ILDEBRANDO PIZZETTI

DI ARNOLD SCHÖNBERG
E DI ALTRE COSE


INTERMEZZI CRITICI
VALLECCHI - FIRENZE - [1915]


Avete moi udito, o cortesissimi lettori, musica di Arnold Schönberg? No?... Ma non rammaricatevene troppo: non è poi una grande sfortuna! Probabilmente, non vi sarebbe rimasto memoria che di una musica pesante, e di sostanza comunissima, e noiosa, o di una musica stramba e sgradevole. Ma certo di Arnold Schönberg avrete udito qualche volta parlare, o avrete letto sui giornali il suo nome e qualche notizia,sulle sue gesta e miracoli, e parole di lode, di considerazione, di ammirazione per le sue opere.
Avrete letto, dunque, che Arnold Schönberg è un artista tedesco, anzi austriaco (vive a Vienna) di età già matura (deve avere, mi pare, da quarantacinque a cinquant'anni), che dipinge quadri e compone musica: e che in quanto musicista egli è alla testa del movimento modernista, anzi avvenirista, tedesco, e che le sue opere, per la maggior parte fischiate dal solito pubblico naturalmente asino e misoneista delle sale dei concerti, anche dal pubblico viennese, sono opere di mirabile bellezza e di mirabile novità, le quali allargano i confini dell'estetica musicale, e inaugurano un nuovo periodo nella storia dell'arte dei suoni, ecc. ecc. Le stesse cose, su per giù, che leggevo io pure quattro o cinque anni fa su certi giornali e riviste francesi - per esempio sull'S. I. M., che del tedesco Schönberg pubblicava allora un «profilo » quasi entusiastico, e anche alcune pagine di musica e che ho rilette poi su alcuni giornali inglesi, americani, e anche italiani.
Un nuovo, e grande musicista, un rivoluzionario, uno che allarga i confini dell'estetica musicale... Come non sentire il desiderio di conoscere le sue opere? E tre anni fa, di questi giorni, mi facevo venire da Vienna, per cominciare, due delle opere dello Schönberg: il Quartetto op. 7 e i «Drei Klavier-Stücke op. 11».
Predisposizione alla più intensa simpatia - lettura lenta e attenta. Risultato: impressione di vecchiume,
di rancidume sostanziale, e di vana abbondanza d'artifici tecnici, dal Quartetto: impressione analoga, ma peggiorata da un senso di sdegno, per essermi sentito quasi offeso nella mia buona fede, dai tre pezzi per pianoforte. Conseguenza. Voglio scrivere e pubblicare le mie impressioni, perché questo signor Schönberg non mi pare per niente affatto un artista nuovo, ma soltanto un furbo ed abile manipolatore di suoni: e i suoi temi son più vecchi di lui, e le sue armonie, oltre che brutte e sgradevoli, sono del tutto ingiustificate dalla sostanza tematica. Ah l'esafonia, cioè la scala di sei toni, e la dodecafonia, cioè l'uso anche simultaneo dei dodici semitoni, e gli accordi per quarte...
Belle trovate, per arrivare a questi risultati! Ma a chi vuol darla a bere; codesto viennese? Trova dei temi che avrebbe potuto scriverli in un momento di cattivo umore, e tenta di mascherarli facendovi intorno una siepe spinosa di cromatismi. E a volte non trova che una miserabile scala cromatica, e la raddoppia per terze, e la scrive alternando i suoni tra due ottave, per far apparire qualcosa dove non c'è niente... Ci vuol altro che martellare un pezzo d'ottone, per fare una coppa d'oro! Dicono che il pubblico del suo paese, a udire questa roba, ride e grida pfui? E fa benissimo.
Passa del tempo, lo sdegno svanisce, e le musiche dello Schönberg vanno a finire in uno scaffale dove tengo i libri che non provo mai il desiderio di rileggere.
Ma un anno dopo, un giorno che mi trovo, a far musica con una cantatrice polacca mia amica, questa mi mi pone sul leggio i Gurre-Lieder, l'opera dello Schönberg più vasta (più grossa): e se ne leggono insierne alcune pagine, qua e là. Ma come? quest'è proprio Schönberg? quello stesso dei Drei Klavier-Stücke? O se pare un umilissimo suddito e un mediocrissimo copiatore di Riccardo Wagner! Veramente, è interessante il problema di questo musicista che ha più faccie di Giano!
Credetti poi che il problema avrei potuto facilmente risolvere allora che mi venne tra le mani un trattato d'armonia scritto dallo Schönberg medesimo: Harmonielehre. Che fatica, a decifrare i capitoli, dai quali avrebbe dovuto uscire la luce! Ma che luce! Un trattato come cento altri, come tutti gli altri, né meno rispettabile nè meno noioso, nè meno pedantesco.
In fine, nelle ultime pagine, alcuni esempi di armonie generate dalla scala esafonica (die Ganzton-Skala) e dalla scala dodecafonica, e alcuni esempi di Quarten-Akkorden tratti da composizioni proprie o «meines Schülers Alban Berg», e, naturalmente, una convinta esaltazione di codesti nuovi, per modo di dire, campi di attività armonica, ed anche - la verità mi piace dirla sempre - non poche spiegazioni utili intorno a codesti sistemi. Ma di luce da poter illuminare le composizioni dello Schönberg, sì da chiarirne e rivelarne la sostanza la ragion d'essere e il significato ?... Niente, proprio niente. E lo, so: avevo torto di chiedere a un trattato d'armonia di aiutarmi a capire e giudicare delle composizioni musicali - e infatti, che forse il Fux serve a far capire Beethoven? e il Fenaroli a far capire Bellini? Ma, ecco il punto, credo io chiedessi a un trattato teorico cose che a un trattato teorico, è vano chiedere, proprio perchè sentivo, oscuramente, che lo Schönberg non era per niente affatto un artista dello stampo di quel due divini maestri che ora ho nominato.
Passa altro tempo, ed ho, notizia di una nuova opera del problematico compositore viennese: «Sechs Kleine-Klavierstücke op. 19». E compro e leggo le sei piccole piccole composizioni (ce n'è di nove battute!). Riprovo, alla prima lettura, la medesima impressione che già provai dai Tre pezzi op. 11, e mi pare, cioè, che mi si voglia canzonare, e mi stizzisco, mi sento quasi offeso, e quasi mi vien voglia di trattare il compositore di furfante. Ma poi rileggo, adagio, attentamente, e... No, quest'uomo fa sul serio, egli è proprio sincero, o crede, proprio crede, di essere del tutto sincero... E allora? In verità, queste brevissime paginette di musica - e chiamiamola pur musica! - non sono che smorfie e, per di più, smorfie che non si saprebbe dire se sian di dolore o di gioia, tragiche o comiche: ma si sente, e bisogna pur convenirne, che non furono fatte per burla, per gioco. Vedete, per esempio, il secondo di questi piccoli pezzi. Sono nove battute in quattro movimenti, imperniate sopra una terza maggiore sol-si, che in ogni battuta vien ripetuta, con pause intermesse, per quattro o cinque ottavi: e oltre codesta terza maggiore, appena variata da alcune appoggiature, non c'è che una frasettina isolata di sei note, che potrebbe essere un'esclamazione, un lamento, ma pare uno sbadiglio. Cosa vuoi dire, casa esprime? E chi, lo sa? Eppure, a risonare il pezzo tre quattro volte, si finisce per non poter più neanche ridere. Ma si resta piuttosto, mortificati e se si pensa al compositore non viene forse alle labbra che una parola - Poveretto!
In quest'ultimo mese, finalmente ho poiuto leggere dello Schönberg tutti i Lieder, che sono ventisei (due dell'op. 1, quattro dell'op. 2, sei dell'op. 3, otto dell'op. 6, e sei dell'op. 8).
Che nei lieder dell'op. prima e seconda e terza avessi avuto a ritrovare lo Schönberg vecchio e rancido e senza gusto, (ah, sì, senza neanche un briciolo di gusto!) che già avevo conosciuto nel Quartetto op. 7 e in certe pagine dei Gurre-Lieder me l'aspettavo. E infatti credo non si potrebber trovare composizioni musicali di un sentimentalismo più usuale e sgraziato e bolso, e per giunta anche pretenzioso, dei primi dodici Lieder schönberghiani. Ve n'è uno, per esempio, intitolato Dank, in cui un uomo ringrazia di molte grandi cose la sua innamorata - «Grosses hast du mir gegeeben: ich danke Dir» -, del quale non si potrebbe dire se sia più antipatico e ridicolo il tono magniloquente e pomposo, o il materiale tematico, vecchissimo, e lo scolasticissimo, materiale armonico. E ve n'è un altro - «Schenk mir deinen goldenen Kamm»: è Gesù Cristo che parla alla Maddalena con parole del poeta Richard Dehmel - in cui si ritrovano, avvicinati, tutti i luoghi più comuni del wagnerismo -(è già lo Schönberg dei Gurre-Lieder). E ve ne sono altri, come il Waldsonne (op. 2 n.o 4) e l'Hochzeitslied (op. 3 n. 4), che non peggio di così avrebbe-potuto scriverli un qualunque volgare compositore tedesco di Lieder e di pezzi pianistici da dilettante.
Ma la luce che avesse finito di illuminarmi la personalità dello Schönberg, che avevo cominciato a intravedere nei Sei piccoli pezzi per pianofoite, l'avrei più facilmente trovata, lo sentivo bene, nei lieder dell'op. 6 e dell'op. 8.
Negli otto canti dell'op. 6 quei caratteri particolari della musica schönberghiana che si ritrovano poi sempre più marcati nelle opere successive sino ai sei pezzi dell'op. 19, si manifestano soltanto saltuariamente e incompiutamente: ma forse appunto perchè sono caratteri ancora in formazione riesce più facile rilevarli e notarli. E sopra tutto si nota un progressivo dissolvimento di ogni nucleo tematico, melodico, di quei temi e di quelle melodie, in cui era tutta la sostanza delle prime composizioni dello Schönberg. Erano, ripeto, temi di disegno e di costruzione comunissimi, roba vecchia e usata, e di un sentimentalismo di terz'ordine: e tutto ciò che negli Acht Lieder op. 6 si trova, che si possa chiamare disegno musicale, sostanza tematica, melodia, ha tuttavia gli stessi caratteri e lo stesso valore: ma ora, o il tema è volontariamente - per un senso di pudore, si direbbe - trattenuto da quello che sarebbe il suo comune ma naturale svolgimento, sì che la composizione non offre che la ripetizione penosa e noiosa di un moncone di frase: o il tema, rimanendo tuttavia di una certa estensione e fatto passare attraverso ad accordi per essere contenuto dal quali esso deve essere deformato e contorto, e, s'intende, le sue difformazioni e i suoi contorcimenti non hanno altra ragion d'essere che la necessità tutta artificiosa e falsa di poter essere contenuti in quell'artificioso ambiente armonico.
Dissolvimento tematico, e composizione di un ambiente armonico difformatore dei caratteri nativi dei temi. Cioè? Artifici intesi dal compositore a trarre in inganno la gente sul reale valore della sua propria potenzialità creativa? trucchi combinati, e con la coscienza di non avere di meglio a poter fare, per imporre le sue proprie opere all'attenzione, se non all'ammirazione, del pubblico? Non credo. Oh, non già che non ve ne siano, di musicisti che per attrarre sulle opere loro e su sè stessi l'attenzione altrui impasticciano intorno alle loro, miserabili inspirazioni accordi strambi che essi stessi non sentono e che a loro stessi, anzi, dispiacciono. Ma lo, Schönberg non è da mettere in loro campagnia. Egli ha scriito, indubbiamente, ogni sua composizione in quel modo che l'ha scritta proprio perchè credeva di dover fare così, e di non poter fare diversamente. E se egli sempre più rinuncia alle facili e comuni ma, a modo loro, eloquenti melodie della sua prima maniera, vi rinuncia indubbiamente, non per calcolo interessato, ma a malincuore, con rammarico e con pena. E se egli tormenta il suo cervello per trovare alterazioni e appoggiature da arricchire gli accordi scolastici e vani che una volta esclusivamente usava, non è già che lo faccia per mascherare la sua povertà, ma perchè, così facendo, crede non solo di conquistare nuovi e preziosi mezzi d'espressione, ma di aver proprio bisogno di tali nuovi artifici per esprimere i suoi sentimenti, le sue visioni, le sue aspirazioni.
Leggete, se avete pazienza, i sei Orchester-Lieder Op. 8. Eccettuato il secondo, «Das Wappenschild», in cui lo Schönberg si è del tutto abbandonato a sè stesso come ai bei tempi del «Dank» e del «Waldsonne», e che è, infatti, un pezzo di vecchia musica wagneriana rumorosa, (altri potrebbe anche dire straussiana, ma è lo stesso), e salvo, in parte, «Natur», anch'esso di un romanticismo vecchio ma schietto, e dato generosamente per quel che è: tutti gli altri recano in ogni battuta, in ogni accordo, in ogni frammento tematico, i segni e, gli accenti dell'inutile e triste e penoso, e pure, in un certo, senso, ammirevole travaglio, sofferto dal compositore che li scrisse. Leggete, se avete pazienza, «Nie ward ich, Herrin, müd » (è il sonetto del Petrarca: «Io, non fu' d'amar voi lassato unquanco»), e «Wen Vöglein Klagen...» (l'altro sonetto, dei Petrarca: «Se lamentar augelli, o verdi fronde...»): non cercate nella musica, per carità!, una qualsiasi corrispondenza con lo spirito della poesia petrarchesca (non c'è tra le parole e la musica che quella corrispondenza grossolana che ugualmente vi sarebbe se i due sonetti fossero di un qualunque Heinrich Hart), ma osservate la sostanza della musica e le sue forme. È veramente ammirevole, nello stesso tempo che è penoso, vedere come nella musica del primo sonetto lo Schönberg abbia fatto il possibile per fuggire ogni volgarità e ogni, luogo, comune, e con la deformazione dei suoi poveri temi, e con modulazioni altrettanto imprevedibili quanto disgraziate, e con studiate quanto spiacevoli associazioni cromatiche: e come la musica del secondo sonetto egli sia riuscito a costruire con due soli piccoli spunti, il primo dei quali, se non facesse pensare a certe cose di Wagner, farebbe venire in mente il lamentar d'augelli», e, a sentire quel che lo Schönberg arriva poi a farne!, farebbe venir da ridere. Ma no, non si ride, non ci si sente il coraggio di ridere, dinanzi a una musica fatta con tanto impegno , con tante buone intenzioni, con tanta fatica.... Ma si resta mortificati e se si pensa al compositore, si dice: «Poveretto!»
Arnold Schönberg - m'inganno? non credo, anzi credo di essere proprio nel vero - non è, in fondo, che un piccolo borghese tedesco di mediocre spirito romantico. Romantico nel senso e al modo che furon tali, per esempio, lo Schubert e lo Schumann e il Mendelssohn, ma senza avere nè la generosità e la geniale freschezza dello Schubert, nè la profondità dello Schumann, nè la nobiltà e il gusto del Mendelsshon: romantico come fu il Wagner: ma senza avere il genio nè la forza del Wagner: romantico come è stato il Mahler e come è sempre stato nei suoi momenti migliori, e quando non ha avuto la preoccupazione di fare affari, Riccardo Strauss: romantico, insomma, come da un secolo, in qua sono stati quasi tutti i musicisti di razza tedesca, grandi e meno grandi e piccoli (ai quali ultimi egli appartiene). E la espressione più genuina, istintiva, del suo spirito, è indubbiamente la musica di «Dank», di «Waldsonne», e gran parte del Quartetto op. 7, di «Wappenschild».
Ma lo Schönberg sente, che non lo sentirono e non dovevano sentirlo, dato il loro tempo, la loro educazione spirituale, il loro ambiente e anche il loro genio - nè lo Schubert nè lo Schumann, e non l'hanno sentito, per fortuna loro, nè il Mahler nè lo Strauss, lo Schönberg sente che il suo romanticismo risponde a una troppo ristretta e piccola intuizione della vita, che esso è ormai stato superato e sorpassato, e che agli uomini di questo mondo, ricchi della esperienza di tante e tante generazioni d'uomini, bisognerebbe dire cose assai più grandi o più profonde: che, cioè, tra il suo romanticismo e la complessità dell'anima umana contemporanea, e le esigenze estetiche degli uomini contemporanei, c'è una distanza enorme, un abisso. Nato alla vita dello spirito in una piccola stanza che in fondo gli è cara, perchè fatta alla misura della sua statura e della sua capacità sensuale, lo Schönberg sente però che la sua stanza è una piccola prigione. E tenta di uscirne, per incamminarsi poi a percorrere quella distanza e a varcare quell'abisso oltre i quali s'innalza il monte della profonda conoscenza. Ma fuori della prigione, che luce differente i quanta luce abbarbagliante! e quante strade, e che movimento di uomini e di cose! Per dove andare, quale strada prendere? e a chi chiedere consiglio ed aiuto? e quali voci ascoltare? E lì cominciano le sue pene. Le quali egli non proverebbe, o sentirebbe assai meno acerbe, se oltre al senso egli avesse la coscienza netta della sua impotenza al lunghi e aspri viaggi spirituali. Se tale coscienza egli avesse, o continuerebbe (avrebbe continuato) a scrivere le sue mediocri musiche romantiche, o smetterebbe del tutto di comporre musica: o un uomo mediocre ma contento, o un uomo infelice ma eroico. E invece no: né uomo felice nè eroe. Oltre che un disgraziato, egli è anche, in quanto musicista, uno sventurato. Potersi limitare a mettere in musica le poesie di un Karl von Levettow o di un Johannes Schlaf o, tutt'al più, di un Richard, Dehmel! E no, bisogna sforzarsi di andare oltre. E tenta accostarsi al Petrarca, il quale sta sopra una torre che per lui non ha scale! Poter continuare a costruire, sotto la lampada a petrollo, quelle graziose casine di legno e di cartone che facevano sospirare di desiderio le di tenerezza tanti piccoli borghesi amici! E no, bisogna provarsi a coistruire le case di pietra e di ferro. E via a porre pietra su pietra, all'arla aperta, sotto il sole: ma la calcina non prende,il cemento non si rassoda, e le pietre restano staccate una dall'altra, sì che nei muri vacillanti non si possono aprire nè porte nè finestre: e il sole riman fuori!
I Drei Klavierstücke op.11, i Sechs Kleine Klavierstücke op. 19, non sono, no, pezzi scritti per gioco, o per far colpo sulla gente o per far arrabbiare i pedanti. Sono tentativi di liberazione di un uomo che non ha la possibilità, intendo la forza, di conquistarsi la libertà, e sono, implicitamente, espressioni di un penoso malessere spirltuale.
E Arnold Schönberg non è un uomo del quale si possa ridere, come di un allegro pazzo, o che si possa disprezzare, come un furfante: anzi è un uomo degno di benevalenza, e anche di stima. «Ahimè», egli diceva due o tre anni fa, dopo una esecuzione dei Gurre-Lieder, a una gentile e intelligente mia amica straniera: «Ahimè, io non potrò mai più scrivere una musica come questa!» Parole gravi e dolorose e terribili, per un artista!
Domani rimanderò all'amico che me li ha prestati tutti i lieder dello Schönberg, e riporrò nello scaffale dove tengo i libri che non provo mai il desidierio di rileggere le altre composizioni sue che io possiedo. Ma ormai, per conto mio, non dirò di sentire per lui proprio dell'affetto, e neanche una vera e propria simpatia, ma una certa benevolenza e una certa stima, sì...: tanto che quasi non mi viene neanche più in mente che egli abbia quel suo, nome aspro e sgradevole, e per me egli è come, se si chiamasse, che so io? Giovanni o Paolo Belmonte...
***
Ma quelli per i quali non mi riesce di avere simpatia, quelli la cui opera non riesco a poter giustificare, quelli che, anzi, mi sembrano meritevoli di ogni più severo biasimo, sono quei musicisti o critici italiani - pochi, grazie a Dio - che, interessatamente?, esaltano nello Schönberg lo scopritore di nuovi arfifici musicali ottimi soltanto a mascherare la povertà della fantasia e l'aridità del sentimento, e che, si direbbe, sarebbero felici di poter imporre al pubblico il rispetto e l'ammirazione della musica schönberghiana per poter poi più facilmente imporre la loro propria.
Sì, lo so bene, oggi come oggi di Schönberg proprio non si parla e non si scrive, in Italia: non per nulla, diavolo!, siamo in guerra coi tedeschi; ma io temo, anzi son certo, che da certuni se ne riparlerà, e con grande ammirazione, a guerra finita, così come oggi, aspettando, si parla e si scrive di certi altri artisti, la musica dei quali ha con quella scönberghiana molte affinità: e nominerò lo Schriabine - anche lui un romantico mistico che dopo esser stato un seguace, un continuatore, un figlio dei romantici tedeschi, e dopo aver scritto per anni e anni la musica più mediocremente onesta che si possa immaginare, finì, per disperazione di grandezza, con lo scrivere dei caotici vaniloqui musicali che avrebber dovuto esprimere perfino delle intuizioni filosofiche trascendentali: e nominerò lo Strawinski, il quale è certo, un artista di molto ingegno, ma creatore di un'arte tutta esteriore, senza profondità, e che purtroppo soltanto in ragione delle apparenze della sua arte viene anche in Italia ammirato ed esaltato.
Voi mi direte che, in fin dei conti, le esaltazioni di certa arte, fatte da pochi snobs, non fanno troppo male a nessuno: che il tempo fa poi giustizia, e ciò che è veramente vivo e potente a vivere rimane e vive e ciò che non è tale vien dimenticato e muore. E siamo d'accordo. Ed io non credo neanche che gli artisti veramente forti possano esser fuorviati da certi transitori e più o meno onesti entusiasmi per certe espressioni d'arte. Ma c'è il pubblico, il buono e paziente e, in fondo, ingenuo pubblico grosso, che non deve essere ingannato e tratto in errore, e ci sono i giovani, ai quali non sideve far perdere tempo in vane esercitazioni estetiche (La vita è cosi breve, e l'arte e, tanto lunga!)
Quando si parlava o si scriveva, ieri, di Schönberg, quando si parla e si scrive oggi, di Scriabine o di Strawinski, a che cosa si badava, a che cosa si bada? A ciò che la loro arte esprime, a ciò che c'è dentro, nella loro musica? (E vivaddio, se l'arte è o non è, se conta e vale o no, è proprio soltanto in ragione di quel che c'è dentro!) Nemmen per sogno. Ma si citava e si cita all'ammirazione altrui, che so io?, quelle tali trovate armoniche, quei tali altri intrecci di ritmi, quegli impasti strumentali. «Ah, lo Schönberg, che ha rinnegato qualunque accordo consonante! Ah, lo Scriabine, che ha abolito qualsiasi relazione tonale! (E non è neanche vero). Ah, lo Strawinski, che ha trovato impasti strumentali ai quali nessuno aveva mai pensato! L'arte di domani è questa! Lux facta est!»
O popolo umile e ingenuo, che vai nei teatri e nelle sale da concerti per chiedere alla musica di commuoverti, di farti sentire, più profondamente di quel che tu non possada te solo, la grandezza e la bellezza e la santità della vita - non badare a tutte codeste chiacchiere che tu odi o leggi! Vai, e fa di ascoltare con animo disposto alla più viva simpatia, e non avere speciali esigenze preconcette, e non voler pronunciare giudizi precipitosi ed avventati, e cerca di amare l'arte quanto più ti sia possibile: ma se una musica non ti faccia se ntire proprio, niente, non ti dica proprio niente non ti commuova proprio neanche un poco, di' pur che non è arte, e se ti vien da ridere, ridi; e da sbadigliare, sbadiglia; e lascia abbaiare i cagnolini impermaliti!
O giovani musicisti, che state conquistando gli strumenti dell'arte vostra, coi quali possiate esprimere la vita che in voi stessi e iráorno a -voi: Gli accordi rari o nuovi non sono ancora arte, le associazioni di ritmi strani e inauditi e i rari impasti strumentali non sono ancora arte; nessun artificio è ancora arte! Leggere, studiare, iconoscere le opere moderne per qualsiasi rispetto singolarmente notevoli è bene, è necessario, come è necessario conoscere le opere antiche (il tempo ha già fatto la scelta!): perchè qualche insegnamento, più o meno prezioso, può venirvi da queste e da quelle. Ma non pensate di poter trovare ne in queste nè in quelle la sostanza dell'arte vostra: nè la sostanza nè le forme. Ma guardate intorno, a voi, in questo grande divino mondo, gli uomini e le cose, e ascoltate le voci degli uomini e delle cose, e amate gli uomini e le cose: e poi ascoltate voi stessi, e cantate, secondo la vostra natura. Le melodie, gli accordi, i ritmi, vi nasceranno dentro non solo, nuovi, ma vostri, soltanto vostri. E se poi noni uscirà da voi che della musica inaudita ma del tutto inutle, vana... Sarà forse meglio cambiar mestiere. Di pappagalli e di giocolieri gli uomini non hanno, proprio bisogno.

 

Dicembre, 1914.



INDICE DEL VOLUME

 

Alla mernoria di Annibale Beggi
La Musica di Vincenzo Bellini
L' immortalità del Barbiere di Siviglia
Spunti di critica musicale shakespeariana
Gli intermezzi musicali per l'Aminta a Fiesole
La Lirica vocale da camera
Di Arnold Shönberg e di altre cose