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L’eternità del fauno

L’8 aprile di cinquant’anni fa moriva un artista che a inizio Novecento ha scardinato il passato: come coreografo, Nijinsky percorse una strada in un certo senso troppo ardua da seguire per molti contemporanei, ardua al punto che egli avrebbe dovuto trovare collaboratori musicali più remissivi, disposti a seguirne docilmente le intenzioni: la sua danza intendeva mettere in rilievo l’unità fondamentale sottesa a tutte le arti.

Definire “difficili” i rapporti di Nijinsky con la musica rischia di essere un garbato eufemismo. Già di per sé problematici e tormentati furono i rapporti con i quattro capolavori per i quali fu l’autore delle coreografie, L’Après-midi d’un faune e Jeux di Debussy, il Sacre di Stravinskij e Till Eulenspiegel di Richard Strauss; ma addirittura catastrofici, percorsi dal filo rosso di velenose gelosie furono quelli con i musicisti – intendiamo quelli con due compositori della statura di Debussy e di Stravinskij. D’altra parte una riflessione sulla sua coreografia alla luce del dialogo con la musica – e a nostro avviso fu un dialogo illuminato da parecchi lampi di rivoluzionaria genialità – non può prescindere dai rapporti personali con questi due compositori, perché il loro ostentato disprezzo verso il giovane danzatore ha avuto un peso non trascurabile nell’oblio – crediamo ingiusto – al quale le sue creazioni sono state condannate per decenni.
Si veda cosa scriveva Debussy a proposito del lavoro di Nijinsky per Jeux: «Quest’uomo [che] conta le terzine di crome con i piedi, che fa le prove con le braccia, colpito da un’improvvisa paralisi, osserva lo scorrere della musica con occhio malvagio… Dicono che ciò si chiami “stilizzazione del gesto”… È un contadino!». Se per la sua prima coreografia, quella per il Fauno, si può invocare ad attenuante alle critiche lo scandalo provocato dalla sequenza del coito con la sciarpa mimato in scena, nei casi del Sacre e di Jeux le accuse lanciate contro di lui – incompetenza musicale, dilettantismo – sono più che imperdonabili: sono false. La realtà è che Nijinsky realizzò, in particolare nel Sacre, una rivoluzione coreografica di valore forse non inferiore alla strepitosa novità della partitura. Lo ha dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio il lungo e rigoroso lavoro di ricostruzione della coreografia da parte di Millicent Hodson, portato a termine non prima degli anni Settanta. Ma allora perché Stravinskij lo tacciò di analfabetismo musicale? A smentirlo basti dire dell’esistenza di una fotografia che ritrae Nijinsky che suona il pianoforte a quattro mani con Maurice Ravel. Crediamo che l’ostilità di Stravinskij abbia avuto due ragioni. Una è, banalmente, il desiderio di una coreografia più semplice e maneggevole di quella estremamente complessa di Nijinsky (che invece costringeva a estenuanti prove i perplessi danzatori), e tale da mantenere l’attenzione concentrata sulla musica. Un desiderio, a sua volta, che ha una spiegazione ben più profonda. Ed è che la poetica coreografica di Nijinsky, aspirando a farsi carico essa stessa delle proverbiali complessità poliritmiche della partitura, non poteva che apparirne una radiografia analitica, una rilettura della musica che, invece di seguire percorsi alternativi, cercava troppo esplicitamente di mettersi al suo stesso livello, di procedere in parallelo. L’altra ragione dell’ostilità di Stravinskij, a sua volta connessa alla prima, risale allo sconcertante estremismo primitivistico della coreografia del Sacre. Laddove il compositore restava comunque legato a un’idea apollinea di bellezza, e a un primitivismo per così dire “stilizzato”, Nijinsky coglie invece la brutalità della Russia pagana senza infingimenti, in presa diretta, manda in frantumi qualsiasi crisma di eleganza gestuale con scelte di violenza quasi espressionista, facendo muovere gli interpreti alla stregua di rozzi e selvaggi manichini con i piedi all’indentro, la schiena curva. Perciò Stravinskij deve aver senza dubbio ritenuto che la versione di Nijinsky sarebbe riuscita alquanto fuorviante rispetto alle proprie autentiche intenzioni espressive, intrise in quel caso di aspro vitalismo ma pur sempre e comunque dettate da un credo “formalistico”. A posteriori, proprio sulla base dei veri motivi dell’ostilità di Stravinskij, si può intuire quanto Nijinsky fosse genialmente in anticipo sui propri tempi.
Come coreografo, Nijinsky percorse una strada in un certo senso troppo ardua da seguire per molti contemporanei, ardua al punto che egli avrebbe dovuto trovare collaboratori musicali più remissivi, disposti a seguirne docilmente le intenzioni. Prova ne sia che la sua è una poetica essenzialmente sinestetica: la sua danza intende mettere in rilievo l’unità fondamentale sottesa a tutte le arti. E tale fondamento – grazie all’influsso delle ricerche svolte in questo senso da Dalcroze – egli lo trovò nel ritmo, lo spirito, l’unità di misura comune, capace di animare in sincronia il movimento della danza e della musica. La semplice ma troppo grande rivelazione contribuì a condannarlo a un’ingrata solitudine. La sua coreografia del Sacre venne eseguita 8 volte in tutto, 5 a Parigi e 3 a Londra! Forse per questo scrisse nel suo Diario: «Noi siamo tutti dei ritmi solitari…».

Michele Porzio, p. 20

Magnetico dionisiaco ambiguo Nijinsky

Vaslav Nijinsky è il sole che brilla una manciata di stagioni nel cielo dei Ballets Russes di Djagilev. Ma con tanta intensità da monopolizzarne il mito, passare alla storia come il più grande danzatore di ogni epoca e proiettare la sua luce in avanti. Fino a Rudolf Nureyev, i cui comportamenti artistici e umani non possono trovare che in lui l’unico precedente. O modello.
Flash estemporanei rendono Vaslav alle nostre emozioni. Ecco l’abbandono dionisiaco e il magnetismo, ecco lo stupore del ballon – la capacità di restare sospesi durante il salto – e l’ambiguità che veste di membra maschili una natura femminile. Ecco l’esaltante frustrazione che ispira ruoli per chi è o vuole essere psicologicamente schiavo: lo schiavo bianco di Armida, quello nero di Cleopatra, quello d’oro di Shéhérazade. Quello che imprigiona le linee nel legno del burattino Petrushka e l’altro che consegna l’anima all’istrionismo del burattinaio Djagilev.
La leggenda dell’interprete offuscherà per anni le sconvolgenti intuizioni del coreografo. Rivalutato appieno solo oggi e investito di significati che trascendono lo specifico.
Un lampo, le sue coreografie, quattro in quattro anni: l’Après midi d’un faune del ’12, Jeux e Sacre du printemps del ’13, Till Eulenspiegel del ’16. Tutti, eccetto il Faune, titoli dapprima caduti e poi variamente recuperati. Specie dalla passione filologica di Millicent Hodson e Kenneth Archer che nell’87 consegnano Sacre al Joffrey Ballet e nel 93 Till Eulenspiegel all’Opéra di Parigi.
Jeux, terzetto di tennisti, vive nella trasgressione di un tema saffico cui avrebbe dovuto essere contraltare la danza di Vaslav sulle punte: non fu possibile osare tanto. Le figure di profilo e le gambe parallele prese dalla pittura vascolare greca sottraggono a qualsiasi consuetudine il Faune. Dove lo sconvolgente autoerotismo di Vaslav che penetra il velo della ninfa fuggita fa sobbalzare la cattiva coscienza delle platee.


Il corpo del Sacre

Ma il lavoro che, oltre a determinare a Parigi un pittoresco parapiglia (la folla rumoreggiante, Nijinsky in quinta che batte il tempo con i piedi, Stravinskij che se la svigna mentre Djagilev supplica il pubblico di permettere lo svolgimento dello spettacolo) si impone per l’impressionante modernità coreografica, è il Sacre. Cioè l’uso dell’en dedans, le posizioni contorte, la fatica evidente, i balzi a gambe tese, lo scordinamento tra parte superiore e inferiore del corpo, il ripudio della centralità scenica, la contemporaneità di azioni differenti, il rapporto dialettico musica-danza, la visualizzazione dei postulati teorici centroeuropei (nel ’22, in Die Welt des Tänzers, Rudolf von Laban attribuisce a Nijinsky un contributo fondamentale al definirsi delle proprie concezioni). Insomma la “destrutturazione”, come si direbbe alla luce dell’opera del nume postmoderno Merce Cunningham e del post-classico Billy Forsythe.
Ecco, il Sacre. Un passaporto regalato a chi certo era stato nuovo e ansioso di nuovo. E, direttamente o tramite gli artisti plasmati dai Ballets Russes, aveva indicato il nuovo ai teatri del mondo.
Se Djagilev insomma era colui che apriva una strada, Nijinsky è il cosmonauta che sbarca nello spazio senza nome del futuro. E motiva, con argomentazioni tangibili, atteggiamenti e curiosità che potrebbero per paradosso anche essere consegnati all’effimero della moda.

Elsa Airoldi, p. 20-1

I Diari: corpo di parole, specchio di un tempo

A cinquanta anni dalla morte di Vaslav Nijinsky è difficile dire se il personaggio ci affascini ancora perché splendido interprete, stupenda star dei Balletti Russi, infinite volte ritratto in foto, dipinti e porcellane. Oppure: lo si dovrà ammirare per la nuova immagine del danzatore che offriva allo sguardo del pubblico parigino? Non più semplice accompagnatore della ballerina, ma neppure soltanto danzatore maschio protagonista, invece incarnazione di una nuova immagine del ballerino, più ambigua se si vuole, implicitamente omosessuale, che officiava in scena un rito nuovo dando vita a creature poeticamente asessuate come lo Spettro della rosa, o di prepotente sensualità come lo schiavo d’oro di Shéhérazade, ma sempre al di fuori della norma. Lo dobbiamo, forse, ancora, collocare sull’altarino dei padri della danza del ‘900 perché almeno due titoli, La sagra della primavera e Il Fauno, sono miti fondanti della danza del Novecento? O è la sua avventura umana così drammaticamente spaccata a metà che ce lo rende vicino, che ne fa un protagonista della modernità?
Certo è un mito carico di fascino Nijinsky il folle, che racconta se stesso nei Diari, che a 29 anni, nel volgere di poche settimane, dal 19 gennaio al 4 marzo del 1919, apre una ferita dalla quale sgorga un fiume di parole inarrestabile che viene a dividere nettamente in due la vita del danzatore. Da una parte il movimento, il gesto, la danza che caratterizza la prima metà della sua esistenza, dall’altra il silenzio e la quasi immobilità in cui trascorrerà i successivi 30 anni. Il fatto che poi di quei diari si sia conosciuta una versione addomesticata e che solo negli ultimi anni sia venuta alla luce la versione non censurata dalla moglie Romola, conferisce ulteriori stimmate di vittima alla figura del danzatore: Adelphi ha pubblicato i diari a febbraio, mentre l’anno scorso negli Stati Uniti è uscita una edizione che comprende anche l’ultimo quaderno, inedito, quello delle poesie e delle lettere.
Ed è proprio lì, in quelle pagine, da quell’ossessionante gorgo verbale che emergono le figure e i temi che segnano la vita di Nijinsky: la madre, Djagilev, la moglie Romola, il talento per la danza, dono di dio. La madre, danzatrice, abbandonata dal padre, è costretta a una vita di stenti con tre figli, Stanislao, Bronislava e Vaslav. Stanislao impazzisce e finisce i suoi giorni in manicomio. Vaslav e Bronislava sono avviati alla scuola imperiale di danza per apprendere l’unico mestiere che in famiglia si conosca. Studiare e lavorare per alleviare le pene della madre. Scendere ad ogni compromesso con la vita pur di poter dare un aiuto in casa. È così che Nijinsky giustifica le proprie relazioni omosessuali, prima con il principe L’vov e poi con Djagilev. Ma l’attrazione per le donne non è mai venuta meno: eccolo allora raccontare la sua caccia alle cocottes per i boulevards di Parigi.
Il rapporto con l’amato e odiato Djagilev, creatore della sua fortuna artistica, ma anche padrone capriccioso della sua vita, come il Mago per Petruska, è da manuale di psicoanalisi. Il personaggio è evocato in tutta la sua grettezza e il suo squallore. Si tingeva i capelli e lasciava i segni grassi di quella tintura sul guanciale del letto che divideva con Nijinsky. Sognava di amare contemporaneamente due ragazzi e queste fantasie erotiche, confessa il danzatore, sono alla base di Jeux, uno dei primi balletti di argomento sportivo (ma anche gay) della storia della danza che racconta i flirt incrociati di tre tennisti, un ragazzo e due ragazze.
Il matrimonio con Romola, la nascita della figlia Kira, la rottura traumatica con Djagilev, l’espulsione dai Ballets Russes, l’esperienza devastante della Prima Guerra Mondiale sono uno choc multiplo che mette a dura prova la mente del ballerino.
Sino ad allora aveva espresso se stesso nella danza. Fuori dal palcoscenico sembrava un essere insignificante. Spesso dileggiato dagli altri artisti della compagnia per la sua pochezza intellettuale, descritto come poco più di un minus habens da Cocteau, Nijinsky era sicuramente un talento che comunicava con il mondo esclusivamente con il linguaggio del corpo, che solo nei suoi ruoli trovava un compimento di sé stesso. Di qui la stupefacente realtà che sapeva comunicare all’irreale. Igor Markhevich, il direttore d’orchestra che sposò la figlia Kira, e conobbe il danzatore negli anni ‘30, ormai sprofondato nella sua follia, ha ricordato una conversazione avuta con Jung a proposito di Nijinsky: «Jung sosteneva che la sua intelligenza, fuori della danza, dove si trovava sovranamente a proprio agio, mancava di preparazione filosofica e dialettica, insomma degli “strumenti”, per dominare il suo problema personale. Ne seguì una frustrazione profonda, quando le circostanze, e soprattutto la guerra, interruppero la sua carriera». Jung riassumeva la sua opinione in una formula sconvolgente: «L’esperienza che ha vissuto era troppo grande per il suo contenitore. È andato in mille pezzi come un vaso». E i pezzi di questa esplosione sono le pagine del diario, del quale ha scritto il critico Daniel Gesmer sul “New York Times”: «Scriveva rapidamente con l’idea di pubblicare il libro, ma parte del suo interesse era semplicemente tenere la penna in costante movimento, registrando fedelmente il suo flusso di coscienza, a scapito dello stile e dell’intelleggibilità. E qui Nijinsky era al passo con l’avanguardia del suoi tempi; si pensa a James Joyce, Virginia Woolf, Gerturd Stein».

Sergio Trombetta, p. 21

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