ROMAN VLAD

SITUAZI0NE STORICA
DELLA GENERAZIONE DELL'80


MUSICA ITALIANA
DEL PRIMO NOVECENTO

pp. 3-8
©
LEO S. OLSCHKI FIRENZE
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Un secolo si sta compiendo da quando ebbe inizio la vicenda terrena di una generazione di musicisti nati intorno al 1880 e destinati ad improntare la musica italiana del primo Novecento. Nel 1879 nacque Ottorino Respighi. Nel 1880 Ildebrando Pizzetti. Nel 1882 nacque Gian Francesco Malipiero. Nel 1883 Alfredo Casella. Un poco discosti Vincenzo Tommasini (1878) e Franco Alfano (1876). Ancor più lontano nel tempo il grande quanto misconosciuto Ferruccio Busoni, nato nel 1866, ma spiritualmente vicino se non proteso oltre le mète della generazione dell'Ottanta. Nella sfera di questa generazione si potrebbero far rientrare - in una prospettiva più che altro cronologica - non pochi altri compositori assai diversi per formazione, indirizzo e merito: da Lorenzo Perosi (1872) ed Ermanno Wolf-Ferrari (1876) a Riccardo Zandonai (1883) e Vito Frazzi (1888); da Riccardo Pick-Mangiagalli (1882) e dai conservatori Giuseppe Mulé ed Adriano Lualdi (entrambi del 1885) ai futuristi Francesco Balilla Pratella e Luigi Russolo, rispettivamente del 1880 e del 1885. Questi ed altri musicisti che non ho citato, si mossero lungo itinerari che a volte presentavano punti di contatto o anche tratti comuni con le vie maestre aperte dai protagonisti della generazione dell'Ottanta, ma che altre volte ne divergevano anche polemicamente.
A dire il vero, anche questi ultimi cioè Respighi, Pizzetti, Malipiero e Casella non formarono mai un gruppo nel senso di quello nazionale russo «dei Cinque» o di quello neoclassico francese «dei Sei». Semmai i due più anziani e i due più giovani si collocarono su posizioni stilistiche ed ideologiche più vicine tra di loro formando così due coppie di cui quella costituita da Malipiero e Casella assunse una netta funzione di relativa avanguardia. Questa dicotomia all'interno della generazione dell'Ottanta ebbe, proprio alla fine del periodo storico che il nostro Convegno prende in considerazione, una clamorosa manifestazione pubblica nel noto Manifesto che, nel 1932, un certo numero di musicisti, tra i quali si trovarono, appunto, anche Respighi e Pizzetti, lanciò contro il presunto modernismo internazionalista di Casella e Malipiero. Data la sua ispirazione e data la particolare temperie politica nella quale questo manifesto s'innestava, le sue conseguenze per la vita musicale italiana avrebbero potuto essere quanto mai negative. Per fortuna tali conseguenze furono limitate e ben presto assorbite dal definitivo affermarsi dell'indirizzo più moderno propugnato da Casella e Malipiero senza che peraltro ne avessero a soffrire le fortune personali e la diffusione delle opere di Pizzetti e Respighi. Anzi: è proprio la musica di quest'ultimo, considerata da buona parte della critica ufficiale come manifestazione della linea storica meno feconda, se non proprio perdente, il successo di gran lunga maggiore sul piano nazionale e vieppiù su quello internazionale.
Si tratta ovviamente di uno dei non pochi paradossi di cui le spiegazioni potranno essere -approfondite dal nostro Convegno. Fatto sta che il testimone della decisiva azione storica di Casella e Malipiero, negli anni Trenta passò dalle mani di questi ultimi nelle mani dei due maggiori esponenti della successiva generazione del Novecento, Luigi Dallapiccola e Goffredo Petrassi, ai quali fu dato di portare a termine quanto i loro predecessori avevano iniziato: la riforma moderna della musica italiana. Ed è questa riforma, che al dì là di ogni contingenza e retorica celebrativa, costituisce l'argomento implicito, ma fondamentale del Convegno che il Gabinetto Vieusseux e il Comune di Firenze hanno avuto il merito di organizzare.
A questo punto i non addetti ai lavori potranno domandarsi: ma c'era davvero bisogno di una simile riforma che, come tante altre tiforme, suscitò polemiche a non finire e non riscosse mai un gradimento universale? Si trattava proprio dell'imprescindibile adempimento di un compito, di un vero e proprio imperativo categorico della storia?
Per rispondere a simili quesiti sarà necessario prospettare anzitutto le vicende della musica italiana nel quadro generale della vita culturale italiana dello stesso periodo. A tal fine dovrebbero servire le relazioni sulla cultura letteraria e su quella figurativa nel primo trentennio del secolo e a tale scopo è intenzionata la Mostra allestita a Palazzo Strozzi.
Simili collegamenti pluridisciplinari sono evidentemente indispensabili, ma non sarebbero di per sé sufficienti per offrire risposte valide ed esaurienti ai quesiti di cui sopra. E questo per la semplice ragione che rispetto alle altre arti, la musìca italiana si trovava all'inizio del nostro secolo, cioè nel momento in cui la generazione dell'Ottanta si affacciava alla ribalta della storia, in una situazione del tutto particolare. In una situazione che peraltro non trova riscontro nemmeno nella storia musicale di altri paesi.
Apparentemente scoppiava di salute. Rossini, Bellini e Donizetti avevano conquistato l'universo della lirica. Verdi aveva portato l'opera italiana ad un culmine senza precedenti. Lo stesso antagonismo con Wagner sembrava risolversi in una salutare emulazione. Nessun segno esteriore annunciava un prossimo inaridirsi dell'aurea vena operistica. Al contrario, anche le sorti dell'opera post-verdiana sembravano assicurate e il futuro si presentava sotto i più favorevoli auspici dal momento che, prim'ancora che Verdi avesse posto la parola fine al suo ultimo capolavoro, era sorta una «giovane scuola»: due autentici capolavori quali sono e restano Cavalleria rusticana di Mascagni e I Pagliacci di Leoncavallo ne segnarono lo sfolgorante inizio. E ancor prima che Verdi chiudesse gli occhi, il genio di Puccini si era rivelato con i suoi primi tre capolavori: Manon Lescaut, Bohème e Tosca. Né si poteva dire che,intorno a questi nuovi protagonisti ci fosse il vuoto: un nugolo di giovani appena o non ancora trentenni avevano già dato prove sicure dei loro talenti: Alberto Franchetti col Cristoloro Colombo (1892), Umberto Giordano con l'Andrea Chénier e la Fedora (rispettivamente del 1896 e del 1898), Francesco Cilea con l'Arlesiana (1897) e l'Adriana Lecouvreur (1902).
Non poteva non sembrare assurdo, allora, mettersi a contrastare il cammino di questi giovani incamminati sulla strada maestra della grande e gloriosa tradizione italiana per inoltrarsi sui sentieri aspri e imprevedibili di una vera e propria rivoluzione culturale. E a dire il vero, non era certo facile prevedere all'alba di questo secolo che la «giovane scuola» fosse già vecchia perché non aveva nessuna vita davanti a sé. Che, con la sola eccezione di Puccini, nessuno dei compositori appartenenti o vicini ad essa sarebbe riuscito a compiere un solo passo in avanti, salire un solo gradino più in alto di quanto non avesse già raggiunto con la sua opera prima o seconda. E che Mascagni, Leoncavallo, Franchetti, Cilea e Giordano fossero condannati da un'inesorabile ratio storica a sopravvivere a lungo a se stessi. E che persino Puccini, pur proseguendo in ascesa fino a sfiorare la vetta della Turandot non aprisse più nessuna via, ma in realtà chiudesse, anche se in modo superbo, la grande stagione dell'opera italiana.
Ora, senza indulgere ad ipotesi fantastoriche e senza seguire ragionamenti sul tipo di quello che s'impernia sul naso di Cleopatra, basta immaginarsi la situazione in cui si sarebbe trovata la musica italiana alla fine del primo quarto del nostro secolo se nel frattempo in Italia fossero stati attivi solo gli operisti ricordati poc'anzi. Esaurito il grande filone operistico, che cosa avrebbe potuto opporre l'Italia in campo sinfonico e cameristico alla musica maturata dalla seconda metà del Settecento in poi in Germania, Austria, Francia, Russia e persino negli altri paesi slavi? Quali prospettive si potevano aprire ad una vita musicale italiana che non avesse ricuperato in modo creativo la sua tradizione strumentale preclassica sospinta nell'ombra e nell'oblio dal trionfante melodramma ottocentesco? Che non avesse saputo avviare e porre le basi di una letteratura concertistica? Che non avesse saputo contemperare l'istanza storica che imponeva il ricupero dei portati di un passato riscopetto con l'istanza complementare di far proprie e mettere a frutto in modo originale tutte quelle conquiste di ordine linguistico e formale che erano maturate negli altri paesi europei e dai quali gli operisti italiani dell'Ottocento si erano virtualmente appartati? E che di conseguenza fosse stata ritardata in Italia anche la costituzione e la maturazione di orchestre sinfoniche e di complessi cameristici all'altezza di reggere i confronti con le analoghe istituzioni straniere?
Ci vuol poco per concludere che l'Italia si sarebbe trovata davanti ad una catastrofe culturale senza precedenti. Una catastrofe che avrebbe segnato una tragica provincializzazione della sua cultura musicale. Orbene, se tale catastrofe non si è verificata e se per converso, giunti alla metà del secolo, un musicologo tedesco dell'autorità del compianto Karl-Heinz Wörner ha potutoscrivere che «l'Italia, una volta in testa in campo operistico, ha saputo conquistarsi un posto di guida e di primo piano anche nel campo della moderna musica strumentale da concerto», ebbene ciò si deve aiprotagonisti della generazione dell'Ottanta. Questo fatto costituisce l'immortale merito storico di quella generazione tanto combattiva e tanto combattuta. Combattivi e spesso oltremodo polemici erano anche i critici che spalleggiavano l'azione della generazione dell'Ottanta, con in testa Fausto Torrefranca, il quale, essendo nato nel 1883 appapteneva anche cronologicamente a questa stessa generazione e che, insieme al più anziano Luigi Torchi, al più giovane Guido M. Gatti e ad altri studiosi come Giannotto Bastianelli, Guido Pannain, Andrea Della Corte, gettava nel contempo le basi della musicologia italiana.
L'atteggiamento di questi e di altri critici dell'epoca, ma soprattutto quello di Torrefranca s'intrideva spesso di motivi polemici che a volte venivano portati ad una virulenza davvero eccessiva. Basti ricordare a questo proposito il libello Giacomo Puccini e l'opera internazionale che Torrefranca scrisse nel 1910 e pubblicò nel 1912. Puccini, assunto a tipico rappresentante dell'operista dell'epoca vi veniva bollato come «un falso artista e l'opera d'oggi come un fatto di turpe decadenza». Anzi, Torrefranca arrivava a dichiarare che «il Puccini non è musicista» e a proclamare «l'impotenza ideale dell'opera». Questo momento di marcato autolesionismo nella storia della critica musicale italiana si può anche spiegare, entro certi limiti, tenendo presente che, per affermarsi e per realizzare il ricupero della tradizione strumentale italiana spezzata da quello che il Torrefranca chiamava «morbus melodramaticus», la generazione dell'Ottanta e i suoi paladini potevano essere indotti a non guardare per il sottile e ad usare ogni arma per combattere lo strapotere dell'operismo ancora imperante. Quel momento storico è passato però da un bel pezzo e nulla giustificherebbe più il persistere di polemiche che dovrebbero essere superate da tempo. Tanto più che furono gli stessi protagonisti della generazione dell'Ottanta a superarle ben presto.
Infatti, è stato proprio Casella a insegnarmi ad apprezzare la grandezza di Puccini e a non disprezzare Mascagni e Leoncavallo, come da giovane ero portato a fare. In occasione del cinquantenario della morte di Puccini Luciano Berio, rispondendo ad un'inchiesta scrisse alla «Nuova Rivista Musicale Italiana»: «comincio a sospettare che ci sia qualcosa di losco nell'inconscio musicale di chi vuole, a tutti i costi, collocare Puccini in una prospettiva «comoda» e «contemporanea». Un'opinione diametralmente opposta viene espressa invece da Mario Bortolotto laddove sostiene (in una presentazione della Madama Butterfly nello stesso anno 1974) che la modernità non era stata introdotta in Italia da Casella, ma da Puccini, mentre Casella si affrettava «a virare verso la Borbonìa delle tarantelle». Questa tesi proposta dal più brillante teorico dell'avanguardia di oggi a scorno dell'avanguardia che più di mezzo secolo fa propugnava la riforma moderna della musica italiana, riproduce con segno cambiato la feroce polemica di Torrefranca contro i veristi.
Certo, in sede di bilancio consuntivo della musica italiana del ventesimo secolo non mancherebbero anche altri mezzi polemici per svalutare le realizzazioni effettive della generazione dell'Ottanta. Basterebbe osservare per esempio che Cavalleria, Pagliacci, quasi tutte le opere di Puccini, ma anche qualcuna di Cilea e di Giordario, sono tutt'ora ben vive e diffuse su scala mondiale mentre delle musiche dei compositori della generazione dell'Ottanta solo i poemi sinfonici di Respighi sono entrati e si sono mantenuti nelrepertorio universale.
Un simile modo di ragionare sarebbe iniquo e illegittimo perché implicherebbe la prevaricazione di criteri meramente quantitativi sulle assolute qualità estetiche e sui relativi valori storici.
C'è da auspicare che i lavori di questo Convegno possano valere a meglio individuare, definire e valutare l'azione e l'opera della generazione dell'Ottanta. Al di fuori e al di sopra di ogni passato o contingente motivo polemico. Nella prospettiva di una appassionata, quanto serena e obbiettiva indagine storica. [...]