GIAN FRANCESCO MALIPIERO WEBSITE

L'ORFEIDE

LIBRETTO INTEGRALE

SCHEDA SULL'OPERA
(L'OPERA - Mondadori]

SCHEDA DAL DIZ. DELL'OPERA
[Baldini e Castoldi - con inserimento di brani
del testo musicato da parte del curatore]

L'EDIZIONE SCHERCHEN


INTERVISTA A MAGDA OLIVERO
E A GIANFRANCO DE BOSIO


PRESENTAZIONE DEL COMPOSITORE

L'Orfeide non è un ciclo di tre opere in un atto, ma un'opera sola in tre parti; la seconda (Sette canzoni) e la terza (Orfeo, ovvero l'ottava canzone) sono state concepite avanti la prima, ed eventualmente possono anche conservare la loro indipendenza. Non per questo si deve considerare la prima parte come un'aggiunta artificiosa: le idee sono capricciose, e se La morte delle maschere, premessa alle altre, è nata per ultima, non vuol dire che L'Orfeide sia per questo meno organica. La morte delle maschere (1922) è la condanna del convenzionale (le maschere vengono rinchiuse, come balocchi fuori uso, in un armadio) e l'invito a cogliere la vita semplice, dal vero, per farne della musica. La terza parte: Orfeo, ovvero l'ottava canzone è una satira sulla indifferenza, sull'incomprensione o sullo sterile entusiasmo constatati al primo contatto col pubblico di vari paesi delle Sette canzoni, le quali stanno al centro dell'opera» (1922).

Le Sette canzoni sono sette episodi da me vissuti e che ho creduto di poter tradurre musicalmente senza contraddire me stesso.
A Venezia uno zoppo e un cieco, violinista il primo e suonatore di chitarra il secondo, accompagnati da una donna che era la guida del cieco, sceglievano per i loro 'concerti' gli antri più misteriosi, le calli più anguste, quasi volessero evitare la luce. Non so perchè attraessero la mia attenzione non ostante la loro straziante antimusicalità. Difatti un bel giorno il cieco rimase solo a strappare accordi disperati dalla sua vecchia chitarra, la compagna era fuggita con lo zoppo. Questo piccolo dramma mi suggerì la prima canzone: I vagabondi.
Una sera, a Roma, verso il tramonto, nella Chiesa di Sant'Agostino una donna pregava genuflessa dinanzi alla immagine della Madonna. Un frate andava su e giù intento alle faccende che precedono la chiusura del tempio. Spegneva ceri, rimetteva al loro posto le sedie e il rumore di un mazzo di chiavi accompagnava le voci dei monaci che cantavano raccolti nel coro e nascosti dall'altare. A un tratto il frate si avvicinò alla donna e l'invitò a uscire. Questa si alzò e senza aprire gli occhi infilò la porta e disparve. La seconda canzone: A vespro, è nata da questa misteriosa apparizione crepuscolare.
Passando vicino ad una casa, alle falde del Monte Grappa, quasi sempre udivo una donna piangere, lamentarsi e intonare delle canzoni infantili. Era una madre impazzita dal dolore per la morte del figlio, ucciso in guerra. Ora cullava e addormentava una bambola, ora la calpestava urlando, imprecando. In questo episodio tragico ho trovato lo spunto per la terza canzone: Il ritorno.
L'ubriaco, che interrompe un idillio (la quarta canzone), l'ho veduto a Venezia, e pure a Venezia ho notato il contrasto fra la veglia di un morto e i canti di una serenata. La serenata è la quinta canzone.
A Ferrara, entrando in una chiesa durante un funerale, mi colpì il campanaro (sesta canzone) che rinchiuso nella sua cella suonava a morto fischiando «la donna è mobile». Ho sostituito il funerale con l'incendio e per dipingere l'indifferenza del campanaro l'ho fatto cantare una canzone quasi oscena.
La settima canzone l'ho sentita più di una volta nell'ultima notte di carnevale. La mascherata del carro della morte è un'antica mascherata italiana che non ha nulla di funebre. Dal suo incontro coi pagliacci ho colto il pretesto per creare una sinfonia di bianco e nero. Se la musica alla fine è un po' solenne, aderisce a quel senso di liberazione che ho sempre provato a l'alba delle ceneri quando la quaresima viene a liberare dall'invadente banalità carnascialesca.
Il testo delle Sette canzoni è preso dall'antica poesia italiana, perchè in essa si ritrova il ritmo della nostra musica, cioè quel ritmo veramente italiano che a poco a poco, durante tre secoli, è andato perdendosi nel melodramma» (1918).
Le Sette canzoni nacquero dalla lotta fra due sentimenti: il fascino per il teatro e la sazietà per l'opera, ma più che sazietà fu antipatia per quell'assurdo chiamato recitativo.
Nelle Sette canzoni (sette drammi in cui della vita reale è stata colta la musicalità attraverso un processo diametralmente opposto a quello dell'opera verista) il recitativo è bandito. Ma già nella Morte delle maschere e nell'Ottava canzone esso diventa inevitabile; però non si presenta sotto forma di didascalia cantata, bensì con una linea musicale nella quale la pronunzia delle parole si deve rispettare ad ogni modo. L'intera Orfeide si può considerare costruita su diciannove canzoni, e i cinque recitativi parlati (due di Orfeo e tre, brevissimi, di Nerone) restano in seconda linea.
Naturalmente mi resi conto che adottando un sistema mi sarei ripetuto (il ripetersi è uno dei punti deboli dei musicisti) e che correvo il rischio di distruggermi. L'Orfeide è rimasta dunque un'opera d'eccezione, e ritengo che soltanto il Torneo notturno (scritto circa nel 1930) sia, nonostante l'unità del soggetto, un discendente diretto delle Sette Canzoni (1936).

SCHEDA SULL'OPERA
[da L'OPERA - Mondadori]

Trilogia di Gian Francesco Malipiero (1882-1973), su libretto proprio, da Jacopone da Todi, Ranieri da Palermo, Angelo Poliziano, Antonio Alamanni e canti popolari toscani. Ciascuna parte ha valore autonomo: La morte delle maschere, preludio; Sette canzoni, sette espressioni drammatiche; Orfeo ovvero, l'ottava canzone, epilogo.
Prima rappresentazione: Düsseldorf, Stadttheater, 31 ottobre 1925. Interpreti: H. O. Stock, C. Waldmeier, H. Bouquoi, C. Bara, K. Ludwik, J. Redensbeck, B. Backstein, H. Faber, L. Roffmann, P. Barleben, M. L. Schilp, W. Fassbaender, C. Ullrich, E. Senff-Thiess, J. Grahl, E. Thiess, J. Dobski, M. Bruggermann, J. Schoemmer, B. Putz, C. Nettesheim, W. Ries. Direttore: E. Harthmann.
I PERSONAGGI. La morte delle maschere. L'impresario; sette maschere: Arlecchino (tenore), Brighella (baritono), il dottor Balanzon (baritono), il Capitan Spaventa di Valle Interna (basso), Pantalone (baritono), Tartaglia (tenore), Pulcinella (tenore); Orfeo (tenore). Sette canzoni. I vagabondi: il cieco; il cantastorie (baritono); una giovane donna; alcuni passanti. A vespro: una donna; un frate; voci interne. Il ritorno: la vecchia madre (soprano); il figlio; voci interne. L'ubriaco: l'innamorato; una donna; l'ubriaco (baritono); un vecchio. La serenata: una fanciulla; l'innamorato (tenore); voci interne. Il campanaro: il campanaro (baritono); voci interne. L'alba delle Ceneri: il lampionaio (baritono); le beghine; la compagnia dei carro della morte; i pagliacci; una mascheretta. Orfeo ovvero L'ottava canzone. Nel primo teatro: il re; la regina; il loro seguito; un cavaliere (tenore); una dama; un venditore di bevande (tenore); il pubblico: dame e cavalieri. Nel teatro di sinistra: i parrucconi con le relative dame. Nel teatro di destra: i fanciulli. Nel teatro di mezzo: Nerone (baritono); il suo servo; Agrippina (soprano); il carnefice; Orfeo (tenore).
LA TRAMA. La morte delle maschere. Un impresario teatrale presenta al pubblico le maschere della commedia dell'arte nei loro tipici atteggiamenti. Ad un tratto irrompe un uomo mascherato che mette in fuga l'impresario e chiude tutte le maschere in un armadio, decretando la loro morte, in quanto espressioni di fatti lontani dalla vita e al loro posto fa entrare nuovi personaggi dell'opera; quelli presi dalla vita che cantano e rappresentano vicende umane. Ad uno ad uno sfilano i personaggi delle successive Sette canzoni presentati dall'uomo mascherato che è Orfeo. I vagabondi: una donna che guida un cieco è affascinata dalle canzoni di un cantastorie e lo segue dimenticando il compagno. Quando il cieco se ne accorge si allontana disperato a tentoni. A vespro: di sera un frate, mentre si appresta a chiudere la chiesa, si accorge della presenza di una donna assorta in preghiera. Incurante delle sue preoccupazioni la costringe ad uscire dal tempio. Il ritorno: una vecchia madre impazzita dal dolore piange il figlio che crede morto; ma il giovane ritorna: la madre non lo riconosce e lo respinge mentre il figlio è impietrito dall'angoscia. L'ubriaco: un giovane, fuggendo dalla casa dell'amante dove è stato scoperto dal marito della donna, urta un ubriaco e lo getta a terra; il marito, scambiato l'ubriaco per l'amante, lo picchia senza pietà. La serenata: una fanciulla che piange in una stanza davanti a un congiunto morto non dà ascolto alla serenata dell'Innamorato; costui, solo entrando in casa, si renderà conto del dramma della fanciulla. Il campanaro: un campanaro, suonando a stormo per avvertire la popolazione di un terribile incendio, canta un'arguta canzone senza curarsi di ciò che avviene. L'alba delle Ceneri: passa un carro funebre con una compagnia penitenziale che invita la gente alla preghiera; sopraggiunge danzando un gruppo di maschere, ma appare una figura simbolica rappresentante la morte e le mette in fuga. Allontanatisi i penitenti, due mascherine raggiungono il gruppo e si uniscono a esso. Orfeo ovvero L'ottava canzone. L'epilogo mostra un teatro colmo di pubblico, con il re e la regina che presenziano allo spettacolo. Un attore rappresenta le crudeltà di Nerone; un gruppo di vecchi ne è indignato; i fanciulli invece ridono e applaudono. Compare Orfeo che, con un canto dolcissimo, addormenta il pubblico. Rimane sveglia solo la regina che, affascinata dal cantore, si allontana con lui.
Nella prima parte Malipiero afferma l'esigenza che il teatro abbandoni gli schemi accademici del passato e si rivolga alla realtà. I sette episodi che formano la seconda parte prendono il nome di canzoni in quanto sono basati su semplici melodie ariose, senza sviluppi obbligati e con esclusione del recitativo; inoltre (com'è nella canzone) svolgono melodicamente un breve momento di vita. Le parole derivano da antichi testi italiani, specialmente rinascimentali. La terza parte riporta il contrasto iniziale fra teatro e realtà, per mettere in rilievo in chiave ironica le difficoltà di svincolare il teatro da schemi tradizionali: dopo le affermazioni della prima parte, anche Orfeo torna a modi convenzionali, indifferente al fatto che il pubblico si addormenti. L'opera suscitò scandali e polemiche a non finire.

SCHEDA II

DAL DIZIONARIO DELL'OPERA
BALDINI&CASTOLDI

Nella produzione immensa di Gian Francesco Malipiero, sviluppatasi lungo traiettorie tutt’altro che lineari e continue, è possibile isolare alcune costanti di ordine psicologico, musicale e culturale. Ciò vale soprattutto a partire dai lavori nati nel clima tumultuoso degli anni della prima guerra mondiale o a essa immediatamente successivi, come le Pause del silenzio, il Ditirambo tragico, il balletto Pantea, nonché le Sette canzoni. Lavori accomunati sul piano caratteriale da un pessimismo di fondo di cui Malipiero raramente si libera, da una coscienza ossessiva della morte e della transitorietà, che neppure la pervicace ricerca di vitali affermazioni di felicità e di bellezza riesce a scalfire. E, in termini musicali, collegati dalla negazione degli schemi compositivi dati, sia quelli pertinenti alla consequenzialità della struttura sinfonica, sia quelli propri della continuità e della logica drammatica: l’ideale malipieriano, da allora applicato sistematicamente anche alle opere teatrali, è una musica che eviti le ripetizioni e gli sviluppi tematici, per procedere in modo non geometrico, attraverso un succedersi inesauribile e spontaneo di intuizioni. Il tutto vincolato a una concezione aristocratica di un’arte incontaminata e pura, non esente da orientamenti estetizzanti di matrice dannunziana, funzionali alle esigenze di un artista in dialogo con un passato ormai irrecuperabile: quello musicale del canto gregoriano, di Monteverdi, di Vivaldi, di Domenico Scarlatti e quello letterario di Jacopone da Todi, di Poliziano e dei molti poeti antichi ai quali attinge i testi del suo teatro.
In ambito teatrale la posizione malipieriana si arricchisce inoltre di spunti polemici contro i cantanti, il melodramma e il teatro verista, che trovano un primo sbocco significativo nel 1917 in Pantea («Dramma sinfonico in un prologo, tre allucinazioni e un epilogo», nel quale è soppresso il personaggio-cantante e la voce viene utlizzata soltanto come mezzo di caratterizzazione dell’ambiente, senza alcun ruolo protagonistico) e nelle Sette canzoni («Sette espressioni drammatiche» portate a termine nel 1919). Sono questi i primi lavori nei quali Malipiero costruisce un modello drammatico-musicale su misura della propria tendenza a rappresentare situazioni che vivano di un’intrinseca necessità musicale, nelle più totale relativizzazione dell’unità e della continuità dell’azione. Un modello che nelle Sette canzoni si distingue per la costruzione a mosaico di tessere irrelate, disposte per contrasto (una soluzione inaugurata in campo sinfonico con le Pause del silenzio , in sette episodi, numero legato a un simbolismo ricorrente nella produzione malipieriana), secondo uno schema che consente al musicista di ripensare alle radici il rapporto tra parola, suono e gesto.
Nonostante Malipiero sottolinei il movente realistico di ciascuno dei brevi episodi di cui si compongono le Sette canzoni («sono sette episodi da me vissuti»), essi si susseguono senza perseguire fini di consequenzialità drammatica, procedendo per somma di contrasti, in una compenetrazione straniante di figure e sentimenti elementari, di piani e ambienti scenici. Si passa così dalla vicenda della disperazione del cieco, abbandonato dalla sua donna, a quello della madre col suo folle sentimento dell’assenza del figlio, ** a quella dell’ubriaco vittima inconsapevole di una segreta tresca amorosa, all’innamorato importuno, al campanaro sconcio: figure sparse di un’esistenza che l’uomo non riesce a cogliere nella sua pienezza, ma solo per attimi. Il tempo nel quale si susseguono le sette espressioni drammatiche di Malipiero è infatti un tempo fisso su se stesso, astratto, bloccato in una circolarità senza vie d’uscita.
La prima canzone (“La mi tenne la staffa”) è anche quella che introduce l’ultima espressione drammatica; ed è questo il solo ritorno che circoscrive l’atto unico. Al di fuori del cerchio rimangono soltanto il coro degli uomini del carro della morte dell’Alba delle ceneri , cantato sui versi di Antonio Allamanni (“Dolor, pianto e penitenza”), e la mascherata dei pagliacci, ai quali spetta la rappresentazione allegorica, tragica e inevitabile, del passaggio di ciò che vive al nulla della morte. Le ‘canzoni’, intonate su testi popolari o di autori del passato (Poliziano, Jacopone, i trecentisti siciliani e altri ancora), a loro volta isolate dal contesto musicale nella loro forma chiusa, non assecondano l’azione: sono funzionali al modello malipieriano in quanto espressione musicale necessaria agli accadimenti paradossali e grotteschi che si svolgono sulla scena; al pari degli interludi sinfonici cui spetta la scansione degli episodi e della mimica che li accompagna. Come dice Malipiero, in questo lavoro «il cantante rimane attore perché la canzone è incidentale e l’azione la esige».
Nel 1920 e nel ’22, dopo che le Sette canzoni avevano già avuto una prima messinscena all’Opéra di Parigi e altri allestimenti in vari paesi europei, al fine di disporre di uno spettacolo che occupasse un’intera serata, Malipiero vi affiancò altri due atti unici (rispettivamente La morte delle maschere e Orfeo, ovvero L’ottava canzone ), riunendo il tutto nella cosiddetta trilogia dell’Orfeide. Da allora Malipiero tenne in modo particolare all’integrità del trittico, sottolineandone l’unitarietà della tesi di fondo che esso svolge, tesi che fa perno sulle Sette canzoni: «La morte delle maschere – scriveva Malipiero – è la condanna del convenzionale (le maschere vengono rinchiuse, come balocchi fuori uso, in un armadio), e l’invito a cogliere la vita semplice, dal vero, per farne della musica.
Tutte le maschere si mettono a danzare intorno a Pulcinella. L'impresario sempre osserva e scrive. Improvvisamente irrompe nella stanza un uomo vestito di rosso, dalla faccia mostruosa e armato di uno scudiscio che agita minacciosamente.
Fa cadere a gambe all'aria l'impresario che se ne va carponi dalla porta di mezzo. Confusione generale. Indi apre l'armadio, vi fa entrare le sette maschere e ve le rinchiude. Poscia butta lo scudiscio, si toglie la maschera e il vestito rosso. Appare nel costume «come si suole raffigurare» Orfeo, con la cetra in mano. Apre la porta di destra.

ORFEO (chiamando) Entrate! Entrate! Avanti, entrate!

Si presentano i personaggi delle «Sette canzoni» i quali, dopo aver sfilato dinanzi a Orfeo, vanno a riunirsi nel mezzo della stanza.

ORFEO (nominandoli man mano entrano)
Il cieco, la sua donna, il cantastorie. Un monaco. La madre, il figlio. Una fanciulla col suo innamorato. Un'altra fanciulla col suo innamorato. Il campanaro. Il lampionaio. La compagnia del carro della morte. I pagliacci. Una mascheretta.

Dopo che tutti si sono riuniti in un gruppo:

Bravi! Grazie! Tutti avete risposto all'appello di Orfeo, che vi ha qui riuniti per annunziarvi «la morte delle maschere» e per invitarvi a cantare, come già cantavate al di là di quella porta, nelle vie, nelle vostre case, nelle chiese: quella porta ora non vi deve dividere dalla vita.

Passate! Avanti! Passate di qua.
Tutti entrano e dispaiono dietro la tenda. Orfeo li segue per ultimo. Le maschere prigioniere bussano dall'interno dell'armadio e gridano:

Abbiamo fame! Abbiamo fame!
Aprite!

Arlecchino riesce a liberarsi uscendo dall'alto dell'armadio e saltando a terra.

ARLECCHINO Non sarà mai vero che Arlecchino muoia di fame.

Scappa dalla porta di destra.

SI CHIUDE IL SIPARIO

«La terza parte: Orfeo, ovvero L’ottava canzone è una satira sulla indifferenza, sull’incomprensione o sullo sterile entusiasmo constatati al primo contatto col pubblico di vari paesi della Sette canzoni, le quali stanno al centro dell’opera».
Nell’insieme l’Orfeide è l’opera simbolo di una generazione di musicisti che faceva della contrapposizione al verismo la propria ragione di esistere in ambito teatrale. Il significato della Morte delle maschere e delle Sette canzoni si risolve nell’antitesi convenzione contro novità teatrale, ‘maschere’ (come quelle della commedia dell’arte) contro ‘maschera’ (come dirà più tardi Malipiero ciò che «sopprimendo ogni contatto con la realtà, perché la nasconde, finisce per favorire la verità»). Ma se gli Arlecchino, i Brighella, i dottor Balanzon e i Pulcinella che si muovono agli ordini dell’impresario si presentano come tipi fissi e parlano per filastrocche e monologhi da commedia dell’arte, altrettanto si può dire per i personaggi veri, anch’essi tipi privi di una propria individualità, con una storia pronta da narrare nel momento in cui l’impresario li nomina uno per uno, una storia che essi portano con sé dalla vita, quella vera che sta oltre lo specchio magico della finzione teatrale.
Il teatro potenziale dei personaggi delle Sette canzoni rimane però un insieme incoerente di situazioni, che non riescono a ordinarsi in una storia unitaria. E proprio per l’insistenza della trama narrativa della parte centrale della trilogia, le figure di questo teatro mancato divengono maschere prigioniere della finzione del teatro rispetto alla verità della vita, che aspirerebbero a rappresentare. Alla fine vita e finzione si confondono, così che nell’ Ottava canzone si assiste al trionfo della fantasia sulla vita vera. L’Orfeo conclude infatti il ciclo con un’apoteosi del teatro in quanto tale, con conseguente scomposizione dell’unità dello spazio scenico in tanti teatri, sui quali i sipari si alzano uno dopo l’altro in successione caleidoscopica: c’è, al centro, il teatro pubblico vero, nel quale prendono posto il re e la regina col loro seguito; c’è il teatrino dei ‘parrucconi’, di fattura barocca, a sinistra; c’è quello dei ‘fanciulli’, di sole panche, a destra; e c’è infine lo spazio della rappresentazione sul quale appaiono Nerone, il servo, Agrippina, il carnefice appesi a grossi fili, come se fossero tante marionette. Nel gioco del teatro nel teatro la magia della finzione scenica si riflette e si moltiplica, accentuando il senso della satira antiveristica: alla fine i tre gruppi di spettatori in scena si addormentano al canto melodioso di Orfeo (“Uscite o gemiti”), annoiati dal colto poeta-cantore, dopo essersi ora entusiasmati e ora disgustati alla vista delle gesta sanguinarie del fantoccio Nerone.
(S'apre il primo velario)
Appare un teatro del VIII secolo. Di fronte, il palcoscenico. Dai due lati, porte, specchi e bracciali con candele accese. Alcune file di poltrone sono disposte in modo che si vedono di schiena. Nel mezzo della prima fila (verso il palcoscenico) due poltrone dorate che dominano sopra le altre. Il secondo velario è abbassato. Qualche spettatore è già al suo posto.
Entra una dama, seguita da un cavaliere, si mette a sedere in ultima fila, senza curarsi dell'ostinato corteggiatore.

IL CAVALIERE (canta)
Da quel Guardo si amoroso,
da quel Labbro si vezzoso,
pien di grazie, e senza orgoglio;
come uscir può mai 'non voglio'.
Dolce par che poi sorrida...

Il madrigale è disturbato dal grido di un venditore di bevande.

IL VENDITORE DI BEVANDE (gridando) Acqua di cedro! Sciroppo d'arancio!

Il cavaliere per liberarsi dell'importuno acquista tutto il vassoio, lo fa deporre su di una poltrona accanto alla dama, a cui offre le bevande. Ma ella rifiuta, si alza e cambia posto. Il cavaliere non si arrende, la segue e riprende il madrigale.

IL CAVALIERE (canta)
Da quel Guardo sì amoroso,
da quel Labbro sì vezzoso,
pien di grazie, e senza orgoglio;
come uscir può mai 'non voglio'.

(Alcuni cavalieri che hanno osservato la scena prendono le bevande abbandonate e, con molta galanteria, le offrono alle loro dame).
Il madrigale di nuovo viene interrotto dal gridò del venditore di bevande, apparso con un altro vassoio carico di bicchieri.

IL VENDITORE DI BEVANDE (gridando)
Acqua! Acqua! Acqua! Sciroppo!
Il cavaliere, disperato, abbandona la sala.
Entrano il re e la regina, con il seguito, e prendono posto in prima fila nelle due poltrone dorate.
Il re batte tre volte la mazza a terra e subito si apre il secondo velario.
Appaiono altri tre palcoscenici, uno accanto all'altro e con i rispettivi velari abbassati. Quello di mezzo, più stretto e alquanto più elevato, èparallelo alla ribalta (seconda) da cui distanzia un paio di metri. Gli altri due, molto più grandi, sono inquadrati da due cornici uguali e molto strette che verticalmente si uniscono ai pilastri del teatrino di mezzo e a quelli delpalcoscenico che li contiene e sul quale appoggiano quasi allo stesso livello, dimodochè si vedono di scorcio.

Si apre il velario del palcoscenico di sinistra.
Appare un teatro barocco, tutto dorature, sfarzosamente illuminato e affollato da un pubblico di parrucconi che si vede di fianco essendo rivolto verso il teatrino di mezzo.
I parrucconi strepitano, battono i bastoni a terra in segno di protesta, perchè la rappresentazione non comincia ancora.

Si apre il velario del palcoscenico di destra.

Appare un teatro decorato molto sobriamente. Parecchie file di panche semplicissime, pure rivolte verso il teatrino di mezzo, sono occupate esclusivamente da fanciulli di varia età. Anch'essi tumultuano per la lunga attesa.

I FANCIULLI Vogliamo Nerone! Vogliamo Nerone!

Si aprono contemporaneamente i tre velari del teatrino di mezzo (dei quali due non si possono vedere) che agisce anche per il pubblico dei parrucconi e per quello dei fanciulli, essendo visibile da tre lati.
La scena di fondo rappresenta il panorama di Roma imperiale.
Entra Nerone che indossa la tunica ed è cinto dalla corona di lauro. Ha la cetra in mano.
Egli è appeso a un grosso filo, come una marionetta, e anche le braccia e le gambe sono munite di fili.
È seguito dal suo servo fedele, che è una marionetta autentica, e rimane sempre immobile in fondo alla scena attendendo gli ordini del padrone.
NERONE
Io son Nerone, eppur son Cesare, ossia Imperator, e pur poeta sono.
La mia lira freme, se vedo sangue e stragi, le lacrime e i lamenti infiammano il mio canto,
Io son Nerone, eppur son Cesare, ossia imperator, e pur poeta sono.
(rivolgendosi al servo): Orsù dunque, si massacrino diecimua schiavi.

Il servo parte.
Si odono i lamenti degli schiavi che vanno al supplizio.

NERONE (accompagnandosi sulla cetra, canta)

Io ho rotto il fuscellino
per un tratto, e sciolto il gruppo
e son fuor d'un gran viluppo
e sto or come susino.
Una certa saltanseccia
fatta come la castagna,
che ha bella la corteccia
ma l'ha dentro la magagna,
fe' insaccarmi nella ragna
con suo' ghigni, e frascheria;
poi di me fe' notomia
quando m'ebbe a suo dimìno
Ella mi ha tenuto un pezzo
già con la ciriegia a bocca:
ma pur poi mi son divezzo
tal che mai più me l'accocca:
mille volte in cocca in cocca
ha condotto già la pratica,
poi fantastica e lunatica
piglia qualche grillolino.
Sempre mai questa sazievole
è in su' lezi, e smancerie:
una cosa rincrescevole
in su' borie in su' pazzie;
paga altrui di villanie,
quando tu gli fai piacere:
orsù il resto vo' tacere
e serbar nel pellicino.

I parrucconi protestano e mormorano.
I fanciulli applaudono e gridano:

Bravo Nerone! Bravo Nerone!

Il re e tutto il pubblico del primo teatro rimarranno sempre immobili, come pietrificati.

NERONE (Volgendosi al servitore che è ritornato in scena)
Ed or si sgozzi Agrippina, mia madre.

Il servo parte.

LA VOCE DI AGRIPPINA Figlio! Figlio!

Entra Agrippina trascinata dal carnefice (tutti e due marionette) che con un lungo coltello la sgozza sotto gli occbi del figlio. Il carnefice parte e il cadavere di Agrippina rimane sulla scena. Il servo riprende il suo posto.

NERONE (quanto mai ilare e soddisfatto canta accompagnandosi sulla cetra)

La non vuol esser più mia,
la non vuol la traditora,
l'è disposta alfin ch'io muora
per amore, e gelosia.
La non vuol esser più mia,
la mi dice, va' con Dio,
ch'io t'ho posto omai in oblio
nè accettarti mai potria.
La non vuole esser più mia,
la mi vuol per uomo morto,
né giammai le feci torto,
guarda mo che scortesia!
La non vuol esser più mia,
la non vuol che più la segua
la m'ha rotto pace e tregua
con gran scorno e villania,
La non vuole esser più mia,
io mi trovo in tanto affanno,
che d'aver sempre il malanno
io mi credo in vita mia.
La non vuol esser più mia,
ma un conforto sol m'è dato,
che fedel sarò chiamato,
sarai tu spietata e ria.

I parrucconi di nuovo protestano e più forte gridano:
Basta! Basta! Assassino!

I fanciulli, invece, sempre applaudono e approvano gridando:
Bravo! Bravissimo!
NERONE (rivolgendosi al servo)

Voglio vedere Roma in fiamme, s'incendi l'Urbe!

Il servo parte.
All'orizzonte si vedono i bagliori delle fiamme che a poco a poco crescono e si estendono su tutta la città.

NERONE (ancora più esaltato e sempre accompagnandosi sulla cetra)

lo non l'ho, perchè non l'ho
quel che omai aver vorìa;
s'io l'avessi l'averìa,
ma l'avrò quando l'avrò.
Lungo tempo son vivuto
aspettando d'aver bene da chi sempre m'ha tenuto in speranza <e> ancor mi tiene;
ma tal bene mai non viene,
ed incerte ognor promesse
vo pigliando ad interesse
da chi dice: io tel darò.
Mille volte dico meco:
tu l'avrai, non ti curare,
poi rispondo, e dico: cieco!
tempo perdi in domandare:
e così con tal variare
in pensier mi struggo, e rodo,
e per me mai non v'è modo
d'aver quel ch'aver si può.
Orsù dunque alla buon ora
io l'arò, ma non so il dì;
chè d'aver non veggio ancora
se non ciance insino a qui;
ma se effetto avesse il sì,
che ogni giorno ho in pagamento
darei fine al vecchio intento,
che sospeso è tra si e no.
Io pur penso e non rïesce
l'importuno mio pensiero;
il desir tanto più cresce,
quanto men d'averlo spero:
talchè son dal dolor fiero
aspettando vinto e stanco;
e di fede pur non manco,
finchè vivo io sarò.

Dà un calcio al cadavere di Agrippina che ruzzola fuori dalla scena. I parrucconi indignati s'alzano, urlano e minacciano Nerone con i pugni stretti e i bastoni alzati. Alcune dame cadono svenute. Grande confusione. I fanciulli sono al colmo dell'entusiasmo, applaudono freneticamente e gridano:

Bravo Nerone! Bravo Nerone!
A un tratto i tre palcoscenici spariscono avvolti nell'oscurità, senza però che si chiuda nessuno dei velari. Dopo una breve pausa si avanza verso la ribalta (quella davanti ai tre teatri) una figura d'uomo, completamente bianca, cbe spicca sulla tela difondo tutta nera cbe si sarà abbassata per nascondere i tre palcoscenici, senza chiudere il secondo velario.
È Orfeo, vestito da pagliaccio con un liuto ad armacollo.

ORFEO (rivolgendosi al pubblico settecentesco, sempre immobile)
Sia gloria al vostro secolo!
Ho ammirato la vostra impassibilità!
Non vi siete turbati, nè per le arti malvage del tiranno, nè per le proteste dei parrucconi, nè per la gazzarra dell'ingenua ragazzaglia.
Sia gloria al vostro secolo!
Voi forse mi credete un fantoccio come Nerone! V'ingannate. lo sono Orfeo, ridotto in questo stato dall'avversa fortuna. Come col mio canto ho già potuto ammansare le fiere, commuovere Cerbero, Plutone, così spero commuovere pur voi e riscuotere il vostro applauso sincero.
So quanto sia tenero il vostro cuore.

(Accompagnandosi col liuto canta):

Uscite o gemiti,
accenti queruli,
lamenti flebili,
fuor dalle viscere.
Correte o lagrime,
fontane torbide,
e 'n pioggia tepida,
per gli occhi languidi,
stillate l'anima.
Portate o Zefiri
il mesto annunzio
per tutta Arcadia,
e questo spirito
tra' vostri sibili
confuso vadane.
Prendete o calami,
dolci reliquie
del mio bell'Idolo,
quel giusto debito
che pagar licemi.
Sospiri, e fremiti,
ch'ognor da' mantici
del petto esalano,
d'auretta musica
gonfino gli organi
de la mia fistula,
sì che in memoria
del caso tragico
al nostro piangere
con rauco strepito
sempre risonino.
Foreste tacite,
muti silenzi<i>,
orrori inospiti,
spelonche orribili,
profondi baratri
di Fere estranie.
Erbette floride
aurette placide,
fioretti teneri.
Limpidi rivoli,
fertili pascoli,
frassini e platani,
roveri e salici,
edere e pampini,
Satiri e Driadi.
Ramuscelli tremuli,
augeletti garruli.
(A poco a poco tutti sono rapiti dal sonno e s'addormentano. Si vedono, le une dopo le altre, chinarsi tutte le teste. Soltanto la regina non dorme ed ascolta estasiata il canto di Orfeo).

Rupi concave,
secretarie
solitarie
del mio misero
infortunio,
poichè vogliono
stelle perfide,
che 'n perpetuo
resti vedovo
d'ogni giubilo
siate (pregovi)
testimoni<i>
dell'esequie
ch'oggi celebro
non al tumulo
del suo cenere
ma del povero
Dio di Menalo,
ch'è cadavere
miserabile
e sostentasi
per miracolo,
e in quest'ultimo
grave esilio
brama ch'Atropo
a la linea
del suo vivere,
che dee scorrere
tutti i secoli,
ponga termine.

Alla fine la regina si alza, tende le braccia a Orfeo, che con un salto la raggiunge. Si baciano e partono dalla porta di destra. Tutti dormono e russano. Quasi tutte le candele sono spente.

(Si chiude il primo velario).

IL FINE

IL RITORNO
(la terza delle SETTE CANZONI)

Giorno piovigginoso d'autunno. L'interno di una stanza. Una finestra e una porta, chiuse.
Seduta su di un seggiolone la vecchia madre demente, piange il figlio perduto:

O morte dispietata,
tu m'hai fatto gran torto;
tu m'hai tolto mio figlio
ch'era lo mio conforto.
Già mai non vidi giovane
di cotanto valore
quanto era lo mio figlio
che mi donò il Signore.

S'interrompe. Le balena il ricordo di un'antica canzone con la quale solea addormentare il suo bambino:

Dolce sonno, dal cielo scendi e vieni
Vieni a cavallo, e non venire a piedi;
Vieni a cavallo in un cavallo bianco,
Dove cavalca lo Spirito Santo:
Vieni a cavallo in un bel cavallino,
Dove cavalca anche Gesù Bambino.
Falla, la nanna, ne li dolci sonni!
Mamma ti canta, e tu, piccino, dormi!

Bruscamente il dolore la riafferra:

O figlio, figlio, figlio, figlio amoroso giglio,
figlio, chi dà consiglio, al cor mio augustiato?
Figlio, occhi giocondi, figlio, co non rispondi?
figlio, perchè t'ascondi dal petto ove se' lattato?

Ha un'altra visione, le sembra giuocare col suo bambino:

Fila, fila lunga!
La mamma si raggiunga:
Si raggiunga la badessa.
Si canterà la messa;
La messa e il mattutino.
Si farà un bello inchino.
L'inchino è bello e fatto:
Si farà la pappa al gatto.
Il gatto non la vòle:
Si darà alle gattaiole.
Le gattaiole son sotto il letto:
Ci daranno un bel confetto.

Ancora più angosciata riprende il lamento:

O figlio, figlio, figlio! figlio amoroso giglio,
figlio, chi dà consiglio, al cor mio augustiato?
Figlio, occhi giocondi, figlio, co non rispondi?
figlio, perchè t'ascondi dal petto ove se' lattato?


Passano cantando alcuni giovani:

All'erta all'erta, che il tamburo suona:
i Turchi sono armati alla Marina,
la povera Rosina è prigioniera.
All'erta all'erta, che il tamburo suona.

Ella ascolta.
A un tratto s'apre la porta e appare il figlio, che si precipita verso la madre. La demente indietreggia, lo respinge quasi ed è presa da un riso convulso e sinistro. Poi s'irrigidisce e fisso lo sguardo nel vuoto cade pesantemente a sedere sul suo seggiolone.
Il figlio la guarda immobile.

L'EDIZIONE SCHERCHEN
PREFAZIONE DAL BOOKLET
CHE CONTIENE LE TRADUZIONI
IN INGLESE, E FRANCESE


Per ricordare il trentesimo anniversario della morte di Hermann Scherchen avvenuta il 12 giugno 1966 a Firenze, le Edizioni TAHRA hanno pubblicato in giugno un cofanetto in omaggio al grande direttore d'orchestra (rif. TAH 185-189). Tale omaggio prosegue con la pubblicazione del presente cofanetto il cui interesse è duplice: innanzitutto si tratta della prima registrazione mondiale discografica della trilogia di G. F. Malipiero, L'Orfeide, scritta tra il 1919 e il 1922; e in secondo luogo è l'ultima fatica del Maestro, che la diresse il 7 giugno 1966, solo 5 giorni prima della morte.
Questa registrazione inedita proviene dall'archivio storico della RAI. In considerazione della durata relativamente breve dell'opera (90 minuti), abbiamo voluto arricchire l'insieme con due interviste (realizzate con la gentile collaborazione del musicologo Goffredo Gori), una di Magda Olivero che interpreta il ruolo della madre pazza nella seconda parte (Le Sette Canzoni) e l'altra, del regista Gianfranco De Bosio, che oggi è Sovrintendente dell'Arena di Verona.
Pubblichiamo pure il ricordo del compositore Luigi Dallapiccola che assistette alla rappresentazione diretta da Scherchen. [...]

Myriam Scherchen e René Trémine
Luglio 1996





Je voudrais tout d’abord remercier toutes celles et tous ceux qui ont contribué d’une manière ou d’une autre à maintenir en vie la mémoire de Hermann Scherchen et surtout mon compagnon René Trémine avec qui j’ai pu commencer activement à rechercher, réunir et enfin publier beaucoup de choses. Un grand merci aussi à mes frères et sœurs qui m’ont fait confiance pour mener à bien ce vaste chantier car notre père était un homme aux mille intérêts, aux mille activités, aux mille idées et pour le connaître, il faut creuser longuement et faire quasiment oeuvre d’archéologue. Comme le dit si bien René Trémine, ce qu’on connaît actuellement n’est que la face émergée d’un iceberg.
Ce site se veut avant tout un point d’information sur l’état des activités et des recherches autour de Hermann Scherchen et un lien avec d’autres sites qui lui sont consacrés tel celui en langue danoise, de Peo Kindgren et de ma soeur Esther Scherchen et l’autre, en langue anglaise, de Diane Kunza.
Myriam Scherchen
Bezons, 29.VII.1999

[TRAMA DELL'OPERA INTERAMJENTE SOPPRESSA]

Nell'Orfeide, che permane l'atto di fede più forte e combattivo di Malipiero, regna una grande confusione di evocazione passista e di sperimentazioni futuriste, di colori esotici, di reminiscenze classiche, romantiche, simboliche e surrealiste. Le qualità tipiche della produzione teatrale dell'autore si manifestano nella partitura in maniera positiva: un'adorazione costante per la stilizzazione nuda, condensata e netta dell'espressione ed il disprezzo per tutto quanto è enfatico ed oratorio.
Scherchen era stato chiamato a Firenze per dirigere 3 rappresentazioni dell'Orfeide (quale prima integrale dell'opera a Firenze), il 7 e 8 giungo alle ore 21 e il 12 giugno alle ore 16, al Teatro della Pergola. Arrivò a Firenze il 29 maggio e si installò al Savoy. Aveva iniziato le prove il 30, con una prima giornata di 8 ore. Il 6 giugno, alla vigilia della prima, scrisse ai musicisti la seguente lettera in segno di stima e di amicizia:
«Stimati e cari professori dell'orchestra, prendo l'occasione dell'eccellente lavoro che avete fatto per Malipiero, per ringraziarVi ancora una volta per l'altissima qualità orchestrale dimostrata al pubblico di Firenze nel nostro concerto Mozart-Mahler.
Permettetemi di pregare ancora una volta: alla prima del 7. VI. (domani) di suonare leggerissimo, elegantissimo e con grande virtuosità - è il mio grande desiderio di creare con questa esecuzione un trionfale successo a questo grande maestro-compositore italiano che è il mio amico Malipiero.
Saluti, Amici
Hermann Scherchen»
Le critiche della stampa furono elogiose:

La Nazione, 8 giugno 1966: «Ieri sera Hermann Scherchen ha diretto l'intera Orfeide con un amore e una competenza davvero straordinarie, anche per lui che è senz'altro musicista-interprete di primo piano per bravura tecnica e capacità espressiva».

La Nazione Sera, 8 giugno 1966: «È stato veramente un grosso spettacolo. Hermann Scherchen, specialista della musica contemporanea, ha diretto con appropriatezza e con incisiva determinazione, dando spazi sonori assai cangianti; nitidi, elegiaci, frizzanti, umbratili.»

Il Giornale del Mattino, 8 giugno 1966: «Merito e accortezza di Luciano Alberti, direttore artistico del Maggio, è l'avere affidato una così complessa e rappresentativa partitura al direttore Hermann Scherchen i cui meriti nel campo della musica moderna non si contano più. (...) Raramente abbiamo notato in un concertatore e direttore un altrettanto amore sviscerato, un'attenzione puntigliosa e minuziosa nel rilevare tutte le bellezze nuove e anche non nuove dello spartito, nel sostenere con un'orchestra intensa ma non ingombrante o turgida il declamato melodico delle voci (...). Ancora una volta dobbiamo dire che quando sul podio c'è un direttore della tempra e della sensibilità così particolare come Scherchen, l'orchestra del Maggio sa suonare come gli angeli. (...) La compagnia di canto è tutta degna di elogio. Fra i cantanti la palma spetta naturalmente a Magda Olivero che ha tratteggiato il piccolo ma bellissimo personaggio con rara maestria e straordinaria suggestione.»
Il Messaggero, 8 giugno 1966: «Esecuzione ottima, più che encomiabile, guidata da Hermann Scherchen, un direttore che ha vissuto in pieno il mondo musicale dei primi decenni del secolo XX. Con lui tutti hanno filato a meraviglia, mostrando l'unità assoluta dello spettacolo.»

L'Unità, 8 giugno 1966: «Innanzitutto un elogio particolare a Hermann Scherchen, che ha saputo con la profonda preparazione e musicalità che in lui ammiriamo, mettere in luce ed interpretare giustamente la partitura malipieriana. (...) Ecco un artista nel vero senso della parola, che sa disporre e riunire con accorta sagacia le varie parti di un gioco complesso e sottile. Il regista Gianfranco De Bosio ha saputo restituire lo spirito dell'opera con vivo senso poetico e intensa partecipazione alle intenzioni espressive dell'autore, tratteggiando con mano sicura le situazioni drammatiche e dando nuovo impulso a quelle più tipicamente satiriche, specie là dove l'ironia appare più disarmata ed ingenuamente abbozzata. La coreografa Susanna Egri è riuscita, a sua volta, a muovere con spontanea vivezza e scioltezza di movimenti i numerosi personaggi dell'opera».

Momento Sera, 8 giugno 1966: «Esecuzione splendida dal punto di vista musicale, guidata da Herinann Scherchen, che ha disegnato con stringata asciuttezza e con qualche punta acida La Morte delle Maschere, mentre nelle Sette Canzoni ci ha dato un'altra prova della sua illuminante interiorizzazione del timbro, nella staticafissità dei pianissimi.»
Il compositore Luigi Dallapiccola era presente pure lui alla prima del 7 giugno: « durante l'intervallo che seguì le Sette Canzoni, incontrai due professori dell'orchestra coi quali volli rallegrarmi per la rarissima, preziosa esecuzione. «Ma che cos'ha quell'uomo questa sera?» mi domandò l'arpista, con un'ammirazione da cui traspariva inquietudine. «È come se intorno al suo capo ci fosse una strana luce ...». Proprio durante l'intervallo il Maestro era stato colto da svenimento. Scivolato dalla seggiola, era caduto in terra battendo pesantemente il capo e così era rimasto per vari minuti sino a che qualcuno, per caso, non era entrato a soccorrerlo. Poco dopo Hermann Scherchen riappariva sul podio, salutato da un'immensa ovazione; per dominare la terza parte della trilogia malipieriana come aveva fatto per le due precedenti, in modo totale, indiscutibile. Il suono vi era calibrato con una finezza che aveva del diabolico. Il direttore non si presentò al pubblico. Intanto cominciarono a circolare delle voci: che il maestro si era sentito male, che un medico, nella saletta degli artisti, gli aveva praticato un'iniezione corroborante. Potei vederlo un attimo soltanto, sulla strada, mentre stava per salire in automobile. Era di un pallore impressionante: gli stesi la mano, mormorando «grazie». Mi rispose abbracciandomi. Nei giorni che seguirono, si ebbero notizie vaghe: nulla trapelò, ovviamente, di quanto i medici avevano trovato. Si seppe che il malato aveva dettato due lettere, una al sovrintendente Remigio Paone e una all'orchestra, per ringraziare tutti i suoi collaboratori della splendida serata. Scherchen si era accorto, evidentemente, che i più sensibili fra i professori d'orchestra avevano veduto quella «strana luce» che emanava da lui e che da quella luce si erano lasciati guidare. Sabato, 11 giugno, per tre quarti d'ora potei parlare col Maestro al suo albergo. Era sollevato, per quanto stanco. Mi domandò se avessi notato come il suo gesto fosse ormai ridotto al minimo, all'essenziale... contava di riposare per due mesi, a Gravesano. Dopo di che avrebbe ripreso la sua attività. Aspettava con ansia il mese di gennaio, per poter fare la sua prima esperienza «con la meravigliosa orchestra di Chicago». Ritornai a casa con la convinzione che all'indomani lo avremmo veduto sul podio, per la rappresentazione pomeridiana dell'Orfeide. La sorte decise altrimenti.»
La moglie del direttore doveva raggiungerlo con due dei cinque figli. Prima del suo arrivo, Hermann Scherchen le scrisse il 6 giugno quest'ultima sua lettera: «Pia amatissima, mancano ancora tre giorni alla tua venuta (...) Son riuscito a dare a Malipiero una seconda vita e anche se ho sbagliato ad impormi questo compito, esso trova la sua ragione d'essere quando riesci a ridare a qualcuno che la corsa pazza del tempo sembra aver trasformato in uno "zombje" (ossia invecchiamento erroneo) il suo vero essere. (...) Domani - nonostante la prova generale di ieri - ho dato appuntamento alle dieci per un ultimo lavoro di rifinitura e di «pulitura» con i cantanti - questo per Malipiero. (..) ORA DEVO TENER DURO ANCORA 6 INTERI GIORNI ma ci riuscirò (...),
Sei giorni più tardi - il 12 giugno, che era anche compleanno di sua moglie - Scherchen morì stroncato da un infarto. Lo stesso giorno, ancora per una strana coincidenza, la CBC canadese trasmise l'Arte della Fuga in una registrazione che Scherchen aveva realizzato sette mesi prima a Toronto.*

*Pubblicato da TAHRA, rif TAH 108-109