ALBERTO IESUÉ

LA GENERAZIONE DELL'OTTANTA

Cinque musicisti, nati intorno al 1880, furono i principali artefici di un autentico rinnovamento della musica italiana nei primi decenni del Novecento: Franco Alfano, Alfredo Casella, Gian Francesco Malipiero, Ildebrando Pizzetti e Ottorino Respighi. A differenza dell'operazione condotta nella seconda metà dell'Ottocento soprattutto da Sgambati e Martucci, fautori di una rinascita culturale che tenesse conto delle conquiste del sinfonismo tedesco da Beethoven a Brahms - operazione quindi prettamente culturale che cercava di acquisire quel che già era avvenuto altrove - la «generazione dell'Ottanta» fu attiva nel tenersi al corrente dei nuovi linguaggi musicali contemporanei e nel partecipare originalmente al loro sviluppo.
Franco Alfano (1875-1954) fu, tra i cinque, il meno dotato artisticamente e, alla fine, il più legato agli schemi tradizionali. Dedicatosi inizialmente all'attività concertistica e alla critica musicale, senti presto l'esigenza di allargare le proprie esperienze musicali fuori dall'Italia, volgendosi alla composizione. Influenzato strumentalmente da Strauss e da Debussy, cercò di mantenere il passo con le correnti moderne rendendosi conto degli orizzonti verso cui doveva guardare la nuova generazione musicale italiana nel momento del declino fatale della stagione operistica.
L'opera
Risurrezione (1904), il suo primo successo, «ne rivelò la spiccata vocazione teatrale, messa però al servizio d'una musicalità complessa ove l'irruente focosità del linguaggio più che in melodie orecchiabili si traduce in pagine complesse, dense di un sinfonismo attraversato da effusioni liriche di indubbia nobiltà espressiva». [Cognazzo].
Lo stile più personale di Alfano, frutto del connubio di melodiosità e caratteri impressionisti, è in quello che è considerato il suo lavoro migliore e fra i più rappresentativi del Novecento: La leggenda di Sakuntala (1921; una nuova versione, con titolo Sakuntala, è del 1952). [Altre opere:L'Ombra di Don Giovanni; Cyrano di Bergerac]. In campo sinfonico, la padronanza della forma e una ricca orchestrazione qualificano la Suite romantica e la Prima Sinfonia. Mentre la produzione cameristica è spesso invasa da un'enfasi che va a sovrapporsi ai contenuti poetici, più sincere sono le liriche per canto e pianoforte. Ricordiamo infine che Alfano, su richiesta della famiglia Puccini e dell'editore Ricordi, portò a termine la Turandot, rimasta incompiuta alla scena della morte di Liù, «con scrupolo e sensibilità innegabili».
Se i critici e gli storici della musica fossero obbligati a stilare una graduatoria di merito fra i cinque 'rinnovatori', Respighi non otterrebbe di più del quarto posto, giacché dal punto di vista culturale, intellettuale e storico, Casella, Pizzetti e Malipiero (nell'ordine di classifica che preferite) vengono stimati ad un gradino superiore. Il giudizio della critica non collima con quello del pubblico, ma neanche con quello dei musicisti.
Fra i compositori italiani del primo Novecento che, nell'ambito del suddetto rinnovamento, affrontarono la musica strumentale, Ottorino Respighi (1879-1936) è senz'altro il più popolare. Il pubblico è attirato da un programma sinfonico in cui siano inserite musiche di Respighi; un'attenzione avallata anche dall'interesse che mostrano gli interpreti nell'eseguire Respighi tanto quanto Beethoven, Brahms, Ciaikovski, ovvero tutto quel repertorio 'classico' - nel senso di consacrato ormai ai posteri - di indiscutibile livello. Non dovrebbero essere molti i direttori d'orchestra che storcono il naso alla proposta di inserire Respighi nei loro programmi; mentre sono molti i frequentatori di concerti che sanno citare almeno due lavori di Respighi (Fontane di Roma e Pini di Roma), ma che rimangono interdetti quando devono dichiarare cosa hanno mai sentito in concerto degli altri quattro rinnovatori della cultura musicale italiana.
In sostanza, la critica rimprovera a Respighi d'essere rimasto, rispetto agli altri della generazione dell'Ottanta, Alfano a parte, su posizioni arretrate musicalmente e culturalmente; l'ascoltatore invece ne sa apprezzare la 'bellezza' della musica, che deriva dalla sua sensibilità per i timbri, i colori e gli impasti orchestrali, per la raffinatezza della strumentazione, per il rilievo e la chiarezza delle linee melodiche, per il senso della forma, e, infine, per quella 'vena comunicativa' che non vuole mai essere cerebrale, per non dire cervellotica, e che è invece il fondamento della incomunicabilità della sica di altri.
La maestria nel trattamento orchestrale, le sfumature timbriche e armoniche, la sontuosità pittorica e canora dell'orchestra medesima, sono elementi che Respighi seppe modellare derivandoli da Rimskij-Korsakov, dall'impressionismo di Debussy, dal poema sinfonico di Strauss. La variopinta bellezza della sua scrittura musicale fatta di «preziosa ratefazione, morbidezza e trasparenza del suono da una parte, turgescenza fonica dall'altra», fece sì che in Italia, dopo un plurisecolare predominio del melodramma, si potesse parlare finalmente di musica sinfonica.
La personalità di Respighi non si esaurisce con l'espressione del poema sinfonico (oltre i due citati ricordiamo Feste romane). Egli volse il suo interesse anche alle forme e ai contenuti della musica del passato, interesse che portò a eccellenti risultati nel Quartetto dorico per archi, nel Concerto gregoriano per violino e orchestra, in Vetrate di Chiesa, nel Concerto misolidico per pianoforte e orchestra, nelle Antiche arie e danze per liuto.
Meno conosciuta è la produzione operistica di Respighi, che gradualmente si andò assestando negli stilemi del neoclassicismo. Nei suoi melodrammi - fra cui citiamo La Campana sommersa, Maria Egiziaca, La Fiamma, Lucrezia [Belfagor - La bella addormentata nel bosco] - Respighi «riuscì a evitare le secche dell'artificioso sentimentalismo di certo Puccini e le crude volgarità della Scuola Verista, per imparentarsi con il tardo Romanticismo tedesco, con il magniloquente e terribile virtuosismo straussiano». [Mioli]
Ci è rimasta impressa nella memoria la bianca figura del quasi ottantenne Ildebrando Pizzetti (18 80-1968), presente all'esecuzione di alcune sue liriche. Emanava una calma religiosa, un senso di pace raggiunta: sensazione non peregrina, giacché era il tempo in cui Pizzetti aveva portato a compimento Assassinio nella cattedrale, opera tratta dall'omonimo lavoro di Thomas Stearns Eliot, rappresentazione della morte di Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury, assassinato nel 1170 da quattro cavalieri inviati dal re Enrico II, che non tollerava la sua intransigente fedeltà alla Chiesa. Con Assassinio nella cattedrale infatti, uno dei suoi ultimi lavori, Pizzetti tramuta in senso di pace il dramma della vita com'egli l'aveva intesa lungo l'arco nella sua esistenza. L'espressione più alta di questo dramma era l'arte, che Pizzetti intendeva come un sacerdozio: vita e arte sono accomunate nella sua musica sempre in senso drammatico.
Ci si andrà accorgendo, nell'esemplificazione dei caratteri stilistici della generazione dell'Ottanta, che i cinque musicisti non sono affatto accomunati da unità di posizioni estetiche: è abbastanza evidente che la religiosità di Pizzetti, la sua concezione della vita e il suo stile musicale poco hanno a che vedere con «l'oggettivismo duro, spigoloso e spesso ironico» di Casella o con «l'estrosa invenzione continua, utopisticamente auspicante l'abolizione d'ogni sviluppo e d'ogni deduzione sinfonica» di Malipiero. L'enunciato dello stile pizzettiano lo troviamo nelle sue stesse parole:

Noi giovani musicisti italiani riconosciamo il grande valore di novità e di bellezza di molta musica francese modemissima [...] ma ciò che abbiamo fatto, facciamo e faremo, lo abbiamo fatto, lo facciamo e lo faremo il più possibile indipendentemente da quella musica, senza voler trarre nulla da essa [...] Andremo sino in fondo della '"nostra anima' e nell'animo di questi uomini qui intorno, che sono uomini della 'nostra' terra. [1913].

Attento, quindi, ai fenomeni del presente ma tradizionalmente legato alla cultura italiana - quella, come suol dirsi, che 'si riconosce' in Claudio Monteverdi - Pizzetti strutturò il suo linguaggio nello studio del canto gregoriano; il suo stile fu severo e per nulla tendente a facili edonismi nell'uso coloristico degli strumenti. Uno stile severo che decade alle volte in monotonia, tranne laddove la natura musicalissima di lui s'effondeva, a dìspetto d'ogni sistema precostituito, e s'innalzava, dilatandosi in perorazíoni perfino smisurate, e il 'dramma' si svelava, ad onta di tutto, per 'dramma lirico', come sempre accade quando la musica investe e trasfigura la vicenda, e la rappresentazione si fa confessione, simbolo e allegorìa di tutto ciò ch'è umano! [Celli].
Apprezzato e stimato in vita da uomini di cultura come D'Annunzio, Papini, Prezzolini, Ungaretti, nonché dagli interpreti della sua musica quali Toscanini, Gavazzeni, De Sabata, oggi la produzione di Pizzetti stenta a rientrare nei circoli di consumo. Ma al di fuori di ogni valutazione critica o rivalutazione delle sue composizioni non è possibile dimenticare l'importanza di Pizzetti nella storia della cultura musicale, dove fu presente magnificamente, oltre che come autore, come insegnante, critico e direttore d'orchestra.

Del suo teatro ricordiamo Fedra, La figlia di Jorio, Debora e Jaele, Lo Straniero [L'Oro - Orsèolo - Ifigenia - Fra Gherardo - Clitennestra] e il già citato Assassinio nella cattedrale; delle
musiche di scena, quelle per l'Agamennone di Eschilo e per Le Trachinie di Sofocle; vari gruppi di Liriche, musica strumentale sinfonica e da camera, musica per film (Scipione l'Africano, I promessi sposi, Il mulino del Po).
L'esperienza musicale di Alfredo Casella (1883-1947) va valutata non solo tramite la sua attività di compositore ma anche e forse più per l'insegnamento che seppe dare con la sua lezione civile e morale. Così scrisse in una sua lettera del 1943:

La mia vita di artista è stata dura, ma anche molto bella. Per lunghi anni ho goduto nella mia patria della più larga impopolarità, della più cordiale antipatia e incomprensione. Fatto questo inevitabile, perché - in un paese dove pullulavano i dilettanti e gli aficionados del 'bel canto' ultimo-ottocento, e dove il gusto imperante era quello di una provincia rimasta per lunghi decenni estranea a quasi tutti i maggiori problemi del grandioso processo rivoluzionario che aveva agitato l'Europa da Weber a Debussy - un artista, incapace dì certi compromessi, era fatalmente destinato ad essere aspramente ostacolato dalla quasi totalità dei suoi conterranei. Vìta dura dunque, ma che rifarci tutta da capo con la medesima fede, qualora fosse necessario.

Il fondamento del suo procedere culturale e musicale fu quello di una continua ricerca. Casella assimilò tutte le esperienze che a mano a mano gli si presentavano: dal tardo romanticismo, all'impressionismo, all'espressionismo, prendendone coscienza ma senza mai farsi coinvolgere completamente, nella ricerca di un equilibrio superiore che doveva derivare dalla sensibilità personale e dai caratteri propri della cultura e del gusto italiani.
Indubbiamente, l'esperienza che agi più profondamente e più a lungo sulla sua emotività fu quella espressionistica di Schönberg, che lo porterà a lavori alle soglie della dodecafonia come la Sonatina op. 28 per pianoforte. Con Pupazzetti (per pianoforte a quattro mani e riscritta in due successive versioni, per nove strumenti e per orchestra) si è parlato di «ironia lirica», che si riallaccia alla commedia dell'arte italiana. E difatti la posizione più ferma di Casella fu quella di fiscoprire e ripensare la tradizione italiana, quella più vera e reale, ovvero del Seicento e Settecento strumentale. Comporrà quindi
Scarlattiana, per pianoforte e trentadue strumenti, in cui utilizza ottanta temi presi dalle sonate di D. Scarlatti, e Paganiniana. In quest'ambito di ironico lirismo svetta la Serenata op. 46, per clarinetto, tromba, fagotto, violino e violoncello (la partitura fu inviata ad un concorso di Filadelfia: su 645 concorrenti Casella vinse il primo premio ex aequo con Bartók).
La sua presenza di didatta va ricordata anche per la
revisione, tra l'altro, dell'opera omnia di Chopin, del Clavicembalo ben temperato e delle Suites inglesi e francesi di Bach, e di musiche di altri autori fra cui Monteverdi, Vivaldi, Mozart ecc.

Ed eccoci infine all'ultimo esponente della generazione dell'Ottanta, Gian Francesco Malipiero (1882-1973), che da molti è considerato, nel complesso della sua personalità artistica, il massimo rappresentante del gruppo. In lui sono comunque presenti le caratteristiche comuni agli altri: attiva partecipazione al rinnovamento della cultura musicale italiana del Novecento e coscienza della crisi di valori che colpisce la società borghese, con la conseguente solitudine dell'uomo moderno. Nel suo stile sono presenti i caratteri dell'impressionismo francese soprattutto, ma anche dell'espressionismo, caratteri però che egli assorbe, più che come influenze tecniche, come substrato poetico poiché, in fondo, Malipiero tende al rinnovamento musicale italiano ricollegandosi proprio all'antica tradizione nazionale, al canto gregoriano e alla civiltà musicale veneziana del Cinque e Seicento.
I caratteri tipici della sua arte, comunque, si precisano, più che nella tecnica, nella poetica, cioè nella concezione stessa dell'opera musicale [...]. Essa consiste nel ripudio dello sviluppo tematico distribuito lungo congegnati itinerari, caro alla tradizione romantica, e nell'appello, viceversa, a un'invenzione musicale continua, alimentata da uno scaturire di idee incessantemente rinnovate; consiste, analogamente, nella concezione di un teatro sintetico, non naturalistico, tutto nutrito di culmini drammatici ('a pannelli', come fu definito), dove musica e parole abbiano a sortire per se stesse necessarie, evitando gli inutili recitativi di raccordo. [Santi].
Autore di musica vocale, sinfonica e da camera, notevole è il suo peso nel teatro d'opera; ricordiamo La favola del figlio cambiato (nato dalla collaborazione con Pirandello), Ecuba (da Euripide), I capricci di Callot (da E.T.A. Hoffinarin), La vita è sogno (da Calderón de la Barca), Don Tartufo bacchettone (da Molière). I caratteri stilistici della sua musica non mutarono sostanzialmente neppure quando si avvicinò alla dodecafonia.
Come
revisore di musiche del passato, ha curato lavori di B. Marcello, Stradella, l'opera omnia di Monteverdi; inoltre ha diretto la pubblicazione, ancora in corso, delle opere strumentali di Vivaldi.