ARMANDO GENTILUCCI

OPERE DI TEATRO MUSICALE

DI G. F. MALIPIERO

SETTE CANZONI (1917-1920) - Vertice espressivo e significativo della trilogia Orfeide, le Sette Canzoni propongono il sintetismo teatrale tipico del musicista veneziano, che proprio a partire da qui si identifica con l'abolizione del recitativo. Si tratta di sette episodi lontani mille miglia dall'opera convenzionale, di sette momenti scenici e musicali indipendenti. Di fatto, abbiamo, proprio come dice il titolo, «sette canzoni», sette scene, senza una trama che le unisca: sette aspetti di una condizione esistenziale. I testi, ricavati da antichi poeti italiani popolareschi, non sono rielaborati o combinati secondo canoni estetizzanti, ma assunti nella loro interezza, e proiettati dalla musica in un universo illividito, senza tempo, come sospeso nel tempo e nello spazio. Ma in che modo Malipiero raggiunge risultati di cosí radicale e suggestivo straniamento, in che modo le sette situazioni si rivelano emblematiche della solitudine esistenziale contemporanea? Non certo, o non solo, per la comunicazione di fatti scenicamente ben determinati e circoscrivibili: il mendicante cieco abbandonato da tutti, dopo l'esecuzione di uno stornellante canto in cui narra imprese amorose guerresche già vanificate dalla sua dura, anzi atroce condizione di questuante minorato; l'innamorato che canta la serenata senza accorgersi che è morta la fanciulla sofferente di una segreta pena, rinserrata nella disperazione e implorante in solitudine nella penombra di una chiesa, mentre contro di lei si accanisce (in una scena senza canto, senza parole) il sagrestano, che egoista e burocratico escogita mille trucchi per attirare l'attenzione della donna e costringerla ad uscire, sordo a ogni dolore, impassibile al dramma interiore al quale sta assistendo o il campanaro che avvisa dell'incendio mentre canta una canzone scurrile: luoghi psicologici, quelli descritti, facilmente afferrabili, ma da soli incapaci di condurre al centro dell'immaginazione malipieriana. La grande intuizione drammatica, consiste molto semplicemente in questo fatto: che la musica, contrariamente a quanto era avvenuto quasi sempre nel teatro lirico, non ricalca espressivamente il testo, non sottolinea l'azione, ma se ne va per proprio conto, svolge un grigio, umbratile, 'monotono' discorso in termini arcaicizzanti: ma di un arcaismo inquieto, dolce e disperato insieme, che rifiuta di rapprendersi in sagomate strutture neoclassiche. È quindi alla dissociazione dei piani conoscitivi rettilinei che la musica di Malipiero conclude mettendosi «al negativo» in rapporto con la materia narrativa, per approdare ad una superiore pregnanza sia drammatica che musicale.
TORNEO NOTTURNO (1931) - Come le Sette canzoni, anche questo atto unico è suddiviso in sette parti, qui strettamente concatenate e conseguenti, cementate l'una all'altra da una trama organicamente definita. Due personaggi allegorici dominano la scena: lo Spensierato e il Disperato. Il primo frustra progressivamente, nel susseguirsi degli episodi, le aspirazioni del secondo, ma la sua spensieratezza è nettamente negativa, consiste nell'illusione di una impossibile felicità, tanto è vero che le donne che cedono alle lusinghe del suo canto, precipitano e il piacere incoscientemente goduto si rivela una mistificazione. Però anche il Disperato, che vorrebbe essere l'espressione di un'amara consapevolezza, quando alla fine uccide lo Spensierato e si libera del seducente canto di una poesia quattrocentesca («Chi ha tempo e tempo aspetta, il tempo perde il tempo fugge come d'arco strale: dunque per fin che sei nel tempo verde accogli il tempo che pentir non vale. Il tempo fugge e mai non si rinverde e mena il fin le tue bellezze frale: e dunque cogli del tuo tempo il fiore prima che manche il giovanil valore») a sua volta non può che soccombere passivamente alla tragica constatazione di una vita disumanizzata, non può sfuggire all'alienazione. Non a caso la scena si chiude con la macabra mascherata del carro funebre: «Udite? Udite il ritmo funebre del corteo? è la vita che passa agitando il gonfalone della morte. Ascoltate.» La musica malipieriana passa con estrema mutevolezza da un polo estremo all'altro, da toni di allegrezza ritmicamente esaltati e al tempo stesso paralizzati da un che di falso, dovuto ad una sottile ambiguità armonica, alla piú cupa desolazione, al grottesco ilare e feroce, sempre procedendo per brevi impulsi, per contrapposizioni rapide, senza elaborazioni tematiche, senza i vitalismi costruttivi della dialettica romantica.
I CAPRICCI DI CALLOT, tre atti da Hoffmann (1942) - Rispetto al Malipiero delle Sette canzoni, del Torneo notturno e anche della Favola del figlio cambiato, (da Pirandello), cioè al Malipiero delle piú laceranti analisi di una condizione esistenziale tipica dell'uomo moderno, quello dei Capricci risente forse, sia pure al negativo, contrapponendovisi, del clima di relativa smobilitazione testimoniato dalle opere nate nel piú cruento clima fascista: si allude al Giulio Cesare (1935) Antonio e Cleopatra (1937), Ecuba (1940), La vita non è sogno (1941), lavori nei quali si facevano evidenti remore classicistiche e recuperi di modi narrativi e musicali parzialmente conformizzati. S'è detto che i Capricci testimoniano di una reazione a quella fase non felice della creatività malipieriana e ciò avviene senza dubbio principalmente sul piano musicale: ove la struttura sonora riflette nuovamente, attraverso il sistematico rifiuto del meccanismo di sviluppo tematico e della tensione plastica del disegno finalizzato verso un unico centro espressivo e comunicativo, lo straniamento del «gesto» sonoro dalle figure musicali usate. Ciò che distanzia però i Capricci dal primitivo mondo espressivo malipieriano è il gioco fattosi ora piú astratto, il tono meno polemico, i simboli meno espliciti. Le tragiche e sarcastiche mascherate di un tempo hanno ceduto il posto a «maschere» vere e proprie, stilizzate, assunte in un compiaciuto gioco coreografico ove i vestiti sono piú importanti delle figure umane che li indossano. Malipiero riassume appunto la storia contenuta nell'opera nei termini di una storia di vestiti ispirati ai Balli di Sfessonia, ventiquattro incisioni di Jacques Callot che avevano già acceso la fantasia di E.T.A. Hoffmann: le maschere di Callot sembrano degli esseri senza scheletro, vestiti gonfi d'aria; la trama, che in poco spazio non si può neppure sommariamente riassumere, non segue nessuno schema logico, nessuno stretto rapporto di causa e di effetto, ma si apre invece a un libero gioco di maschere non mai ricalcato allusivamente. Ma, per dirla con Piero Santi, «si badi a non scambiare codesta frenesia per facilità e spensieratezza creativa. La storia del teatro di Malipiero non può essere trascorsa sino ai Capricci di Callot senza lasciare impronta. Ricordiamoci da dove esso è passato prima di approdare a questo lavoro. È pur sempre in gioco, anche qui, il destino, ossia l'insondabile mistero della vita. Qui si gioca a quale dei due è piú abile, se il gratuito della vita o quello dell'invenzione.» Insomma è ancora una volta la musica a testimoniare dell'impegno umano del musicista dietro l'apparenza del divertimento teatrale: impegno espresso dalla voluta e straniante «indeterminatezza» del linguaggio armonico e melodico pur cosí chiaro nel delineare le figure musicali, dal marionettistico procedere dei passaggi di piú accentuato dinamismo ritmico, dalla struggente malinconia, dal grigiore sottile di un'atmosfera illividita anche quando sembra, muoversi tra i colori e i timbri piú vari, dai voli lirici ostentatamente fatui, cui fanno da contrappeso immediati annichilimenti.
VENERE PRIGIONIERA, due atti (1957) - «Mi sedussero la prima e l'ultima scena per la loro forza drammatica, e la prima scena del secondo atto mi affascinò perché la commedia Venere incatenata, che si rappresentava nel castello di Don Giovanni Mediana, mi ha permesso di rimanere fedele a Sette canzoni, in quanto i contendenti, per liberare la dea, sono costretti a cantare se non sette, cinque canzoni. Certo è necessario che queste si ascoltino. Qualora volessi giocare sulle parole potrei dire che la prima scena è la canzone della miseria e l'ultima dell'amore che però è vinto dall'inesorabile vendetta, che la prima scena preannunciava nell'ombra della piú squallida miseria. Cinque e due farebbero sette»: cosí Gian Francesco Malipiero ebbe a spiegare la scelta del racconto di Emmanuel Gonzales datato sul declinare dell'800. La fedeltà dichiarata alla visione teatrale sintetica e per vertici delle Sette canzoni si accompagna, come già parrebbe attestare la capricciosa immaginazione dei giochi di parole contenuti nella dichiarazione malipieriana, con quella parziale tendenza all'astrattizzazione avviata dai Capricci di Callot. Il soggetto dell'azione, acceso e teatralissimo, non viene ricalcato espressivamente dalla musica, la quale anzi proprio tenendo conto della paradossale violenza narrativa, può liberarsi da ogni contingenza scenica immediata e procedere per allucinazioni magiche, per immagini sonore fantastiche, quasi irrelate (e perciò pregnanti): sono sempre in gioco, nel rapporto straniato tra musica e sostanza narrativa, gli inganni e le mistificazioni della società contemporanea, i falsi miti borghesi (il mondo in cui sì svolge la vicenda è prigioniero delle piú ottuse convenzioni), i ma senza riferimenti diretti, se non per l'«indifferenza» di un discorso sonoro che vanifica l'insieme e la stessa ubicazione psicologica, nel crollo di tutti i valori, nell'irrealtà.
RAPPRESENTAZIONE E FESTA DI CARNASCIALE E DELLA QUARESIMA (1961) - Il testo di questa «rappresentazione» è di un autore ignoto ed è tratto, ridotto, da una edizione fiorentina del 1558. Prescrive l'autore: «La scena sarà divisa in due parti. A destra, su un piano abbassato in modo che risulti il meno alto possibile... la grotta della Quaresima, quasi al buio, i personaggi sembreranno ombre fosforescenti. Sul piano rialzato, risultante dalla grotta della Quaresima, siederà maestosamente il Carnasciale. Il resto della scena avrà l'aspetto di una taverna con tavoli e sedie, il tutto però disposto in modo che rimanga lo spazio per ballare.» Anche qui Malipiero si mostra fedele a quei motivi ispiratori che hanno alimentato gran parte del suo teatro migliore, come ad esempio l'accostamento e la sovrapposizione di visioni dolenti e capricciose, ove anche il gusto caricaturale, ilare e feroce, irridente e impietoso, palesa la presenza di una fantasia che pulsa verso immagini tragiche. Ed è ancora l'inquietudine della musica, espressa dalla padronanza dei mezzi linguistici vecchi e nuovi, la sapiente patina grigia che tutto avvolge anche quando una polvere dorata e falsamente festosa vorrebbe simulare l'allegrezza (ma è un'allegrezza subito riassorbita dalla nebbia), a indicare il senso, la direzione comunicativa, la prospettiva ideologica della Rappresentazione.
METAMORFOSI DI BONAVENTURA (1966) - Come i Capricci di Callot, anche le Metamorfosi di Bonaventura, che a quelli rinviano per vari aspetti, muovono dall'ispirazione hoffmanniana: con una libertà fantastica anche piú spiccata, con stridenti contrapposizioni, graffianti sarcasmi, secchi procedimenti ritmici, invenzioni timbriche continue, prodigiosa fantasia strumentale. Malipiero utilizza ormai liberamente nessi - diatonici associati a cromatismi atonali, e non di rado il totale cromatico viene esaurito seppur spogliato d'ogni eventuale significazione dodecafonica, contribuendo ad arricchire il linguaggio di piú aspre tensioni armoniche, di ancor piú amari succhi. Ancora una volta il personaggio principale si eleva a simbolo dello scacco umanistico, del fatale destino dell'umanità irrisa o violentata, del convenzionalismo: Bonaventura diviene pertanto vittima e giudice, tremenda accusa alla falsità grottesca del mondo. Guardia notturna, contempla le illusioni umane e nel momento in cui appare certa la fine del mondo, può smascherarle. Nella seconda parte, una delle metamorfosi: la guardia di notte è divenuta un narratore di storie, storie nelle quali verità e inganno, mito e invenzione, si mescolano nella precarietà di un'esistenza ove la vita è segnata dal destino della morte. E per finire, la folle solitudine dell'ultima metamorfosi, l'estremo rifugio dall'agguato del male, dall'incapacità bestiale degli uomini 'positivi' e affaristi a riconoscere la giustizia: Malipiero insiste su un tasto a lui caro, quello dell'isolamento aristocratico ma criticamente ed eticamente consapevole. Le parole di Bonaventura «Io fui un uomo e nulla fui, ma non posso dimenticarmi», e poi «guai se le maschere mi abbandonassero» postulano ancora l'inane eppur indispensabile presenza del sogno come illusorio riscatto: è una costante, questa, del teatro di Malipiero, e non a caso nel terzo atto «le apparizioni delle creature poetiche di Bonaventura sono evocate da altrettanti fantasmi musicali d'impressionante rilievo» e memorabile appare un finale «che proprio la musica libra sul baratro del nulla e dispone all'estrema finzione della rosa rossa deposta sul sepolcro della vita» (Piero Santi).