GIANNOTTO BASTIANELLI

PIZZETTI

PIZZETTI PIZZATTIANO

IL NUOVO DIO DELLA MUSICA
pp. 153-159
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Debussy risentì per istinto le modalità discendenti. In parte. Ché sentì anche molto, per riflessione, le modalità arabe (le scale con intervalli aumentati e quindi la famosa scala esacordale). Certo che il tono generale della musica debussiana è grigio (con iridescenze affaticate) ed egli è un intimista.
Il nostro Pizzetti si è messo sulla stessa strada. Già la storia della sua formazione musicale ce lo dice; avanti d'essere Pizzetti, fu brahmsiano, e - tra gli ottocentisti - Brahms fu il piú «intimista» di tutti, perfino dello stesso Beethoven. Oggi come oggi, certo, il Pizzetti è uno dei musicisti piú rappresentativi della musicalità italiana. Egli, queste famose modalità discendenti, le modalità greche, le ha riscoperte, studiate, appropriate a quel tanto di resipiscenza greco-medievale e a quel tanto d'intimità religiosa o per meglio dire «mistica» che già fin da Beethoven poteva essersi nella musica manifestato, e che rifiorì profondamente nello stesso Wagner, pure così napoleonicamente imperatorio e demagogico, cesareo addirittura, in un senso tutto ottocentesco: i suoi successi sulle platee e la conquista del mecenatismo di Luigi di Baviera insegnino.
Questa ricerca pizzettiana dell'intimità «mistica» o, semplicemente, dell'intimità, [viene] ottenuta con mezzi tecnici prima di tutto in armonia con il completo riaffioramento nell'anima moderna delle modalità discendenti o elleniche (non arabe per carità! - alla melodica misura greca le aumentazioni degli intervalli quale trionfa nel sistema modale arabo sarebbe sembrata un'esagerazione, e Debussy, nonostante tutto il buon gusto, vi è cascato fino agli occhi), in secondo luogo a mezzo di effetti in sordina coloristico-timbrici in generale, come in Debussy pacati miniati pazienti - da coccolarseli in perfetto raccoglimento come fanno le madri che con la bocca sulla bocca colgono il primo formarsi delle sillabe umane sulle labbra del loro bambino - questa ricerca pizzettiana, dico, ha portato il maestro parmigiano ad essere forse il piú intimista musicale esistito da almeno tre secoli. E dico da almeno tre secoli perché durante questi tre secoli (dalla fine del secolo XVI a tre quarti del secolo XIX) la musica, come ho detto alquante e svariate volte, si «umanizzò», divenne drammatica, a battute e tirate oratorie; mentre per l'innanzi era stata, almeno in Europa, intima, religiosa, esprimente - per quel tanto che le è permesso da natura - sentimenti uniani (direi meglio: la dinamica dei sentimenti umani, più preciso ancora, il pathos ritmico degli avvenimenti che è in tutte le cose anche non umane), ma tutto ciò esprimendolo con una incrollabile dipendenza dal trascendente, da quella divina Irrealtà (irrealtà per noi che non concepiamo la realtà altro che di ciccia e di sangue, o al massimo di piante debitamente concimate) la quale è poi, per noi credenti, la vera Realtà, l'Eterna Ispirazione che in noi produce la nostra transeunte ma immutabile aspirazione a Dio.
Così non esito in questa musica europea (dei secoli avanti la fine del XVI secolo) a mettervi anche gran parte di quella greca e forse - a stare ai teorici - egiziana. Certo che la musica che accompagnava le tragedie specialmente di Eschilo e di Sofocle doveva essere tutto quel che di piú mistico si può immaginare. Ma allora il lettore legittimamente si domanderà: «Dunque l'ispiratore della tragedia greca, Dionisos l'orgiastico non era quell'incitatore all'esteriorità e al gesticolamento e peggio che ci hai voluto fare apparire nella tua carica a fondo contro l'Ottocento?» La risposta è facile: il Dionisos greco (Aristofane volentieri ne eccettuerebbe il Dionisos umanissimo e un po' avvocatesco di Euripide) era sotto certi aspetti - in arte e non solo in arte - il precursore di Gesú (dico ciò culturalmente, non - per carità! - teologicamente!), ad ogni modo non era quell'incitatore agli urlacci o fragori plateali che romanticamente (democraticamente) - pare impossibile - un uomo di così gentile gusto artistico ci ha voluto fare apparire: Federico Nietzsche.
C'è una bella differenza dal dio dell'ascesi sofoclea di Edipo Re al Dionisos ottocentesco che - come ho già detto - fu figlio del protestantismo e della rivoluzione francese; un Dionisos che finirebbe, se non agonizzasse, per presiedere, nella vecchia e isterica Europa, alle gare automobilistiche e agli sport in genere. Tutta roba che - se è bene d'altra parte che la gente venga su sana - non bisogna confonderla con la severità ascetica della tragedia, come ha fatto un musicista moderno, romantico, nonostante le sue pose futuriste e novecentoidi, il quale ad un certo punto della sua opera ha messo come strumento d'orchestra il motore di una motocicletta.
Pizzetti in questo senso ottocentesco e antidionisiaco per eccellenza. È ritornato alla musica dalle modalità discendenti, dalle tonalità raccolte, dal dolore concentrato e piú amante del silenzio che dell'espressione espansiva. Al postutto non è molto originale. Siamo d'accordo - in lui c'è perfino del Puccini (del Moussorgsky e del Debussy è logico che ci sieno). Ma anche in Beethoven c'era dell'Haydn e del Ferdinando Ries; c'era cioè in lui tanto un po' del maestro che dell'allievo. Non esageriamo wagnerianametite la importanza dell'originalità. Volle il caso che il Pizzetti, per le sue tre prime manifestazioni artistiche di mole piú considerevole - i cori per la Nave [di D'Annunzio] (bellissimi), la Fedra (in gran parte bellissima anch'essa, specie il Primo atto), la 'musique de scène' per la Pisanella [di D'Annunzio] (dove c'è una sarabanda per archi che è la migliore composizione strumentale pizzettiana, assieme ad altre gemme della deliziosa partitura) - che il Pizzetti - debitamente trasformato, così per ridere! - in Ildebrando da Parma, si ricontrasse con uno spirito il piú dionisiaco (in senso nietzschiano), fragoroso enfatico esuberante, irrequieto fino a confinare col capitano di ventura, che ci abbia dato l'arte moderna: Gabriele D'Annunzio.
Il connubio generò un malinteso fortunato e sfortunato al tempo stesso - come del resto succede per tutti i matrimoni; tuttavia dobbiamo riconoscere che forse le cose piú belle di Pizzetti datano durante quel connubio, da quei suoi indimenticabili Pastori - oserei dire la piú bella lirica moderna - alla Fedra, che se giace per ora negli scaffali di Casa Ricordi, è che non si è capito ancora che per certe opere d'arte piene di sottintesi, freschezze, pazienti intenzioni, oasi di raccoglimento, di miniature, ci vogliono perché risultino a dovere -come dicevo - i teatri piccoli, i teatri d'arte. Date la Fedra in un teatro piccolo (tanto piú che non ha davvero come Salome o come Francesca una orchestrazione assordante) - e non se ne perderà una parola.
La qualcosa, come si sa, in Pizzetti, è importantissima. Egli - anche in questo meno originale di quello che non si creda - mentre, sulle orme di Debussy, ha fatto una tremenda guerra al napoleonismo ottocentesco di Wagner e al suo barocco sistema dei motivi conduttori lo ha poi - come Debussy - seguito nella riforma del declamato. Soltanto, essendo italiano, è andato piú in là. Non solo i modi greci ha ripresi, ma concependo la musica drammatica come ancella della poesia, e sentendo nella parola tutto quello che c'è di piú musicale - soprattutto l'accento - nella Fedra ci ha dato pagine di una bellezza severa e commovente, con il giuoco degli intervalli (intonazione secondo i modi discendenti greci) e con la dipendenza assoluta dell'accentuazione musicale da quella verbale (come accadeva nella musica greca, nel canto gregoriano, come non è in fondo riuscito a fare - perché troppo musicista - Wagner, e tanto meno Strauss, come non facevano affatto i nostri melodiosi sei-settecentisti e in gran parte ottocentisti), facendo risaltare i ritmi e la loro espressione poetica in modo veramente ammirevole, ritmi ed espressione poetica che ci sono a bizzeffe in qualunque poesia ed anche in qualunque prosa del nostro grande principe della plastica verbale - Gabriele D'Annunzio.
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PIZZETTI PIZZETTIANO

Ma il matrimonio durò poco. Il marito - D'Annunzio - era infedelissimo. Pizzetti d'altronde - come [le] mogli emancipate - volle cominciare a fare da sé. E ci diede - a parte un intermezzo di liriche greche popolari moderne, bellissime, piene, sempre del miglior Pizzetti - ci diede, dico, la Debora e Jaele che non vale la Fedra. L'ottocentismo melodrammatico, nonostante il rigorismo pizzettiano in fatto di declamazione e di strumentazione, comincia a rifarsi sul povero reazionario maestro che non ha avuto l'intelligenza di rassegnarsi a quel che ho detto ci voleva per lui: i teatri piccoli, antidemocratici, magari un po' snobistici. Inoltre come musicista cade in ripetizioni - sia pure di se stesso. Il soggetto della Debora è poi di un dannunzianismo che, ohimè, comincia a mostrar tracce d'arteriosclerosi. Pagine belle ve ne sono ancora qui; ma nel suo vino ormai Pizzetti ha messo molt'acqua. Insomma fino a sentir la musica (meglio si chiamerebbe la melopea) asservita alle potenti plastiche parole di un Gabriele D'Annunzio ci stiamo volentieri - ma quando queste parole sono di un Pizzetti (o di un suo aiuto anonimo ben inferiore in quanto a potenza verbale al D'Annunzio), allora cominciamo ad accorgerci che in un teatrone democratico e realistico in fatto di scenari come la Scala, la diafana platonica musica, pizzettiana, che sta alle parole come la vite agli olmi, non sorretta ed eccitata da ritmi belli verbalmente per se stessi e da immagini di nutriente plasticità, spesso s'impadula in marasma.
Insomma secondo il mio parere le cose veramente belle di Pizzetti sono i cori per la Nave, la Fedra (purché, ripeto, la si eseguisca in un teatro apposito) le liriche per canto e pianoforte (non dirò tutte, ma quasi), gran parte della Pisanella; il resto è, come ho detto, vino con ormai molta, a volte moltissima, acqua.
Ho parlato dei cori della Nave. Il Pizzetti, non solo studioso di modalità greche - forse un po' secondo la moda estetico-archeologica messa in voga dal D'Annunzio di venti anni fa - è stato anche un grande studioso di polifonia quattro e cinquecentesca. Così, oltre alla ripresa dei modi discendenti e del declamato alla greca ed alla gregoriana (che ognun sa esser, se non la stessa cosa, per lo meno d'immediata figliolanza bizantina), egli è un eccellente riesumatore della grande polifonia vocale dei nostri secoli musicalmente piú mirabili: il secolo XV e il secolo XVI. I cori per la Nave (non si sa perché tenuti da parte); la «trenodia» della Fedra, un pezzo di polifonia vocale ormai giustamente celebre; i brani del primo atto della Debora, polifonici, s'intende, ma con accompagnamento strumentale: «madre, tu lo sai, come nemici ci tratta il nostro dio»; sono pagine straordinariamente belle, raccolte, intime, - religiose.
Religiose? Qui c'è da domandarsi se la religiosità pizzettiana non somigli un po' a quella degli intimisti decadenti che sono certo affamati d'ascesi ma poi non riescono ad inquadrarsi in una solida intelaiatura religiosa. Il Pizzetti in realtà è uno dei soliti cerebrali moderni con tendenze pessimistico-religiose, ma che ha per sola religione - pagana - l'arte. Rientra quindi nell'Ottocento? Purtroppo in parte sì. Anche i suoi rari esempi di musica strumentale - che risentono l'atmosfera wagneriano-debussista cui abbiamo accennato - hanno bagliori abbastanza persuasivi (pur sempre diafani e pallidi) nella assai ben quadrata e al tempo stesso romantica sonata per violino, poi diviene eccessivamente personale nella sonata per violoncello. Nel trio l'ultimo tempo col suo finale melodicissimo, dall'accompagnamento a tranquilli accordi ribattuti che meravigliano in un così arguto ricercatore di novità o per lo meno di rinnovamento, sembra un disperato tentativo di ritornare ottocentesco mentre c'è nella natura del Pizzetti tanto Novecento. In quanto poi ad annacquatura completa del vin pretto pizzettiano fino a diventare vinello, consiglio leggersi l'ardua messa per voci sole composta dal maestro nel 1922. Paragonatela coi cori della Nave e vedrete se io maligno o constato semplicemente dei fatti.
Ci sono altre composizioni del Pizzetti; per esempio. La sacra rappresentazione di Abramo e Isacco. È opera di transizione, e poi io non faccio qui un vero e proprio saggio critico alla Benedetto Croce. Parlo del nuovo dio della musica che pare ami soprattutto i giovani. Egli - novecentista com'è - appena uno passa la trentina si diverte a giuocargli dei brutti scherzi: lo scherzo peggiore che tira è la stanchezza.
Del resto non è escluso che il Pizzetti [metta da parte] queste sue manie oratorie e demagogiche, romantiche, ottocentesche e ritorni quel delicato squisito platonico musicista che è. E si persuada che il piú grande musicista dell'Italia moderna è - non ci ho colpa io, ma forse ne sono fiero pensando alle inesauribili risorse della mia razza - un uomo pratico e politico. La pratica ha preso il sopravvento sulle cose dell'intelletto. Il nuovo dio della musica al massimo potrà trovare gregari e adoratori nei segreti teatri snobistici e in provincia. Certo quello ch'egli sa ispirare è il meglio che relativamente si abbia nel mondo dei nuovi compositori. Chi si ostina a ottocenteggiare è come uno che abbia la curiosa mania di leggere i giornali del 1890 nel 1926. Ma alla gran luce del sole oggi i popoli e quindi gli stessi individui cercano soprattutto, avanti tutto, un nuovo equilibrio pratico e morale e non ha voglia di stare ad ascoltare messe di requiem vuote di sentimento religioso ed appena qua e là berliozianamente punteggiata di trouvailles insufficienti; trii sesquipedali sia pure fiammeggianti (ben di rado!) di sprazzi d'ardente dolore; opere che sembrano una ostrica troppo magra per quanto assai saporita in una valva così grande - il teatro della Scala - che, facendocela pagare a peso, la spesa non vale la delusione.