GIANNOTTO BASTIANELLI

OTTORINO RESPIGHI

IL NUOVO DIO DELLA MUSICA
pp. 168-171
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Avanti che Hermes prendesse per me la parola, parlai di quei musicisti italiani novecentisti che avevano rivolto i loro occhi - da giovani gli occhi sono sempre da innamorati - a Debussy e piú tardi un po' a Strawinsky - eccettuato Zandonai che, se si guarda - derivazioni franco-tedesche a parte - è sí un ibrido ma in fondo in fondo finché ha potuto è rimasto con del sangue drammatico ottocentesco in corpo, ed oggi, per esempio, è imitato a tutta possa dal maestro Refice (Transitus sancti Francisci). Ora parlerò di due santi padri della influenza tedesca - e non piú soltanto wagneriana, ma piú moderna - in Italia, dionisiaci per quanto ermetici, ossia per pochi, e che han posto, da giovani ben s'intende, «quando vedevano Elena in ogni femmina», piú che su Debussy e su Strawinsky gli occhi prima su Wagner, com'è accaduto a tutti, e, com'è accaduto soltanto ad una frazione, su Richard Strauss. Gli autori sono Ottorino Respighi e Franco Alfano. Ma è di Ottorino Respighi che voglio ora parlare.
È un uomo di gusto, un colorista di polso, e al tempo stesso un buon ostinato faiseur... Latinamente la corrente tedesca wagneriano-straussiana se l'è incorporata in modo che nei centri italiani dove Wagner ha fatto strage, il popolo stesso (le cosiddette «masse») arriva all'entusiasmo davanti ai suoi speciosissimi tentativi di connubio tra Dionisos e Hermes. Nei poemi sinfonici respighiani, e specialmente in quelle Fontane di Roma in cui l'orchestra non potrebbe esser trattata piú da maestro né meglio conseguita l'idea straussiana (straussiana, mahleriana, bruckneriana, ma soprattutto straussiana) di trasbordare i canoni della descrittività coloristica e plastica wagneriana (a rigore si dovrebbe citare anche Liszt e Berlioz) nel poema sinfonico, che in sostanza non è spesso che la vecchia sinfonia in quattro tempi rimessa a nuovo, è un fatto che vi sono ruggiti muggiti estuazioni di sonorità, tintinni sibili chiaccherii delicatezze sussulti di fragori che finiscono (come in Strauss, ma con piú misura seppure con meno abbondanza e vigorosità) per inchiodarci volentieri sulla sedia ad ascoltare. Già piace d'illustrare con tutta la ermetica sapienza moderna i divini e cosí diversi scrosci delle fontane di Roma (io ricordo con piacere ai lettori una bella lirica di Emilio Settimelli sullo stesso argomento) che, sebbene viste attraverso lenti comprate nella fabbrica di Strauss, spruzzano irrompono mugolano sciacquano in modo che si sente, come l'autore per quanto bolognese le abbia amate e vissute romanamente.
Forse non direi lo stesso dei Pini di Roma. A volte in arte repetita non iuvant. È il solito modello straussiano (come le Fontane) del poema sinfonico per grandissima e catastrofica o per piccola e lillipuziana orchestra, ma li giochi non sono riusciti sgargianti questa volta come la prima.
Ottorino Respighi è un musicista compiuto. Al modo stesso di Richard Strauss non ha idee, ma sa far musica quadrata polifonicamente secondo le penultime e un po' invecchiate ricette che la Germania ai bei tempi del suo tentativo d'impero culturale sparse per il mondo (per la verità non dispregia anche l'ermetica orchestrale francese sempre un po' passatotta - ossia dell'epoca di Debussy e di Ravel). I suoi momenti d'intimità somigliano come due gocce d'acqua ai momenti aristocratico-banali come nella Sinfonia domestica straussiana. Se la Germania tornasse a rivendicare il suo gran sogno d'impero mondiale ottocentesco, sono certo che - a parte le solite cabale degli amorosi colleghi - Ottorino Respighi, che ha nella facilità a scrivere (basta guardare quell'orripilante Ciaccona su tema di Frescobaldi: povero Frescobaldi!) qualche punto di contatto con Max Reger (per quanto sia in una direzione affatto diversa da lui), sono certo che potrebbe essere consacrato dalle onorificenze dell'ex kaiser o del suo nobile figliuolo (in realtà l'ex kaiser come in politica cosí in musica era tanto ottocentesco da preferire Leoncavallo quand'era diventato bolso sul serio, a Richard Strauss).
In Germania del resto si è valorizzata al tempo della fu alleanza con noi, molta musica italiana che nel nostro paese - pur essendo ottocentesca - andava poco: per esempio il Falstaff. Il libretto scritto da un tedescofilo della forza, mancata sia pure, di Arrigo Boito, piú che la musica sinceramente italiana di Verdi quantunque vecchio (ma pur sempre piú giovane, nonostante alcune chiazze d'abbiosciamento senile, di tanti istericamente giovani moderni) ebbe il potere - forse c'entrava di mezzo anche l'anglosassone Shakespeare - di fare un bel successo in Germania. Piacque perfino a Strauss che come i tedeschi da Goethe in qua aspira disperatamente o morbosamente alla meridionalità. Ora Respighi, dopo il successo delle opere comiche dell'italo-veneto-mozartiano Wolf Ferrari, del Rosenkavalier e della parte comica dell'Arianna a Nasso, ha voluto lui ritentare il teatro (l'aveva già tentato con altre tre opere, una ancora, credo, da rappresentarsi) e l'ha voluto ritentare con una commedia che ai culturali tedeschi, abituati ai mattoni di Goldmark e di Pfitzner, doveva piacere ed è piaciuta.
Cosí si è rifatto dei due non grandi successi bolognesi ormai lontani ottenuti con Re Enzo e con Semirama; quest'ultima è straussiana quanto volete, ma qua è là ispirata. L'opera, ultima mentre scrivo, cui alludo è il Belfagor. Ma se di riflesso, come pure in Semirama (Re Enzo non lo conosco), vi sono scintillii versicolori e funambolismi orchestrali su temi molto meno consistenti di quelli di Semirama, in Belfagor non c'è che un brio affaticato che si regge solo sulla trovata (culturale) del libretto cinquecentesco-morselliano. Un tal teatro, in realtà, suona a vuoto. Respighi ha saputo scegliere uno di quei libretti che oggi sono in voga - perfino con piú o meno gesuitici rapporti col cattolicismo - e ci ha messo intorno, sopra, dentro, una salsa dalle mille spezie. Eh! che Dio lo benedica! Lasciamolo in pace. C'è spesso dell'humour e della sentimentalità in questa sua opera ed è bene che faccia con moderata trionfalità il giro dei teatri tedeschi. Hermes cattolico ne è contentissimo, e un giorno o l'altro chi sa che Belfagor arcidiavolo reverendissimo non ritorni onusto di allori teutoni (o per lo meno dai teutoni ordinati, in Italia) nella Roma che tutti gli stili accoglie perché è matrice e riassorbitrice di tutti gli stili.