ITALIAN MUSIC DURING
THE FASCIST PERIOD


LA MUSICA ITALIANA DURANTE IL FASCISMO

LA MUSIQUE ITALIENNE PENDANT LE FASCISME

DIE ITALIENISCHE MUSIK WÄHREND DES FASCISMUS

CON, TRA GLI ALTRI,
UN SAGGIO DI LAURETO RODONI
CURATORE UNICO DELLE RODONI.CH'S WEBSITES
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HARVEY SACHS

MUSICA E REGIME

IL MANIFESTO DEI CONSERVATORI
RUOLO DEL SINDACATO FASCISTA
FESTIVALS MUSICALI


IL SAGGIATORE
MILANO 1995

MALIPIERO E IL FASCISMO
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Col 1915, anno in cui l'Italia entrò nella i guerra mondiale, erano già evidenti varie nuove tendenze tra i giovani musicisti italiani. Prima tra queste, un'inevitabile reazione contro il predominio soffocante dell'opera sulla vita musicale della nazione - una reazione più netta e meno conciliatoria di quella che si era avuta nella precedente generazione. Giovanotti ribelli come i compositori Alfredo Casella e Gian Francesco Malipiero e il musicologo Fausto Torrefranca muovevano accuse generalizzanti al melodramma dell'Ottocento ed esortavano a una nuova estetica nel teatro e a un grande balzo in avanti nella produzione di musica «pura» strumentale. Molti anni più tardi, Massimo Mila, storico della musica e critico, avrebbe definito Casella e Malipiero, assieme ai meno radicali Ildebrando Pizzetti, Ottorino Respighi, Franco Alfano e Riccardo Zandonai, «la generazione dell'Ottanta». [...]
E 17 dicembre del 1932, tre dei maggiori quotidiani del paese - «II popolo d'Italia» (Roma), il «Corriere della sera» (Milano) e «La Stampa» (Torino) - avevano pubblicato «Un manifesto di musicisti italiani per la tradizione dell'arte romantica defl'Ottocento», concepito da Toni e firmato da Respighi, Mulè, Pizzetti, Zandonai, dal critico Alberto Gasco, da Toni, Riccardo Pick-Mangiagalli (compositore e pianista, in seguito direttore del conservatorio di Milano), dai compositori Guido Guerrini (direttore del conservatorio di Firenze), Gennaro Napoli (vicedirettore del conservatorio di Napoli), e da Guido Zuffellato, membro della sezione veneta del Sindacato dei musicisti. Il documento, pur se mal scritto, manifestava le convinzioni e apprensioni degli esponenti più conservatori della musica italiana del tempo, e rispecchiava un modo di pensare che di solito in ambito politico si definisce «xenofobo», e «provinciale» in ambito artistico. Franco Alfano e Mario Castelnuovo-Tedesco, due altri importanti compositori conservatori dell'epoca, si rifiutarono di firmare il manifesto.
Dopo una professione di innocenza iniziale, che fa presagire male, i firmatari dichiarano che «non è loro costume creare chiesuole e congreghe per questa o quella finalità estetica, o costruire cooperative artistiche di mutuo incensamento». Stando però così le cose, essi non possono restarsene passivi senza dimostrare la propria «fede collettiva». [...]
Tutti i credi estetici, che dovevano sovvertire i canoni tradizionali, sono stati esposti e praticati.
Il nostro mondo è stato investito, si può dire, da tutte le raffiche dei più avventati concetti avveniristici.* La parola d'ordine mirava veramente, infuriando, alla distruzione d'ogni vecchia ed antica idealità artistica. [...] Tutto era buono pur che fosse impensato e impensabile.
Cosa ne abbiamo ricavato?
Delle strombazzature atonali e pluritonali; dell'oggettivismo e dell'espressionismo che se n'è fatto, cosa è rimasto?
[...] Siamo ancora alle «tendenze» e agli «esperimenti», e non si sa a quali affermazioni definitive e a quali vie sicure possano condurre.
Il pubblico [...] non sa più qual voce ascoltare né qual via seguire s'è infiltrato nello spirito dei giovani musicisti un senso di comoda ribellione ai canoni secolari e fondamentali dell'arte. [...]
L'avvenire della musica italiana non par sicuro se non alla coda di tutte le musiche straniere. [...] Qualcuno pensa a ruminazioni di nostri lontani secoli musicali. Sopra tutto però, si avversa e si combatte il romanticismo del secolo scorso.
Tutto ciò, dicono i firmatari, per i giovani musicisti è un errore e non fa bene al pubblico. Tutto il nostro passato artistico, da Gabrieli a Verdi e fino a Puccini, ha valore.
Siamo contro alla cosiddetta musica oggettiva che come tale non rappresenterebbe che il suono preso a sé, senza l'espressione viva del soffio animatore che lo crea.
Siamo contro a quest'arte che non dovrebbe avere e non ha nessun contenuto umano [...].
Italiani del nostro tempo [...] con una rivoluzione in atto che rivela ancora una volta l'immortalità del genio italiano e presidia ed avvalora ogni nostra virtù, sentiamo la bellezza del tempo in cui viviamo e vogliamo cantarlo nei suoi momenti tragici come nelle sue infiammate giornate di gloria.
Il romanticismo di ieri [...] sarà anche il romanticismo di domani [...].
Che musicisti di tendenze conservatrici si sentissero scornati dall'avanguardia durante un simile periodo critico della storia dell'arte non è affatto sorprendente: ma che uomini dotati e intelligenti, come Respighi, Pizzetti e Zandonai, abbiano permesso che a rappresentarli in una sede pubblica fossero i concetti superficiali, le sintesi storiche sgangherate e gli argomenti speciosi di Alceo Toni, è scandaloso. Il documento si apre con una vaga definizione di «fede collettiva», ma solo alla fine vi si afferma che tale fede è stata riposta nei «valori romantici». Non c'è dubbio che i firmatari definissero tali valori in modi assai vari. Per Respighi, Pizzetti e Zandonai, «romanticismo» era un termine tuttofare per significare un'estetica morale ed espressiva che si poteva riferire a un'ampia gamma di linguaggi musicali; per Toni, Mulè e alcuni altri, rappresentava l'immobilità linguistica che essi approvavano. Ma comunque si definissero tali valori, il manifesto era un attacco a compositori innovativi come Casella e Malipiero - un attacco gratuito, poiché i due incontravano le stesse difficoltà a far eseguire le proprie composizioni che incontravano gli altri, o più di alcuni altri. La gelosia di Toni, Guerrini, Napoli e simili per i vari succès d'estime di Casella e compagni può essere capita; ma quale possibile interesse avrebbero potuto avere Respighi e Zandonai, le cui composizioni erano suonate in tutto il mondo, o Pizzetti, il cui successo italiano erano almeno altrettanto grande di quello di chiunque altro tra i suoi contemporanei, a spezzare lance in testa ai propri colleghi?
Il manifesto, dichiarava Andrea Della Corte, critico musicale della «Stampa», conservatore ma equanime, era uno «sfogo psicologico» dei suoi estensori, e un esempio di «quel travaglio che fa ansioso lo spirito di qualsiasi musicista contemporaneo». In un editoriale stampato immediatamente sotto il testo del manifesto, Della Corte ne sgridava i responsabili, facendo notare che il pubblico non specializzato sapeva poco o nulla della musica moderna, di qualunque tendenza ne fossero i creatori: «La capacità critica del pubblico, derivata dalla cultura, guida appunto alla distinzione, alla selezione dei valori artistici. La limitazione delle conoscenze conduce invece al più gretto provincialismo e alla sonnolenza».
Poche altre persone dell'ambiente musicale presero la posizione misurata e olimpica di Della Corte. Alceo Toni aveva toccato un nervo sensibile, e il mondo della musica italiana presto si divise in campi e fazioni pro e contro. Le reazioni furono abbastanza prevedibili. I giovani per la maggior parte sottoscrissero quel che sosteneva Fedele D'Amico, ossia che il documento avrebbe dovuto chiamarsi «Il Manifesto del Tritume». Casella comunicò a Pizzetti i propri sentimenti offesi. Pizzetti rispose sulle difensive e con falso stupore. Scrittori progressisti come Luigi Pirandello e Massimo Bontempelli dichiararono pubblicamente la loro solidarietà a Casella e Malipiero; lo scrittore conservatore Giovanni Papini apprezzò molto il documento. I gradi superiori del governo saggiamente si trattennero dal prendere una posizione pubblica.
È possibile che Pizzetti e alcuni suoi colleghi firmassero il proclama più per un atto di cortesia verso Toni, Mulè e gli altri musicisti ufficializzati del regime che per forti convinzioni al riguardo, ed è facile immaginare il loro sgomento al vedersi contrattaccati da musicisti - non meno entusiasti di Toni verso Mussolini e il fascismo - che ricordavano loro che il regime era rivoluzionario, giovane, energico e dinamico: l'antitesi dello spirito romantico. Ripensando l'episodio alcuni anni dopo, Casella osservava:
L'unica novità di questo manifesto risiedeva nel fatto che tutti i precedenti documenti artistici del genere - a cominciare dai famosi proclami romantici per giungere a quello di Marinetti - erano sempre stati dei veri e propri appelli insurrezionali, animati da uno spirito rivoluzionario e semmai iconoclastico. Miravano insomma all'avvenire dell'arte e dell'umanità. Ma non si era ancora mai veduto un manifesto come questo dei «dieci» che preconizzasse l'urgenza di una retromarcia. In questo senso, quel manifesto era davvero senza precedenti ed è augurabile - per il buon nome della terra nostra - che rimanga senza indomani.
La battaglia ebbe presto termine, ma alcune ferite continuarono a suppurare. «Non parliamo, ti prego, del Manifesto, ti prego caldamente di non parlarne», scriveva più di un anno dopo Malipiero a Pizzetti, e poi subito ne parlava.
So benissimo quello che fa il Toni. Una cosa sola ti dirò: al mio attivo col Toni ho soltanto un servigio che gli ho reso. Perché egli si comporti in un modo indecoroso verso di me rimarrà sempre un mistero [...]
Lo so, voi non pensavate che il Manifesto avrebbe ottenuto l'effetto contrario di quello desiderato, né che il Duce lo disapprovava, qualora lo avessero saputo non avrebbero firmato. E allora? Il Manifesto era contro di te, contro Respighi cioè contro tutti i musicisti non popolarissimi, e dovete tutti [...] tener presente che l'esagerato amore materiale per i musicisti dell'800 [...] se non si ferma distruggerà l'arte musicale, ché nonostante i vari Beniamino Gigli, le varie Toti dal Monte, il pubblico si stancherà presto, anzi dà già segni di stanchezza [...] Tutti i musicisti [...] si divorano fra di loro e fra i due briganti il terzo gode, cioè vediamo un Toni compilare dei manifesti e insieme a qualche teppista tentare sistematiche demolizioni. [...]
Mario Labroca non aveva un suo dossier negli archivi di Mussolini. Nato a Roma, compositore e organizzatore, aveva studiato con Respighi e Malipiero; fu, sin dalla fondazione, nel 1923, segretario della Corporazione della nuova musica. A quanto risulta, fu sì un fascista credente, ma anche uomo di onestà assoluta che riuscì a trattare col regime senza mai abbassarsi. Labroca godeva dell'affetto di un gran numero di musicisti le cui opere egli incoraggiava con ogni mezzo a sua disposizione.
Nella burocrazia musicale fascista, ricoprì numerosi incarichi importanti. Nel 1930, fu scelto a dirigere il Consorzio dell'opera, e cinque anni dopo divenne capo del settore musicale della Direzione generale dello spettacolo, dipendente dal Ministero della stampa e propaganda. Direttore del teatro Comunale di Firenze e del Maggio musicale (1936-44), promosse le prime esecuzioni di molte composizioni italiane - alcune commissionate per l'occasione - oltre che le prime italiane di molte composizioni straniere importanti e la ripresa moderna di molti pezzi dimenticati. La sua condotta sotto il fascismo fu limpida. Casella scrisse di lui:
Egli rappresenta un tipo raro di uomo di molte, varie e convertibili energie; compositore di autentica ed inconfondibile personalità, scrittore e giornalista di grande autorità, organizzatore infine rivelatosi di eccezionale abilità [...] La sua maggiore forza: quella sua purissima moralità, alla quale Labroca non è mai venuto meno [...] È uno fra i pochissimi esempi di artista che abbia saputo continuamente ascendere senza mai abbassarsi a rinuncie e senza venire a patti coi nemici di quell'arte che egli considera come unica vera. Sotto questo aspetto [...] è capace di ridare fiducia anche a coloro che hanno qualche dubbio sulla possibilità odiema di una «illibatezza artistica».
Una pletora di corporazioni, unioni, comitati e dipartimenti era considerata necessaria a regolarizzare e governare le attività musicali del paese. Le decisioni e direttive che emanavano, eternamente oscillanti e spesso in contrasto l'una con l'altra, erano l'aspetto più costante dell'amministrazione musicale sotto il regime.
Già nel 1924, le riviste musicali italiane cominciarono a far pomposi annunci di cure fasciste per i mali della musica. Prima di tali soluzioni fu la costituzione di un Sindacato italiano dei musicisti, sotto la giurisdizione della Corporazione nazionale del teatro, che avrebbe riunito compositori, librettisti, esecutori, insegnanti e didatti, le cui finalità si ispiravano ai «principi del sindacalismo fascista [...] la elevazione morale degli aderenti e la tutela dei loro interessi legittimi nei limiti delle esigenze nazionali». Le condizioni implicite nell'espressione «esigenze nazionali» non erano specificate, anche se, considerando che il comitato direttivo era interamente costituito da persone ben disposte verso a regime, incluso Alceo Toni, non c'è serio motivo di dubitare che i bisogni del paese e i bisogni del Partito fascista, in questo come in altri casi, si identificassero. E se si tiene conto che ben presto il governo si sarebbe assunto responsabilità sempre maggiori nel finanziamento delle principali istituzioni musicali, portando a compimento al tempo stesso la fascistizzazione dei sindacati, si vedrà come il sindacato si proponesse a un tempo come campione dei datori di lavoro e dei lavoratori. Il suo primo atto, cui fu data vasta pubblicità, fu, significativamente, un appello per la costituzione di un teatro nazionale d'opera a Roma - un teatro a sovvenzione governativa laddove, sino a quel momento, un'impresa privata con fini di profitto aveva cercato di soddisfare i bisogni operistici della capitale.50 Un sindacato dominato dai fascisti chiedeva a un governo fascista di mettere i musicisti a libro paga e di difenderne i diritti di lavoratori.[...]
Nel 1940, la lista dei funzionari del Sindacato nazionale fascista dei musicisti consisteva di molti nomi importanti nella musica italiana dell'epoca. Mulè ne era il segretario nazionale, e la direzione includeva Giuseppe Blanc, caro al regime perché aveva composto Giovinezza e altri inni di partito, Alceo Toni, Giordano, Malipiero, Zandonai e il direttore d'orchestra Gino Marinuzzi. I rappresentanti del sindacato nelle corporazioni a esso connesse erano Alfano, Lualdi, Molinari e Pizzetti. Il consiglio includeva i compositori Ettore Desderi, Franco Casavola, Adone Zecchi, Vito Frazzi, Mario Barbieri, Gaspare Scuderi, Franco Vittadini, Giovanni Spezzaferri, Alfano e Malipiero; il direttore d'orchestra Renato Fasano, che più tardi fonderà i Virtuosi di Roma; il musicologo Guglielmo Barblan; gli organisti Ernesto Berio, padre di Luciano, e Luigi Ferrari Trecate, a sua volta compositore, e il celebre insegnante di canto Ettore Campogalliani. Tutti i 105 nomi sulla lista sono maschili, malgrado la presenza attiva di molte buone musiciste nella vita musicale italiana. Ciò non significa di necessità che le donne fossero meno entusiaste dei loro equivalenti maschi verso il fascismo: è soltanto uno tra i tanti esempi del disprezzo in cui erano tenute dal regime le capacità intellettuali e organizzative delle donne.
Lo statuto del sindacato dava alle sezioni provinciali il diritto di espellere singoli iscritti che non aderissero ai regolamenti stabiliti. Gli espulsi avevano tuttavia facoltà di appellarsi al sindacato nazionale, e, più su ancora, al presidente della confederazione o al Ministro delle corporazioni. Il sindacato nazionale aveva il diritto di promuovere ispezioni, controlli amministrativi o sanzioni nei confronti delle sezioni provinciali.
Sebbene i sindacati provinciali potessero condurre negoziati a nome dei propri iscritti con i datori di lavoro locali, il sindacato nazionale aveva facoltà di consulenza verso i propri affiliati. Nel caso si dovessero stipulare contratti nazionali per un intero settore della categoria, i negoziati erano condotti dal sindacato nazionale.
Il Sindacato interprovinciale fascista dei musicisti aveva un proprio statuto, che conteneva provvedimenti simili a un livello inferiore e statuiva che l'iscrizione fosse aperta soltanto a coloro che «esercit[ano] abitualmente e come attività preminente l'arte della musica come compositore, concertista, maestro di banda, oppure insegna[no] privatamente musica od altra attività artistica analoga». Dovevano però «essere di buona condotta morale e politica dal punto di vista nazionale», cioè a dire, dovevano almeno apparire ben disposti verso il regime e non proprio sfacciatamente contrari alla Chiesa; nel loro dossier non dovevano apparire espulsioni da altri sindacati; dovevano risiedere entro il territorio di giurisdizione del sindacato, e dovevano possedere tutta la documentazione richiesta dallo Stato e dall'organizzazione nazionale. Gli stranieri residenti in Italia da almeno dieci anni e provvisti di tutti gli altri requisiti potevano essere ammessi al sindacato ma non potevano essere eletti a nessuna carica.
Un Fondo nazionale di assistenza, costituito sotto la giurisdizione del sindacato nazionale, «concede assegni temporanei ai propri iscritti e alle loro famiglie e si propone in rapporto ai mezzi di cui dispone, di: a) provvedere alla istituzione di borse di studio a favore dei figli dei musicisti; b) prestare eventualmente altre forme di assistenza che saranno determinate nel regolamento». Un emendamento agli statuti prevedeva poi che il fondo provvedesse assegni familiari, donazioni speciali per vedove e figli particolarmente bisognosi di iscritti deceduti, e prestiti in denaro per aiutare gli iscritti ad affrontare spese professionali quali l'acoquisto degli strumenti e degli abiti da sera necessari. Sebbene a sistema non fosse proprio un fondo pensione, gli emendamenti prevedevano la possibilità in un futuro di «erogazioni annuali nei casi di necessità di carattere permanente per invalidità assoluta alla attività professionale, derivante da vecchiaia, da malattia, da infortunio», per gli iscritti che avessero pagato contributi per almeno cinque anni.
Infine, «con Decreto del Capo del Governo 23 Giugno 1934-XII» fu costituita la Corporazione dello spettacolo, con un consiglio direttivo costituito da un presidente e trentaquattro membri: tre rappresentanti del Partito nazionale fascista; ventotto rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori che ricoprivano le categorie descritte nella Federazione nazionale fascista delle industrie teatrali; e i presidenti della Società italiana autori ed editori, dell' Istituto nazionale LUCE e dell'Opera nazionale del dopolavoro. Il Ministro delle corporazioni ne fu automaticamente il presidente; altri ministri e sottosegretari oltre all'addetto stampa del capo del governo avevano il diritto di presenziare alle riunioni della corporazione.
Tali erano le persone e le strutture preposte a governare la vita musicale italiana. In teoria, l'appartenenza alla burocrazia musicale del regime richiedeva pochi compromessi da parte di musicisti di bassa truppa che non fossero fascisti convinti. Ma già alla metà degli anni trenta, coloro che rifiutavano di trovare un modus vivendi entro la giurisdizione della burocrazia potevano aspettarsi di perdere il posto. [...]
I festival musicali italiani, sia i più che i meno duraturi, nacquero tutti nel periodo fascista. In maniera anche più ovvia dei teatri lirici costituiti in enti autonomi, queste manifestazioni di prestigio si svilupparono a partire da fenomeni non politici quali la tendenza a sacralizzare capolavori culturali del passato e il bisogno di proteggere opere significative del presente che non riuscissero a conquistarsi da sole un seguito popolare. Il regime, però, riuscì a servirsi dei festival, come dice Fiamma Nicolodi, per far mostra della propria «magnanima e vigile apertura». I più importanti tra questi avvenimenti periodici erano il Festival internazionale di musica di Venezia e il Maggio musicale a Firenze. Entrambe le città erano centri di turismo internazionale, e per questa ragione il regime aveva forse particolare interesse a presentare qui un'immagine più cosmopolita di sé di quella che gli era più funzionale in altri luoghi.
Il primo Festival di Venezia, che si svolse nei primi giorni del settembre 1930 in concomitanza con la già celebre Biennale d'arte, fu presieduto da Lualdi, con Casella come vicepresidente e personalità come Labroca e Malipiero nel comitato direttivo. Mussolini, temendo che la manifestazione potesse rivelarsi impopolare, non concesse il proprio patronato ufficiale; ma Lualdi sostenne - è chiaro, con la debita approvazione - che il festival si teneva «sotto l'egida» del duce, il quale offriva il contributo del suo «aiuto morale e materiale». Inoltre, nel programma del festival, per prevenire attacchi da parte dell'estrema destra musicale, Lualdi scrisse anche che i programmi, «in onta al loro carattere [...] internazionale [...] sono un'istituzione prettamente italiana e prettamente fascista [...] Certi veleni e stupefacenti artistici che hanno fatto strage oltr'Alpe» - ovvio riferimento agli schoenberghiani - ne erano esclusi.
Il primo festival includeva le prime italiane di un'ampia gamma di composizioni non italiane: il Quarto quartetto di Bartók, La Création du monde di Milhaud, e pezzi di Walton, Kodály, Roussel, Bloch, Szymanowski, Hindemith e Krenek. E anche prime mondiali di musiche di molti compositori italiani, inclusi Alfano, Castelnuovo-Tedesco, Lualdi, Renzo Massarani, Pick-Mangiagalli, Francesco Santoliquido e Vincenzo Tommasini, ed esecuzioni di musiche raramente udite di Stravinsky, Prokofiev, de Falla, Honegger, Respighi, Casella, Turina, Tansman, Malipiero, Pizzetti, Zandonai e l'ubiquo Mulè. L'orchestra dell'Augusteo e quella della Radio di Milano suonarono sotto la direzione di Molinari, Serafin e Votto, e tra i solisti figuravano il soprano Mafalda Favero, Casella come pianista e Hindemith come violista. La prima edizione del festival ebbe un ragionevole successo di pubblico, e le entrate superarono di un po' le uscite. Molti, come indica Fiamma Nicolodi, lo considerarono l'unico banco di prova possibile allora in Italia per togliere dall'indifferenza, dalla ghettizzazione specialistica o dall'aperto ostracismo la musica moderna.
Ma il successo portò altri problemi agli organizzatori: tutti ora volevano essere inclusi nel programma del secondo festival, previsto per gli inizi del settembre 1932. «La prego di comunicare a chi di ragione» scrisse Toni ad Aldo Finzi, segretario del festival «che io sono autore di varie musiche, molte delle quali già eseguite, ma non fischiate, né sopportate, né tollerate» - intendendo con ciò implicitamente che la maggior parte delle opere scelte per il festival erano di compositori meno famosi di lui. «Aggiungo che lo renderò noto come e quando lo riterrò opportuno, in pubblico e in privato.» Lualdi scansò il colpo di Toni facendo inviare da Finzi una copia della lettera al direttore del «Popolo d'Italia», di cui Toni era critico musicale. Altri compositori italiani - Cesare Nordio e Guido Guerrini, per esempio, scrissero per lamentarsi di essere stati esclusi dal programma, e a Casella sembrò una sciagura che «tutti i nostri migliori giovani [Vittorio] Rieti, [Virgilio] Mortari, [Mario] Pilati ecc.)» fossero stati tenuti fuori. Malgrado le lamentele e i tentativi di interferenza, il festival andò bene.
Piccole orchestre dirette da Désiré Defauw, Fritz Busch, Fritz Reiner e Lualdi eseguirono, rispettivamente, concerti di musica contemporanea francese, tedesca, nord e sudamericana di compositori come Roussel, Poulenc, Ibert, Bloch, Hindemith, Graener, Sowerby, Eicheim, Saminsky, Achron e Gershwin. Opere di tre compositori nettamente filo-regime - Franco Casavola (L'alba di Don Giovanni), Casella (La favola di Orfeo) e Lualdi (La Gransèola) - furono espressamente commissionate; Pantea di Malipiero vi ebbe la sua prima mondiale; El Retablo de Maese Pedro di de Falla fu udito per la prima volta in Italia; e Maria Egiziaca di Respighi ebbe la sua prima esecuzione scenica.
Mussolini approvò personalmente i progetti per il festival del 1934, quando un comitato di amministratori della Biennale gli fece visita a palazzo Venezia. In un articolo che celebrava l'apertura del festival, Lualdi scrisse che l'atmosfera degli appartamenti del duce era più simile al «gabinetto di studio di un cultore d'arte, di un mecenate», che all'ufficio di uno statista «che da dodici anni guida con illuminata e umanissima fermezza e con incomparabile senso della responsabilità i destini di una Nazione. [...] Tanti erano l'interesse, la conoscenza di causa, la magnifica e sempre equilibrata prontezza di giudizio e argomentazioni di cui Benito Mussolini dava prova, sia che parlasse di musica, di architettura o di pittura». Il dittatore approvò l'inclusione di musica orchestrale e corale oltre che di composizioni da camera nel programma del festival. «Anche nel campo dell'arte, anche in quello particolare della musica, Dux» disse Lualdi.
Il festival del 1934, che si tenne dall'8 al 16 settembre, diede più spazio ai giovani compositori italiani, inclusi Dallapiccola, Rieti e Antonio Veretti, ma lasciò molto spazio ai musicisti più celebri dell'epoca. A un concerto, di intelligente concezione, Costant Lambert, Milhaud, Pizzetti e Stravinskv diressero una delle proprie composizioni ciascuno e Hermann Scherchen diresse Der Wein di Berg alla presenza del compositore. Le statistiche sono impressionanti: furono eseguite ventotto composizioni, ciascuna di un compositore diverso; sedici furono prime mondiali. Alle esecuzioni presero parte tre orchestre, cinque cori, due compagnie di balletto, quattordici direttori d'orchestra e trentaquattro solisti vocali e strumentali. Ma l'inclusione del Requiem di Verdi con star del momento come De Sabata e Beniamino Gigli, un concerto dei Filarmonici di Vienna diretti da Weingartner e rappresentazioni di Così fan tutte e Die Frau ohne Schatten da parte dell'Opera di Stato di Vienna in tournée sotto la direzione di Clemens Krauss indussero il giovane compositore e direttore d'orchestra Gianandrea Gavazzeni a criticare «l'apparenza decorativa ed ufficiale che esso va assumendo».
Il modello però era ormai stabilito, e i festival di Venezia si seguirono a scadenza biennale, con uno extra aggiunto nel 1937. Qualche guaio provenne agli inizi degli anni trenta dai fondatori del Maggio musicale fiorentino, i quali sembra che in un primo momento considerassero le loro controparti veneziane come concorrenti invece che come alleati nella lotta contro il provincialismo artistico. Ma l'attrito ben presto si tramutò in una coesistenza ragionevolmente pacifica. L'ottavo festival di musica veneziano, che si svolse in piena guerra nel 1942 conteneva - a parte un concerto retrospettivo di pezzi di Malipiero, Honegger, Ravel, Stravinsky, Richard Strauss e de Falla - ben poco di interessante, soprattutto a paragone degli anni precedenti. Poi, dopo dodici anni di esistenza, il festival, temporaneamente, crollò.
E festival fiorentino nacque come filiazione della Stabile orchestrale fiorentina, fondata nel 1928 sotto la direzione artistica di Vittorio Gui. A controbilanciare la presenza di Gui, che non era un entusiasta del regime, c'era quella che Leonardo Pinzauti, nella sua storia del Maggio, definisce la presidenza «politicamente rassicurante» di Carlo Delcroix. Delcroix, uno scrittore fiorentino che aveva perso la vista ed entrambe le mani nella i guerra mondiale, divenne una nota figura politica sotto il fascismo e ricopri la presidenza di varie associazioni di veterani e mutilati. Grazie a lui, quindi, l'orchestra di Gui poteva immediatamente essere considerata un'«iniziativa fascista». La prima edizione ebbe un tale successo che il Ministero dell'educazione promosse l'orchestra allo status di organizzazione senza scopo di lucro ufficialmente riconosciuta. Il numero degli orchestrali crebbe da 83 a 100, fu fatto costruire un organo a 3000 canne, e l'EIAR si impegnò a trasmettere alcuni dei concerti. Secondo Pinzauti, lo sviluppo dell'orchestra fu facilitato da una coincidenza di interessi tra coloro che erano davvero interessati alla rinascita musicale di Firenze, altri le cui ambizioni erano soltanto «campanilistiche e politiche», e un ambiente di buona società mondana che seguiva «una moda».
L'orchestra crebbe così bene che i politici locali cominciarono a vederla come un possibile evento-vetrina - un esempio di come musica e teatro fiorissero sotto il fascismo. Fu presa la decisione di associare l'orchestra al principale teatro d'opera della città e di chiamare l'organizzazione così ricostituita Ente autonomo del Regio Fiorentino Politeama Vittorio Emanuele. Secondo la «Gazzetta ufficiale» del l'ottobre 1931, il nuovo organismo musicale «sarà gestito senza fini di lucro con puri criteri d'arte, allo scopo di dare incremento alla educazione ed alla cultura musicale del popolo». Delcroix ammise in un'intervista che, «è doloroso dirsi», l'appoggio finanziario proveniva in gran parte dalla colonia straniera di Firenze, ma ciò non impediva ai fascisti locali di afferrare la menoma briciola di gloria che dal Maggio ricadesse loro in grembo. In questo però si comportavano soltanto da politici, non distintamente da fascisti.
Il riconoscimento ufficiale dell'orchestra inorgoglì a tal punto i musicisti fiorentini, i capi politici locali e l'aristocrazia che si pensò di organizzare un festival musicale triennale - il Maggio musicale - e l'idea fu vista con favore da Mussolini che fece stanziare dal governo 100000 lire per un'edizione di prova nel maggio 1933. Oltre a un po' di repertorio tradizionale, il primo festival includeva opere di rara - allora - esecuzione, come il Nabucco di Verdi, La Cenerentola di Rossini, La Vestale di Spontini, e in più La rappresentazione di Santa Uliva di Pizzetti. Un concerto fu dedicato alla musica di Busoni e in un altro programma il Quartetto Kolisch suonò opere di Bartók, Schoenber e Vito Frazzi. Dal 30 aprile al 4 maggio, in concomitanza con rappresentazioni e concerti, si tenne a palazzo Vecchio un Congresso internazionale della musica, presieduto da Ugo Ojetti, giornalista e accademico d'Italia, e con la partecipazione di persone insigni come Alban Berg, Casella, Edward J. Dent, Henry Prunières, Paul Stefan, Emile Vuillermoz, Hans Rosbaud, Aloys Mooser, Lualdi, Basil Maine, Roger Sessions, Carl Ebert, Andrea Della Corte, Ferruccio Bonavia, Paul Bekker, Alfred Einstein, Guido M. Gatti, Cesari, Mila e Gavazzeni. Le comunicazioni presentate ricoprivano quattro vaste aree: la critica musicale; le tendenze dell'opera contemporanea; il rapporto tra musica, radio, cinema e grammofono; e il nesso tra la diffusione della cultura musicale e gli scambi culturali internazionali.
Mila, che a ventitré anni stava diventando una figura importante tra i musicologi italiani, riferiva nella «Rassegna musicale»:
Fu consolante constatare che in questa rassegna delle forze operanti nella critica musicale d'ogni paese, gli italiani dimostrarono una incomparabile profondirà e solidità di preparazione, che viene ai migliori tra di loro da una larga coscienza filosofica attinta alle fonti d'un bene inteso idealismo. [...]
Mila, con astuzia, fa una riverenza all'orgoglio nazionalistico mentre fa notare - senza pronunciare il nome proibito - che i migliori nel campo dovevano la loro educazione intellettuale all'estetica idealistica dell'antifascista Croce.
Il Maggio nel suo complesso riuscì così bene che Mussolini immediatamente approvò il progetto di renderlo biennale invece che triennale. E persino, nella primavera del 1934, in cui non si teneva il Maggio, offrì il suo patrocinio al XII Festival della società internazionale di musica contemporanea, che si tenne a Firenze. Presiedeva Dent, e i partecipanti includevano Nadia Boulanger, Krenek, Hilding Rosenberg e Vladimir Vogel. Furono eseguite composizioni di Malipiero, Casella, Mulè, Castelnuovo -Tedesco, Riccardo Nielsen, Gino Gorini, Dallapiccola, Labroca, Pizzetti, Alfano, Berg («piacque particolarmente la Suite Lirica per Quartetto d'archi [...], il secondo tempo si dovette replicare»), Jean Françaix, Arthur Honegger, Ravel, Bartók, Igor Markevitch, Benjamin Britten (allora ventunenne) e Hans Apostel, che rappresentavano la maggior parte delle tendenze importanti dell'epoca. Tra i direttori, Gui, Fernando Previtali e Hermann Scherchen.
Musicisti fascisti di idee ristrette - invariabilmente quelli le cui composizioni non erano incluse nei programmi del Maggio -lamentarono che al festival si eseguissero troppi compositori stranieri, ma Mussolini approvò i progetti per l'edizione del 1935 e triplicò il finanziamento governativo. Era un piccolo prezzo da pagare per aiutare il regime a presentarsi bene al mondo esterno, soprattutto a paragone con la crescente follia xenofoba e razzista della Germania hitleriana. La maggior parte dei fascisti fiorentini erano per fortuna d'accordo con Mussolini: il festival mostrava la loro città - la cui economia anche allora dipendeva in misura significativa dal turismo - in una luce eccellente. Il Maggio musicale, diceva il giornale «Il Bargello» «sta assumendo una fisionomia e un'importanza inconfondibile nella vita fascista fiorentina e italiana». Il festival del 1935 presentò tra l'altro le prime mondiali dell'opera Orsèolo di Pizzetti e le musiche di scena di Castelnuovo-Tedesco per il Savonarola di Rino Alessi, e riproposte del Mosè di Rossini, del Castor et Pollux di Rameau e dell'Alceste di Gluck. Bruno Walter diresse in versione italiana Die Entführung aus dem Serail, e Felix Weingartner si esibì alla testa dei Filarmonici di Vienna.