio 1949), la composizione sembra rifarsi a quello stile «madrigalesco» che Malipiero aveva già attuato in taluni suoi quartetti (nei Cantari alla madrigalesca, anzitutto), ma risente anche in certa misura della tipica scansione che deriva, aggiornandola, dalla forma del concerto grosso.
Strettamente apparentata alla n. 5 per qualità inventiva, per il suo prevalente cantare, risulta essere la Settima sinfonia, significativamente sottointitolata «delle canzoni» (e finita di comporre il 28 agosto 1948), [36] ma che possiede carattere espressivo autonomo, in quanto è manifestazione di una serena condizione spirituale e dunque esterna semmai l'autentica gioia del cantare e del fare musica. Malipiero ha motivato l'intitolazione dicendo la Sinfonia «essenzialmente lineare: c'è poi, qua e là, un certo "cantare" che s'impone come la voce di un antico rapsodo che canti seduto in cima al sacro Monte Grappa ed abbia dinanzi a sé lontana, sempre più lontana: Venezia». Si potrebbe intendere questa Sinfonia quasi come un culmine, per la sua serenità e per il suo libero e felice fiorire quasi improvvisativo, ma sempre nello spirito di quel sinfonismo italiano che Malipiero seppe miracolosamente far rivivere, portandolo a forme liberissime e insieme raffinatissime, imponendogli un linguaggio che sembra come emancipato da qualsivoglia datazione, perché insieme antica e modernissima, superiore manifestazione di un finissimo umanesimo di uomo del XX secolo.
Per breve tempo l'edificio sinfonico malipieriano restò sul magico numero sette (ma ufficialmente, anticipiamo, vi resisté fino al 1964). Tuttavia poco più tardi (1950) nacque «quasi per conto suo, timida come un'intrusa», una nuova Sinfonia, cronologicamente l'ottava, voluta e intitolata «in un tempo solo», da eseguire come un unico complesso sinfonico, pur essendo costituita da «quattro strofe».[37] Ancora una composizione in stile «madrigalesco», come la Sesta, e come poi la successiva Sinfonia dello Zodiaco (Quattro Partite: dalla Primavera all'Inverno), risalente al 1951,[38] ma anch'essa rientrante, come la precedente, nella numerazione ufficiale. Le ragioni di tali esclusioni non sono poi difficili da comprendere. Di fronte alle sinfonie precedenti, quelle numerate come visto dall'1 al 7, queste costituiscono delle eccezioni in senso formale. S'è indicata la struttura in un unico, per quanto vasto movimento, di quella che legittimamente sarebbe la sinfonia n. 8, con la sua costituzione appunto in quattro strofe che dovranno «susseguirsi senza rivelare i passaggi dall'una all'altra». Dunque una struttura affatto diversa dalle sette sinfonie precedenti, tutte in quattro tempi, nettamente distinti. Con le quali contrasta, per motivi opposti, la Sinfonia dello Zodiaco, anche se la sottointitolazione parrebbe suggerire un'analoga quadripartizione. Che esiste, ma in modo diversamente complesso, poiché per rispondere alle parti in cui si suddivide lo Zodiaco vi sono disposti, nel modo di suite, dunque, ben dodici brani, così che tale composizione - ed è un fatto rilevante - risulta quasi raddoppiata per proporzioni o per durata rispetto alle altre sinfonie. [39]
La Sinfonia realmente numerata come Ottava risale a parecchi anni più tardi, al 1964, e si presenta con il sottotitolo di «Symphonia brevìs» (ma in realtà è d'ampiezza analoga alle altre). È opportuno ricordare che un paio d'anni avanti era nata un'altra composizione dello stesso genere, dal titolo Sinfonia per Antigenida (1962), con la quale si può esattamente parlare di un nuovo stile malipieriano, in coincidenza con quelle mutazioni linguistiche e stilistiche che abbiamo visto esplicarsi nei lavori scenici a partire dagli anni 1954-55. Frequenti, in questa Sinfonia per Antigenida [40] - in un unico movimento, ricco di episodi contrastanti e dove l'ottavino assume un ruolo concertante - le zone liberamente atonali, nelle quali il linguaggio malipieriano, pur restando fondamentalmente diatonico, modaleggiante, si spinge ad esplorare procedimenti cromatici e dissonanze. Che puntualmente poi ritornano, forse anche in maniera più aspra e comunque in un ordito contrappuntistico più teso e ricco, proprio nella «Symphonia brevis», dove a riconferma del nuovo corso troviamo pure una diversa articolazione in quattro movimenti. E cioè un Piuttosto lento iniziale, al quale segue un Allegro, quindi un Non troppo lento che comporta diversi episodi contrastanti, tra cui andamenti veloci e persino uno Agitato, al quale poi segue il conclusivo Lento quasi funebre. Simile frammentazione e varietà ricorre anche nelle composizioni successive, nelle quali dunque l'idea consueta del movimento risulta per così dire rinnovata dall'interno, se non addirittura superata.
Il linguaggio che abbiamo visto attivarsi nella Sinfonia per Antigenida e nella «Symphonia brevis» si riconferma, senza variazioni non sostanziali, nella Nona sinfonia («dell'ahimé») (1966),[41] per accentuare le sue risorse dissonanti nella Decima sinfonia («Atropo») (1966), [42] e trovare una certa schiarita nell'Undicesima e ultima («delle cornamuse»), composta nel settembre-ottobre 1969.[43]
Gli anni lasciati vuoti dalla produzione di sinfonie, dal 1952 al 1962 circa, propongono alcuni lavori sempre per orchestra di diverso significato e rilievo. Alle due pagine nate quasi contemporaneamente nel 1952, Vivaldiana e Passacaglia, riteniamo si debba riconoscere solo il ruolo di conclusione di un periodo, di quello segnato specialmente dal diatonismo e dall'arcaismo, antiretorico e liberamente concepito. L'una e l'altra composizione le sentiamo dunque un po' come congedo da un modo di essere del musicista, non senza una punta di malinconia, ma anche come una pausa di riflessione - garantita dal ripensamento dello stile vivaldiano, da una parte [44] «e dalla certezza formale-stilistica della passacaglia - e necessaria all'incubazione di nuovi indirizzi compositivi. Dirimpetto a questi lavori si pongono le affatto diverse partiture delle Fantasie di ogni giorno e dell'Elegia capriccio, entrambe del 1953, nelle quali si esplicano le disposizioni inventive e le inclinazioni fantastiche più autentiche del musicista, per quanto regolate ancora dal flusso discorsivo diatonico che solo raramente appare striato da tenui cromatismi.[45]
Eppure proprio in questi due lavori si può individuare la transizione a una nuova fase compositiva, quasi la duplice premessa alle composizioni più importanti che Malipiero iscriverà nel settore strumentale e di musica da concerto negli anni Cinquanta, cioè le quattro Fantasie concertanti (1954) e i Dialoghi (1955-66). Pur attestandosi su un piano inferiore a quello dei Dialoghi - dove abbiamo visto giocare un ruolo importantissimo la presenza di pagine vocali-strumentali -, le Fantasie concertanti costituiscono un punto fermo nell'evoluzione di Malipiero e del suo linguaggio nel dopoguerra. Ne esplicano, in definitiva, la capacità di aggiornarsi, di rinnovarsi, ma senza rinnegare se stesso, anzi addirittura esaltando i propri modi di sentire e di esprimersi, così firmando due lavori da includersi tra le sue maggiori manifestazioni. Nelle Fantasie ci sono pure le premesse, diciamo così, formali dei Dialoghi, proprio per il loro configurarsi alla maniera concertante, come indica la seconda parte del titolo medesimo. Ovvero - lo ha precisato ancora il compositore - quel senso autentico del concertante costituito da «quell'istrumento che alza la voce sugli altri, ma accordandosi con la massa dell'orchestra, evitando d'imporsi con la prepotenza di virtuoso: ecco perché questo libero vagare della fantasia l'ho intitolato Fantasie concertanti, di concerto con quello che mio malgrado volevo esprimere, per istinto, non per ragionamento». Le quattro Fantasie (esattamente nell'ordine: Per archi, Per violino e orchestra, Per violoncello e orchestra, Per pianoforte e orchestra) sono composizioni che mostrano linnestarsi di quel nuovo gusto per la dissonanza, anche aspra e ricorrente, e per i passaggi pancromatici e le enucleazioni persino dodecafoniche, talora seriali, di cui s'è già detto, ma che, ribadiamo, avvengono in un impianto fondamentalmente diatonico ch'è tipico, e rimarrà tale, del musicista.
A fianco delle composizioni concertanti possiamo situare i veri e propri concerti solistici, di cui abbiamo già avuto anticipazioni nell'anteguerra. Vediamo così aggiungersi ai due concerti pianistici del 1934 e del 1937, altre quattro composizioni dello stesso genere e sempre destinate alla tastiera, scritte rispettivamente nel 1948 (il terzo), nel 1950 (il quarto), nel 1958 (il quinto), nel 1964 (il sesto e ultimo, detto «delle macchine»). Di questi concerti si potrebbe ripetere, dal punto di vista linguistico e formale, quanto già detto a proposito di altri lavori, delle sinfonie, ad esempio, che siano collocati avanti il 1954 - la data, importantissima, delle Fantasie concertanti, insomma. Sempre in tre tempi, secondo lo schema veloce-lento-veloce, sono certo da includersi tra le poche riuscite testimonianze degli anni Cinquanta-Sessanta in materia di concerti pianistici, dove realmente si protraggono sinceri interessi per la tastiera, per il suo contrastare e giustapporsi all'orchestra. Vi è persino il gusto di portarne avanti gli aspetti virtuosistici (nel Quinto concerto) o di studiarne le risorse sonore in direzioni meno consuete, addirittura agganciandole (nel Sesto) all'espressione angosciante della tecnologia avanzata che minaccia di sopraffare la fantasia del musicista, che vuole scardinare la sua libertà d'intellettuale umanista (e troviamo, specie nel lento, quelle atmosfere sonore notturne timbricamente livide che saranno anche delle Metamorfosi di Bonaventura).
Pure importante il secondo dei due concerti per violino, scritto nel 1963, forse linguisticamente uno dei lavori più avanzati di Malipiero, espressivamente non poi distante da certe situazioni della parte centrale del citato concerto pianistico, anche se in generale più disteso o lirico.[46]
Per finire, un cenno ai quartetti che costituiscono, nel dopoguerra, le sole occasioni di Malipiero di applicarsi alla dimensione cameristica (quando si eccettui il quarto Dialogo per cinque strumenti «a perdifiato»). L'importanza dei primi quartetti, dai Rispetti e Strambotti agli Stornelli e ballate, ai Cantari alla madrigalesca, non viene certe uguagliata dai lavori che nascono nel periodo postbellico. E forse solo certe esplicazioni fantastiche vanno sottolineate, come quelle del Quinto quartetto («dei Capricci»), il secondo del dopoguerra, terminato nell'aprile 1950, e singolarmente legato a un lavoro teatrale;[47] e così gli umori che fecero scaturire il Sesto quartetto («L'arca di Noè»). A completamento della serie, poi, un Settimo quartetto (1950) e un Ottavo detto Quartetto per Elisabetta (1964) - quest'ultimo, evidentemente, testimone nello specifico settore dei nuovi orientamenti linguistici di cui s'è già riferito. Una curiosità, per concludere: l'intera serie, dal n. 1 al n. 8, è dedicata a mrs. Elizabeth S. Coolidge.

NOTE

[1] Dell'avvicinamento di Malipiero alla dodecafonia s'è occupato il VLAD, nella sua Storia ecc., op. cit., pagg. 196-198, dicendolo evidente nelle Fantasie concertanti (1954), dove: «non solo Malipiero elabora il discorso sonoro a partire da ricorrenti figure tematiche, ma formula le più importanti di esse in modo da implicare delle serie dodecafoniche» così che, addirittura, «ad ognuna delle Fantasie (in numero di quattro...) corrisponde un particolare tema di dodici note». Personalissimo l'uso di quei temi, ché «si scompongono, si frantumano per ricomporsi nella forma originaria, per ingenerare nuove costellazioni di dodici suoni, o per disciogliersi in zone diatoniche». Non diversamente accade in altri lavori del periodo, quali Venere prigioniera e i Dialoghi. Riprenderemo fra poco tale discorso.

[2] Di ciò s'è già riferito in precedenti capitoli. Ricordiamo ancora qui, in breve, che Pizzetti svelò la propria repulsa nei confronti dello Schönberg atonale negli Intermezzi critici (1921 ), mentre Malipiero nel 1938 confidò al Dallapiccola di non «aver mai ammirato Schönberg» e di averlo confessato, sin dal 1916, nel volumetto L'orchestra.

[3] E cioè Stradivario, fantasia di strumenti che ballano, composto nel 1948, e rappresentato tre anni più tardi a Lisbona. Un tipico soggetto malipieriano, incentrato sulla figura di un collezionista di strumenti musicali che, scoperto in mano a un suonatore ambulante un autentico Stradivario, se ne impadronisce e lo pone tra i suoi pezzi preziosi. Di notte gli strumenti si rianimano e danzano, accoppiandosi con i loro antichi proprietari, tra cui è anche il mendicante dello Stradivario. Attratto dal rumore sopraggiunge il collezionista che verrà poi sopraffatto dagli strumenti.

[4] P. SANTI, nello studio più volte citato, pag. 102, scrive riferendosi a Venere prigioniera (1955) che «lo spazio sonoro in cui mostra di muoversi la sua musica pare costantemente definito dalla sovrapposizione di una scala modale diatonica e di una scala esatonale, sì da interessare contemporaneamente dieci o almeno nove gradi della gamma cromatica. Tutte o quasi le idee musicali, analizzate nel loro contesto armonico, tendono infatti a strutturare un ambito sonoro che copre dieci o nove note della scala cromatica. Basterà a questo punto l'interferire o il giustapporsi di un'altra idea conglomerante un analogo ambito trasposto di semitono, oppure il semplice verificarsi di uno scarto di eguale intervallo dentro il complesso armonico della medesima idea, perché il gioco sia fatto: tutte le dodici note risulteranno coperte».

[5] G.F. MALIPIERO, Catalogo annotato, in L'opera di G.F. Malipiero, op. cit., pag. 206.

[6] E difatti il lavoro nacque, come precisò il compositore, dalla partitura di Mondi celesti per soprano e dieci strumenti (1948) i quali «però conservano un'assoluta indipendenza, cioè hanno una vita a sé, un carattere essenzialmente mistico». Furono infatti presentati, quando ormai il lavoro scenico era compiuto, in un'esecuzione concertistica svoltasi a Capri il 3 febbraio 1949, in occasione di una riunione per il Premio Italia, interpretati dalla Laszlò, con la direzione di Giulini.

[7] Evidentemente tutti i restanti personaggi femminili sono affidati a una voce di soprano, che dovrebbe anche essere quella di un'unica interprete. Nei tre atti agiscono però anche altri personaggi, tra cui Romeo (tenore), Giasone (baritono), Creonte (basso), Ottavia (soprano), Agrippina (mezzosoprano).

[8] La prima realizzazione di Mondi celesti e infernali fu radiofonica e avvenne il 12 gennaio 1950, sotto la direzione di Mario Rossi. Soltanto molti anni più tardi il lavoro fu realizzato scenicamente, alla Fenice di Venezia, il 2 febbraio 1961, ed ebbe per protagonista Magda Olivero, sotto la direzione di Ettore Gracis.
[9] Ancora un mito, evidentemente, con Il figliuol prodigo, ma rivissuto attraverso il testo della sacra rappresentazione di quel Pierozzo Castellano de' Castellani che gli aveva già fornito i testi per la Cena e la Passione. Nel Figliuol prodigo si trovano, ordinati in modo armonico e simmetrico, cinque episodi che Malipiero intendeva alla maniera di «un polittico che rappresenta i tre ambienti necessari allo svolgersi dell'azione senza manovre di sipari». L'opera è basata essenzialmente su un declamato diatonico, di ampio respiro e retto da un'armonistica morbida, così confermando quello stadio linguistico che Malipiero aveva seguito nel corso degli anni Trenta, e qui legittimato dalla contemplazione del mito evangelico e dal testo cinquecentesco. I principali personaggi e i relativi ruoli vocali del lavoro sono: il Figliuol prodigo, tenore; due giovani, due tenori; un terzo giovane, baritono; il Padre, baritono o basso; l'oste, baritono. Fu eseguito alla Radio il 25 gennaio 1953.

[10] Anche qui un tema mitico, quello della Spagna sensuale, superstiziosa, dell'epoca dell'Inquisizione. Una premessa dell'autore al libretto specifica che «l'argomento e parte del dialogo sono presi dalla commedia Le ciel et l'enfer di Prosper Merimée e precisamente da quella sua finzione che egli chiama il Teatro (spagnolo) di Clara Gazul». Va però tenuto presente che Malipiero puntava al valore universale del mito, sottraendosi così alla narrazione realistica dello scrittore francese. E, difatti, a proposito dell'ambiente prescrive «una stanza che nello stile non deve precisare un'epoca» - ch'è poi quella dell'Inquisizione -, mentre punta tutto sulle tipizzazioni dei personaggi già mediante l'abbigliamento. E i tre personaggi che appaiono sulla scena dovranno attenersi a quelle indicazioni: cioè Donna Urraca (soprano) «vestirà come una dama spagnola del tempo di Velazquez», Don Paolo (tenore) «come un cavaliere molto elegante», Don Pedro Torquemada (baritono) «vestirà tutto di nero, con un mantello ferraiuolo pure nero e nero sarà il cappello ad ali larghe». Donna Urraca fu portata per la prima volta in scena al Donizetti di Bergamo, il 2 ottobre 1955.

[11] Significativa, per stabilire l'affinità, l'ambientazione della vicenda di Venere prigioniera che si dice «forse in Spagna, in un'epoca leggendaria, passata, presente, o a venire». Torna dunque qui quella Spagna che Malipiero aveva contattato, per la prima volta, con La vita è sogno di Calderon, e che doveva tornare con il più tardo Don Giovanni. L'azione di Venere prigigioniera, piuttosto complessa, ha i seguenti personaggi: Melchiorre, baritono; suo figlio Uidillo, tenore; Don Giovanni Mediana, tenore; Venere incatenata (La regina), soprano; nonché i quattro personaggi della commedia Venere incatenata (due pastorelli, soprano e tenore; il Poeta contadino e il Poeta fanatico, baritoni).

[12] P. SANTI, op. cit., pagg. 107-110.

[13] Ovvero, senza entrare nei dettagli che il Santi fornisce abbondanti, una forma che potremmo così schematizzare:

[14] A. GENTILUCCI, Guida all'ascolto della musica contemporanea, op. cit., pag. 253.

[15] Lo spettacolo, nella regia di Alessandro Fersen, con bozzetti e figurini di Ernanuele Luzzati, ebbe per protagonisti Herbert Handt (Don Giovanni), Amedeo Berdini (Uidillo), Fernando Corena (Melchiorre) e Cesy Broggini (Venere).

[16] Contrasti qui evidenti fin nella disposizione scenica. Prescrive infatti il compositore che la scena dovrà essere «divisa in due parti. A destra, su un piano abbassato, in modo che risulti il meno alto possibile (e non deve occupare più di un terzo della larghezza della scena) la grotta della Quaresima; quasi al buio, i personaggi sembreranno ombre fosforescenti. Sul piano rialzato risultante dalla grotta della Quaresima, siederà maestosamente il Carnasciale. Il resto della scena avrà l'aspetto di una taverna con tavole e sedie, il tutto però disposto in modo che rimanga lo spazio per ballare». La folla di personaggi (dodici cantanti complessivamente) sono divisi a seconda della loro appartenenza al seguito di Carnasciale (baritono) o della Quaresima (contralto).
[17] Su libretto proprio, Capitan Spavento può ritenersi come il punto culminante di quel gusto malipieriano per le mascherate, che appunto qui finisce per dominare completamente e travolgere tutto, persino la finzione scenica, come nel finale quando il protagonista dopo essere stato giustiziato coll'impiccagione si allontanerà cantando la sua canzone spavalda («Feci alla pugna iersera con tre...»). Personaggi e ruoli vocali dell'opera sono: Capitan Spavento, baritono; Menato, tenore; la Gitta, soprano; due locandieri, tenore e baritono; il Giudice, tenore. Capitan Spavento fu portato in scena al San Carlo napoletano il 16 marzo 1963, diretto da Ferruccio Scaglia e con protagonista Pietro Guelfi.

[18] Sempre su libretto proprio, le Metamorfosi furono rappresentate alla Fenice di Venezia, il 4 settembre 1966, sotto la direzione di Ettore Gracis.

[19] Ancora un altro libretto proprio, questo per Gli eroi di Bonaventura, opera messa in scena alla Piccola Scala il 7 febbraio 1969 e diretta da Sanzogno. Gli «eroi» sono: Ecuba (soprano), Polinestore (baritono), Agamennone (baritono), Calpurnia (soprano), Giulio Cesare (baritono), Bruto (baritono), Cassio (baritono), Marco Antonio (tenore), Cleopatra (soprano), Dolabella (baritono), Violante (soprano), Panfilia (soprano), Capitan Spavento (baritono), il Figliuol prodigo (tenore), il Padre (baritono).

[20] P. SANTI, programma di sala, Venezia, 1966. Così pure la successiva citazione.

[21] Le tre parti delle Metamorfosi pullulano di apparizioni che Bonaventura (voce di baritono) sembra quasi evocare da se stesso. Basta scorrere l'elenco dei personaggi, che sunteggiamo: I. Parte: un'ombra, tenore; due innamorati, soprano e tenore; l'ubriaco, baritono; Ofelia, soprano; II. parte: Don Giovanni, baritono; Donna Eleonora, soprano; III. parte: la madre, contralto; la donna, soprano. Nella prima e nella seconda parte figura anche un coro interno (prima femminile e poi misto)

[22] Ambientata «in Spagna, qualche secolo fa», l'azione ha per protagonisti Don Giovanni (baritono), Leporello (tenore), Donna Anna (soprano), Laura (mezzosoprano), Don Carlos (baritono). Fu portata in scena al San Carlo di Napoli, il 22 ottobre 1963, sotto la direzione di Franco Caracciolo.

[23] Il libretto dello stesso Malipiero fu derivato da Don Pilone ovvero il Bacchettone falso del commediografo senese Gerolamo Gigli (1711), ch'è poi la libera traduzione del Tartufo di Molière: ecco la ragione del titolo che fonde i due lavori e onora i due autori. I personaggi sono: Don Tartufo, baritono; Petrella, soprano; Buonafede, baritono; Elmira, soprano; Marianna, soprano; Sapino, tenore.

[24] Personaggi principali sono il Marescalco (baritono), Giannicco (tenore), la Balia (mezzosoprano), messer Jacopo (baritono), il Pedante (tenore).

[25] Le due operine furono rappresentate insieme il 28 agosto 1971 al Teatro dei Rinnuovati di Siena, sotto la direzione di Nino Sanzogno. I personaggi dell'Iscariota sono: Giuda (baritono), l'uomo (tenore), il capitano (tenore), due sacerdoti (due tenori). I personaggi di Uno dei Dieci, soggetto d'ambiente veneziano, sono: Almerò da Mula (baritono), Alvise e Zorzi, suoi figli (baritoni), Loredana (mezzosoprano), Manolesso (baritono), Donna Veneria (soprano), Donata Donati (soprano), Anzolo (baritono).
[26] Lo stesso Malipiero ebbe a precisare sulla genesi di Magister Josephus quanto segue: «Come nascono e si sviluppano le idee non si sa, nessuno può saperlo; ricordo però che quando vidi rinascere dai suoi monumentali trattati il chiozzotto Gioseffo Zarlino, lo feci sedere a un tavolo in discussione con tre discepoli. Riuscii a inventare un episodio della sua vita che lo costrinse però fuori dalla tomba per seguire le evoluzioni dell'arte musicale fino ai nostri giorni. Si agita, soffre, reagisce, ma alla fine si arrende». E nella premessa alla partitura (Edizioni musicali «La voce del padrone», 1958) specifica: «nei suoi poderosi trattati lo Zarlino di quando in quando rinunzia alle teorie e si lascia rapire da una specie di poesia filosofica nella quale però sempre domina il suo profondo senso religioso. Magister Josephus è appunto lo spirito dello Zarlino in lotta con le espressioni concesse alla musica e alla fine lo Zarlino si arrende, ché, se le teorie sono state superate, spiritualmente ha vinto».

[27] M. MILA, presentazione del lavoro per l'edizione discografica (1958).

[28] Come risulta già dall'articolazione del lavoro che proponiamo:

[29] Preludio e morte di Macbeth fu presentato in «prima assoluta» alla Scala, il 13 giugno 1960, diretto da Nino Sanzogno con solista Carlo Melisciani.

[30] In entrambe le composizioni la voce risulta limitata al canto di talune liriche. Esemplare in tal senso la struttura del Concerto di concerti che riportiamo: 1. Allegro - 2. Lento (dalle Stanze del Poliziano) - 3. Andante non troppo, ma un poco fluido - 4. Lento (dal Transito e testamento di Carnevale di ignoto del XVI secolo) - 5. Lento, non troppo - 6. Allegro (da Le ipocrite, commedia dell'Aretino). La composizione fu presentata al XXIII Festival veneziano, nel settembre 1960.

[31] In proposito ha precisato l'autore: «I Dialoghi hanno avuto origine da un omaggio a Manuel de Falla, scritto nell'ottobre 1955 (terminato il 14 aprile 1956, n.d.r.), che mi è sembrata una conversazione con l'amico scomparso».

[32] L. PESTALOZZA, Corrispondenza da Venezia, in «La rassegna musicale», n. 3, 1957, pagg. 232-236. Al XX Festival furono eseguiti due degli otto Dialoghi, esattamente il sesto e l'ottavo, in un concerto-medaglione dedicato al musicista, ad apertura della manifestazione, e nel quale figuravano ancora la Passione e il Notturno di canti e balli per orchestra (1956).

[33] Oltre alla esecuzione del sesto e dell'ottavo Dialogo, di cui s'è riferito alla nota precedente, possiamo indicare qualche altra esecuzione dei restanti lavori: il quarto, Per cinque strumenti a perdifiato, era già stato presentato a Venezia, al XIX Festival, nel settembre 1956; il quinto, Per viola e orchestra, all'Auditorium RAI di Torino, nel marzo 1959.

[34] Citiamo ancora dalla corrispondenza del PESTALOZZA, art. cit., pagg. 233-234.

[35] Fu presentata sotto la direzione di Mario Rossi alla BBC londinese, il 3 novembre 1947.

[36] La presentò Nino Sanzogno alla Scala, il 3 novembre 1949.

[37] Fu proposta da Paul Klecki all'Argentina di Roma, il 21 marzo 1951.

[38] Ancora Sanzogno la tenne a battesimo, il 23 gennaio 1952, alla Victoria Hall di Losanna.

[39] Nell'ordine i movimenti sono: Andante, Mosso, Andante-Allegro, Allegro, Piuttosto lento, Allegro mollo marcato, Piuttosto lento, Allegro grazioso, Lento, Leggermente mosso-Allegro molto moderato, Andante (pastorale), Allegro (agitato).

[40] Con un significato quasi d'epigrafe spiega Malipiero in testa all'edizione della partitura che «Antigenida tebano antichissimo e peritissimo sonator di piffero ebbe un discepolo chiamato Ismenia, il quale avendo fatto delle cose della musica buonissimo acquisto, per una disavventura appresso il popolo non fu molto grato. Laonde stando mal contento, e avendosi di ciò accorto, Antigenida gli disse: non ti curare Ismenia del popolo, percioché basta chu tu piaccia a me e alle Muse...». La Sinfonia fu presentata nel dicembre 1962 al di Francoforte.
[41] Di nuovo in quattro movimenti (un Allegro molto frazionato, un Lento ma non troppo un nuovo Allegro e, per finire, un Allegro ma non troppo-Piuttosto largo), la Sinfonia deve la sua denominazione alle due misure conclusive del terzo tempo (edizione Ricordi, pag. 42, batt. 286-287) dove, su rulli di cassa e tamburi, tremoli di piatto sospeso e tam-tam, in FF, le trombe emettono una lancinante figura ascendente di due suoni che suggerisce appunto l'interiezione. E questa è scritta esplicitamente sulle due misure, con un corpo tipografico ben visibile. Per la prima volta fu eseguita all'Autunno di Varsavia, nel 1966, da parte dell'Orchestra sinfonica della RAI-TV di Torino diretta da Mario Rossi.

[42] La composizione (anch'essa in quattro movimenti: Lento-Andante, Tranquillo, Mosso, Mosso molto vivace), dedicata alla memoria di Hermann Scherchen, deve la sua denominazione all'episodio conclusivo, nel quale Malipiero cita se stesso, riprendendo una ventina di misure dalla terza parte dell'Orfeide, laddove risuonano le ultime parole di Orfeo (e la linea melodica è affidata al fagotto):

... e in quest'ultimo
grave esilio
brama ch'Atropo
a la linea
del suo vivere
che dee scorrere
tutti i secoli
ponga termine.

Molto breve, circa una dozzina di minuti, la Decima sinfonia fu presentata al Comunale di Firenze, il 17 giugno 1967.

[43] Quest'ultima Sinfonia (Energico mosso, Lento, Gaio, Molto mosso) deve il suo titolo alle timbriche ricorrenti che ricordano appunto sonorità di cornamuse. Fu eseguita per la prima volta nella Sala Verdi del Conservatorio di Milano, il 2 aprile 1971, sotto la direzione di Sanzogno.

[44] Un ripensamento che si valutò addirittura eccessivo, al punto che qualcuno scrisse che avrebbe preferito ascoltare «un po' meno Vivaldi e un po' più Malipiero, dal momento che si era affrontato il rischio di un Vivaldi nato all'inizio del XX secolo».

[45] Le Fantasie di ogni giorno, definite dall'autore come un «viaggio quotidiano nel regno della fantasia», sono una sorta di diario musicale. Nel quale, con la massima libertà, si succedono continue idee e episodi diversi, come attratti gli uni dagli altri, senza un momento di stanchezza inventiva. La partitura fu eseguita la prima volta all'Academy of Music di Filadelfia, nell'ottobre 1954. Notevole anche l'Elegia capriccio, dedicata all'Orchestra di Baden-Baden, che sotto la direzione di Hans Rosbaud la propose al pubblico del XVI Festival di Venezia, nel settembre 1953. Anche qui un ampio e frazionato movimento, alla cui struttura episodica e alla cui unità concorrono due temi (uno di carattere appunto elegiaco e l'altro capriccioso), che riappaiono frequentemente e sempre trasformati.

[46] Tra le ultime composizioni malipieriane figura ancora un Concerto per flauto e orchestra (1968). Citiamo infine le partiture che concludono la produzione orchestrale del compositore, e cioè Gabrieliana e Omaggio a Belmonte, entrambe del 1971 e testimonianze di rilievo proprio in quanto omaggi, rispettivamente, a Giovanni Gabrieli e a Schönberg. Ovvero un'antica e solida «amicizia» e un nuovo acquisto nella larghissima schiera di personaggi che hanno contato nella vita musicale e culturale di Malipiero.

[47] Precisava Malipiero in proposito: «La musica de I capricci di Callot dapprima s'era pensata per orchestra da camera, ma, per ragioni di proporzioni, il progetto venne abbandonato. Questo Quinto quartetto è composto dei brani che in origine si sarebbero dovuti affidare a un puro quartetto d'archi». In un sol tempo, ma con sette episodi facilmente rilevabili. E cioè: Andante. Allegro -moderato, Mosso un poco grottesco, Andante quasi lento, Allegro, Lento e ripresa dell'Andante iniziale. La scrittura appare molto semplificata, l'espressione è prevalentemente serena, con venature gioconde (l'Allegro moderato e l'Allegro successivo, dal caratteristico ritmo di tarantella) e ironiche (la marcetta dell'Andante quasi lento), ma con la sorpresa - nel Lento prima della ripresa dell'episodio iniziale - di un passaggio d'espressione sorda e cupa, appunto funebre.