RENATO MARIANI

I SETTANT'ANNI DI MALIPIERO

VERISMO IN MUSICA
OLSCHKI 1976


Per Gian Francesco Malipiero, che compie oggi settanta anni, non saprei rintracciare, in un quarantennio di fitta attività, né i segni di una condiscendenza stilistica alle avventure estetiche europee del nostro secolo, né la presenza di riuscite più complete se in ordine ad elementi costitutivi estranei al suo mondo poetico. Come dire ch'egli ha agito con rettilinea fermezza, per decenni, attraverso le svariate formule della propria fantasia d'artista. Come dire che al suo linguaggio, quale che fosse, non ha creduto di sovrapporre le varianti e gli orpelli che avrebbero potuto essere una mistificazione anche allusiva e convincente. Malipiero è restato ostinatamente fedele a se stesso. E gli invidi - coloro che volentieri gli avrebbero rimproverato un oscillante adeguamento al giuoco, non privo d'interesse, delle tendenze e degli orientamenti - seguitano ad accusarlo, indirettamente, di uniformità e di stanchezza. È il destino di Malipiero: un destino singolare, pur col beneficio innegabile di equivalente assenso e di viva simpatia da parte di certo ambiente qualificato.
Eppure non direi che un esame di coscienza nei confronti del musicista veneziano possa apparire, oggi, superfluo e scontato. Eppure mi sembra che la sua fisionomia artistica esiga, anche adesso, un approfondimento e alla simpatia sostituisca l'ammirazione e al consenso il convincimento.
Guardate. Da un lato la notorietà di Malipiero è considerata, oggigiorno, un fatto di rendita, come il congruo retaggio di quanto il compositore ebbe a conseguire nei suoi anni presunti e ritenuti più felici. Dall'altro tale profitto appare ad alcuni quasi un velo che impedisca l'affiorare di nuove e più vive situazioni musicali. Due constatazioni, queste, tanto attendibili se esaminate superficialmente quanto del tutto vacue se riscontrate al metro della realtà dell'indole malipieriana. Agli esordi ormai lontani del 1910 circa la fisionomia del musicista si rivelava compiuta e convinta più o meno quanto adesso. Non avrebbe potuto mutarla un addestramento - di mestiere, di tecnica, di applicazione - dal quale esulava, per categorico dato di fatto di carattere, la psicologia del compositore.
Non avrebbe potuto alterarla la considerazione di fattispecie estetiche comunque provenienti da fonti ispirative estranee alla poetica malipieriana. Non avrebbe potuto manometterla, tanto meno, un qualsivoglia sconvolgimento dovuto alle numerose crisi (linguistiche, stilistiche, formali) perfin troppo velocemente susseguitesi nell'ultimo trentennio. E allora? Malipiero nasceva con una propria natura talmente sottile e capillare - ancorché talvolta evasiva e quasi svagata - da risultar capace di eludere e scontare, in partenza, gli scarti, le attrattive e le peripezie che sogliono affiancarsi alla maturità, alla consapevolezza, al nome. S'intende che questa fortunata situazione nativa comportava un assillo tutto interiore che concerneva Malipiero artista, nella sua intimità creativa, e Malipiero musicista al quale risultava riferibile una ripercussione esteriore. Come dire l'assillo della propria poetica.
Anche il compositore, ai suoi inizi, con altri colleghi della sua generazione, fu indotto a rifuggire, forse per un pudore ed un'incompatibile tenerezza psicologica, dalla parola musicale in auge: ciò che il costume musicale nostrano della fine dell'Ottocento aveva brillantemente consacrato nell'avventura melodrammatica postverdiana. Era uno spregiudicato ottimismo che celava (ed oggi possiamo accorgercene meglio di qualche anno fa) una scontentezza ostinata, un dubbio amaro, una inappagabile perplessità. Il problema formale diventò, dunque, il contraltare dell'intima spina romantica, dell'inattutibile spinta patetica che pur urgeva in ossequio alla temperatura determinata dal rispondente operato della generazione di poco precedente, accreditata e seguita. Ed ecco allora Malipiero alla ricerca interiore di una conciliazione dei due moventi. Eccolo attendere alla sagomatura formale - più conseguente nell'etichetta anziché nella sostanza - di una materia melodica fondamentalmente tradizionale, praticamente tratta, filtrata e alleggerita dal blocco delle precedenti esperienze musicali.
Ci si stupisce, tanto per menzionare un caso, che la delicatezza canora di S. Francesco d'Assisi - composto nel 1920, ma ancor oggi considerabile quale una delle riuscite più compiute - potesse indurre - al primo apparire della composizione - a dissensi critici che oggi si rivelano ingenui e forse ridicoli. La cantabilità malipieriana era, appunto, un dono naturale e incomprimibile (ancorché lo stesso autore abbia invano tentato qualche volta erroneamente di toglierselo di dosso) che implicava immancabili rivincite oltre la miopia degli indagatori e certe impazienze dei musicista stesso. Forza e capillarità della medesima resistettero sia alla varietà delle applicazioni e dei procedimenù formali adottati dall'autore sia alla fecondità del musicista che alle volte potevano incrinarne o appannarne il discernimento e l'istanza poetica.
La natura musicale di Malipiero è soprattutto un fatto di singolare cantabilità che s'impone quale retaggio durevole ed attivo di una fede romantica. Il compositore si prova e si riprova; e resta fortunatamente se stesso. Le sue proficue curiosità letterarie lo inducono allo studio di forme metriche nostrane popolaresche ed auliche, patrizie ed accademiche. Ad esse ama saldare - per via di analogie, di rapporti, d'intuizioni e di giustapposizioni - i nessi, i sedimenti, i combusti residui di siffatta cantabilità. Ecco le migliori tra le non poche sue composizioni strumentali. Ecco - in Rispetti e strambotti, in Cantari alla madrigalesca, in Ritrovari, in Epodi e giambi - quel suo preludiar rapsodico, talora perfino irrispettoso di determinate esigenze dei singoli strumenti impiegati, quel suo malinconico cantilenare che limita a segni incisivi i tratti tipici di un'indole musicale.
L'idea musicale non è mai sentita da Malipiero come una fonte germinativa conseguentemente modellabile in ordine a richieste formali. La forma si esaurisce, nel miglior caso, nel titolo della singola musica. Nella sostanza si tratta di spunti, di motivi, di figurazioni che la fantasia del musicista non vuole inguainare ed incapsulare entro svolgimenti precisi. Un tematismo malipieriano è un controsenso. Oppure è un'inventiva estrosa e cantante che cangiantemente si adegua e si contrae, si espande e si raccoglie senza precisazioni, in ossequio ad uno stato d'animo, ad un clima patetico che consente, tutt'al più, qualche riminiscenza ciclica, qualche ricomparsa del proprio impulso iniziale. Questa fluida materia, che spesso non trova posa neppure nell'ostinato trattamento strumentale pur originariamente qualificato, s'accompagna, nell'immaginazione di Malipiero, a situazioni che sembrerebbero «autobiografiche», a ravvedimenti umani che esigono, a un certo momento, la giustificante del testo.
Se vorremo ricordare, tra le pagine più pure ed azzeccate, Sette invenzioni e più d'una delle numerose «sinfonie» (la terza, ad esempio, detta «delle campane» o la più recente - crediamo - che ha quale sottotitolo «come il tempo che fu») dovremo convenire, per amor di logica, che l'autore non resiste al fascino di offrire all'ascoltatore quel fugace cenno riferitivo in cui egli concentra e condensa, appunto, l'apporto patetico, quale che sia, da cui è sòrta l'immagine musicale, da cui ha il primo prorompente sfogo la sua inventiva. L'autobiografia musicale di Malipiero è, tutta qui, sezionata nelle sue molteplici composizioni. Ogni lavoro strumentale o sinfonico sembra segnarne un momento. È un'autobiografia riluttante e reticente, pensosa e pudica che predilige l'insistenza in un assiduo e prolungato motivo contraddistintivo (ossia la patina costantemente amara e malinconica, autunnale e rapsodica della cantabilità), rifuggendo da annotazioni definitive e circostanziate, da delucidazioni evidenti e complete. Capire questa psicologia malipieriana, prendere atto di un tale comportamento (cioè di un analogo operato estetico) vuol dire scandagliare la personalità del musicista con la soddisfazione di amarne intensamente la verità più riposta e appartata.
Direi che alla base della cantabilità di Malipiero vi è il motivo del dolore sentito non già con cruda e repentina definizione d'accento ma, piuttosto, con pensierosa ed inappagabile malinconia. Le figurazioni musicali non mortificano mai l'alto compito trascendentale (Missa pro mortuis, La Passione, Santa Eufrosina); sostano a frugare poeticamente, con una fragranza fresca ed antica al tempo stesso, i più intimi recessi del fantasticare patetico. Si ponga mente a Sette canzoni: il più geniale saggio nostrano di quanto l'opera in musica ci ha dato negli ultimi tempi. Qui - come in Torneo notturno - Malipiero non ha avuto perplessità; è andato diritto allo scopo, allineando una serie di figure raccattate da quell'altisonante anonimato sentimentale più vero ed efficiente di tanti panneggi regali o mitologici, esotici o folclorici, storici o leggendari. E pronunzia parole definitive proprio perché la recondita e sottile venatura inelodica dei procedimenti cantabili s'accorda, in piena rispondenza patetica, in coincidente comunione emotiva con i profili sentimentali tratteggiati per cenno veloce ed efficace, per scorci più impegnativi della distesa e dilungata proiezione psicologica.
I personaggi di Sette canzoni sono individui di ogni tempo, che cantano passioni e patimenti congeniti all'esistenza terrena: siamo noi stessi. trasferiti in una realtà effettiva oltre gli accorgimenti e le fittizie artefazioni in cui, piaccia o no, il caso ci avviluppa. Sono i degni fratelli di Turiddu e di Lulù, grandi proprio perché capaci di fissare singoli sentimenti non già in una raffigurazione nazionale, vuoi nostrana che forestiera, ma entro un ambito espressivo che appartiene a tutti, che è di tutti, per un pessimismo e per un'amarezza che non si raccomanda, fortunatamente, ad un'evenienza circostanziata, ad una disavventura provvisoria e fortuita. La musicalità metrica dei testi popolareschi prescelti, la cadenzale stroficità della verseggiatura poetica tratta dal patrimonio nostrano quattro-cinquecentesco non vanno considerate come fatto culturale al quale agganciare e saldare un freddo proposito di riallacciamento spirituale. La parlata di siffatte creature nasce dalla posizione sentimentale delle medesime e resterebbe inalterata se il metro poetico fosse di altra epoca e d'altra origine.
L'ispirazione di Malipiero, dunque, nasce da una insoddisfazione, non saprei dire se in lui consapevole o no, tipicamente romantica. Dove la qualificazione estetica non vuol essere il contrapposto di una condizione spirituale ritenuta antitetica ma, semplicemente, l'impronta genuina e improrogabile, necessaria e determinata che indica la presenza e il rigoglio di una natura artistica. A Malipiero settantenne non dovrebbe dispiacere, oggi, un'opinione siffatta, sincera e ponderata, che oltre le effimere infiammate e le non disinteressate adulazioni ama e intende additarlo, poiché spiritualmente e veramente artista, quale esempio significativo, grato e durevole nel confuso e apatico disorientamento d'oggidì.

[« Il Mattino », 18 marzo 1952]