MARIO LABROCA
RESPIGHI CORDIALE E SOLITARIO

L'USIGNOLO DI BOBOLI

Quando Ottorino Respighi giunse a Roma chiamato alla cattedra di composizione del Conservatorio di Santa Cecilia, un nome se lo era già fatto. Non che la polemica fosse viva in quegli anni che precedettero la prima guerra mondiale, ma il nome se lo era fatto anche grazie a quel poco di polemica che allora fioriva; perché bastava in quegli anni che un compositore si buttasse a scrivere sonate, sinfonie, quartetti, ecc. perché il sospetto dell'eresia lo circondasse. Chi si allontanava dal teatro o anche solo chi batteva altre strade oltre quelle teatrali, era segnato a dito, come un traditore della causa italiana, della tradizione italiana, della gloria italiana (a quei tempi le parole causa, tradizione, gloria, erano i colori retorici dominanti nel nostro Paese); ed infatti fama di eretici musicali ebbero Martucci, il buon Sinigaglia, e tutti quanti vollero e seppero coltivare altri generi musicali che non fossero il melodramma o l'opera in musica.
Respighi per giunta aveva scritto qualche cosa che era fuori dall'uso allora comune, era reduce dagli studi compiuti in Germania e in Russia, parlava quattro o cinque lingue, compreso il russo; era già un po' il tipo del musicista dell'avvenire, non più chiuso nei palcoscenlcì delle città italiane, ma affacciato su tutto il mondo, conoscitore dei movimenti che allora già si profilavano e della vita musicale che si svolgeva fuori d'Italia. Ce n'era abbastanza perché anch'eglì entrasse nel ristretto numero delle persone cui il rispetto era dovuto, anche se il rispetto, che era devoto e assoluto per figure di nessuna importanza, era nel caso di Respighi contenuto dal sospetto.
Ricordo che subito a Roma si cominciò a parlare degli allievi di Respighi, della classe, delle lezioni che si svolgevano in una atmosfera dove la disciplina e l'arte si erano felicemente armonizzate, e mio vivo desiderio fu quello di avere Respighi come maestro. Intanto durante la guerra le nuove composizioni di Respighi avevano ricevuto accoglienza trionfale e il suo nome correva già rapidamente, sicché era diventato tra i più noti e celebrati di quel periodo; per queste ragioni anche alla porta di Respighi bussai con timidezza reverenziale.
Respighi era allora sposato da poco con Elsa ed abitava in due stanze in via Pietro Cossa nel quartiere di Prati; in quelle stanze ebbero inizio le mie lezioni che continuarono in via Nazionale dove il Maestro ed Elsa ebbero la loro vera prima casa romana piena di bei mobili bolognesi. Le lezioni erano profonde e luminose nello stesso tempo: entravamo nel vivo degli studi pratici quali il contrappunto, la fuga e le varie forme di composizione, per sfociare in discussioni intorno al divenire del linguaggio, alle nuove espressioni ed alle nuove correnti che proprio allora entravano a contatto del pubblico che si ritrovava, sorpreso, davanti a un mondo diverso da quello solito.


Due principii vidi rigorosamente applicati da Respighi: quello di non influenzare l'allievo e quello di non fare dell'allievo un seguace. Ed erano i pilastri sui quali egli basò l'isolamento nel quale volle vivere. Non che egli chiudesse la sua esistenza nei chiostri dell'anacoretismo, ché egli anzi nel mondo ci stava.

Il periodo del dopoguerra fu felice per l'arte di Respighi, e, come tu vedi, fu felice anche per quanti lo vissero intensamente con la coscienza di essere nel pieno di estetiche problematiche, di evoluzioni e di rivoluzioni, di tormenti e di incertezze eccitanti a contatto delle innumerevoli figure di musicisti, di critici, di esploratori e di organizzatori che lo animarono.

Respighi sorridente e accogliente ma sempre un po' chiuso in sé, osservatore allegro se pure qualche volta pungente, volle essere di quel mondo pur riservandosi una uscita di sicurezza, quella che gli permetteva di isolarsi tutte le volte che lo voleva. Isolarsi non è facile e il farlo è dimostrazione di forza d'animo e di carattere eccezionali ovvero anche di egoismo. Respighi volle e seppe essere un isolato perché convinto di poter sostenere da solo il cammino che aveva scelto. Fu un isolato pur vivendo nel mondo di tutti, pur partecipando, a braccetto di chi gli era vicino in quel momento, alle discussioni di tutti, alle feste di tutti, alle gioie ed alle preoccupazioni degli altri; tuttavia ebbe l'arte di ritirarsi a tempo, non appena avvertiva che il cenacolo tendeva a diventare associazione, la discussione a scivolare sulle parole inutili dell'accademia; e perciò fu estraneo ai gruppi, si tenne lontano dai comitati, non entrò nel vivo delle organizzazioni: scrisse musica, insegnò, diresse e suonò le proprie composizioni; e tutta cotesta attività la svolse senza ascoltare il parere degli altri, senza dare alla critica un'importanza determinante, salvaguardandosi dal pericolo delle influenze o delle soggezioni dannose. Eppure cotesto isolamento aveva una punta amara; i giudizi di Respighi sul mondo musicale contemporaneo erano quasi sempre brevi e taglienti. Sentivi in lui non tanto la volontà di cercare i punti di contatto con i compositori del suo tempo quanto il desiderio o forse addirittura il bisogno di mettere rapidamente in luce quanto da essi lo divideva.

L'apporto di Respighi alla vita musicale di oggi fu perciò soprattutto un apporto di opere: ma anche i suoi consigli diedero contributo alle attività ed alle iniziative di quel periodo. Ricordo che più di una volta, negli anni immediatamente precedenti la sua morte io mi recai in via della Camilluccia nella sorridente villa dei Pini per sentire cosa egli pensasse delle leggi che si andavano studiando per assestare i teatri, dare ordine alla vita musicale. Le sue parole erano di conforto per chi tentava di migliorare e di perfezionare; le sue critiche furono ascoltate e valutate sicché può dirsi che anche in tante istituzioni che oggi per nostra fortuna ancora esistono c'è qualcosa dei consigli di Ottorino Respighi.

Fu anche cotesto un apporto prezioso, fatto di cose e non di parole. Perché Respighi non parlava molto: ascoltava con piacere e riassumeva il suo pensiero in poche parole: lo concentrava nella essenzialità e non si perdeva in illustrazioni superflue. Quando scendevo da via della Camilluccia verso la piana del Tevere (piacevoli passeggiate nel tramonto dorato di Roma) riflettendo su quanto avevo ascoltato, mi compiacevo di quanto Respighi aveva detto. Erano parole che incoraggiavano a persistere, a non perdersi d'animo, a contare solo sulle nostre forze di musicisti.