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GIAN FRANCESCO
MALIPIERO
COSSÌ VA LO MONDO
Le
parti in blu sono state riprese da Malipiero,
con leggere variazioni, e ripubblicate in
Risveglio: primavera 1945,
Il filo di
Arianna, pp. 128-135]
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1922 - 1945
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Dopo quello che abbiamo visto e vissuto non è
possibile anzi è più che impossibile renderci conto se
viviamo o se siamo già morti. Che valore possono avere queste
nostre ossa e le poche libbre di carne che le ricoprono di fronte
alla morte dello spirito? L'unica speranza che ancora possiamo
nutrire è che sia soltanto caduto in un profondo letargo.
Ventitré anni son passati dal giorno in cui le
campane dei comuni squillarono per la vittoria di una nascente
dittatura.
Il corrompersi degli ideali, la minaccia di una
guerra fratricida, mille e mille forze negative avevano assopita la
nostra chiaroveggenza. Ciò nonostante siamo colpevoli del
nostro cieco egoismo. Non potevamo credere, ma spesso abbiamo
sperato, ci siamo imposti di sperare perché, nati in un clima
ancor vibrante di autentico amor di patria, non potevamo
disinteressarci alle sorti politiche d'Italia.
Chi va ad abitare un edificio di recente costruzione
e fiducioso vi trasporta tutto quello che possiede, può essere
responsabile se crolla? Forse responsabile d'aver avuto fiducia
nell'architetto? Chi poteva immaginare che il materiale fosse tarato
e irrimediabilmente condannato a sgretolarsi?
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Non dimenticherò mai il coperchio di una certa
zuccheriera d'argento che i miei vecchi mi mostravano con fierezza,
senza rimpianti: l'avevano conservato per ricordo della nostra
argenteria offerta in olocausto alla rivoluzione del 1848. Mi
parlavano spesso, toccando il superstite cimelio, accarezzandolo
quasi, mi parlavano degli austriaci, della lotta per la liberazione e
a poco a poco l'umile relitto d'argento cresceva e nella mia fantasia
diventava un immenso baldacchino d'oro sotto il quale riponevo come
reliquie i miei eroi, i miei martiri e inalzavo i miei altari.
Mezzo secolo fa si viveva ancora l'epopea del
risorgimento italiano. Si guardavano ancora con stupore le tracce
degli innocui bombardamenti austriaci. Bambini giuocavamo con una
palla da cannone che entrata dalla finestra si era fermata contro il
muro maestro che non era pane per i suoi denti.
Gli artisti (esclusi i musicisti i quali col pretesto
di vivere fra le nubi non pensano che ai benefici materiali e
immediati) apparentemente si disinteressavano di tutto ciò che
sapeva di politica, ma le arti figurative e le lettere prendevano uno
sviluppo degno di una nazione in pieno rinascimento.
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E la musica?
La rappresentavano Francesco Paolo Tosti, la «Gioconda».
Come sorpresa «fin de siècle» scoppiò la
«Cavalleria rusticana» che sconvolse il cervello dei
melomani italiani, tanto che quasi non s'accorsero del
«Falstaff». Questa meravigliosa prova della evoluzione
verdiana s'impose per rispetto, non come un atteso capolavoro
dell'autore della «Traviata». È vero che il
«Falstaff» (come già l'«Otello») era
stato patrocinato da uno che leggeva Schopenhauer, Bach e ammirava la
riforma wagneriana, però questo particolare non ha importanza:
il «Falstaff» nacque com'è perché sul
finire del XIX secolo l'Italia era tutta vibrante di entusiasmo per
le lettere e le arti, ma non per la musica. La «Cavalleria
rusticana», prima opera di un giovane improvvisatore, che
precedette di due anni l'ultima fatica di un saggio che sapeva quello
che voleva, favori la propaganda per il primo Verdi. Il vecchio John
venne accolto come un estraneo e per complicare le cose, il famoso
motto verdiano, «torniamo all'antico e sarà un
progresso» s'interpretò in vari modi, mai come un
ammonimento per i giovani e per la nuova musica italiana.
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Due pianisti,
Giovanni Sgambati e Giuseppe Martucci, furono i primi ad abbandonare
la via maestra, che in questo caso non era affatto maestra, per
tentare la musica sinfonica e da camera. Anziché
«tornare all'antico» essi calcarono i modelli tedeschi,
da Beethoven a Brahms, dimenticando le gloriose tradizioni della
nostra musica istrumentale. Ottorino Respighi, allievo del Martucci,
con le «Fontane di Roma» si staccò dai modelli
classici e si avvicinò al postwagneriano Riccardo Strauss, il
più fecondo compositore tedesco che visse a cavallo dei nostri
due secoli senza appartenere né all'uno né
all'altro.
Come reagirono al nuovo regime i musicisti coetanei
del Respighi e che nel 1922 s'erano già affermati? Non
accettarono posti dì comando (non adatti per gli artisti),
preferirono conservare una benevola neutralità fingendo di non
vedere e di non capire, specialmente quando si trattava di quegli
organismi creati, col pretesto di aiutare la musica.
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Fra il 1922 e
1945 due giovani musicisti, che avrebbero dovuto essere figli del
loro tempo, riuscirono a barcheggiare e a vivere, ma non in
libertà, ché la loro arte non corrispondeva affatto
alle ideologie del regime.
Sciolta l'Accademia, si vedrà finalmente
quanto essa abbia influito su quegli aspiranti che disertarono dalle
loro posizioni arrendendosi all'ambizione. La resa non fu senza
condizioni ché si sapeva cosa voleva dire essere degni di una
candidatura che non teneva conto della VERA personalità dei
musicisti e che puntava sull'equivoca italianità di certi
compositori.
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Per meglio
illustrare la vita musicale del periodo di tempo che sta fra le due
grandi guerre, non giungerà forse inopportuna la lettera (che
pubblichiamo) di uno dei musicisti che dopo una parentesi di 23 anni
viene a trovarsi quasi nelle stesse condizioni del 1922, salvo il
bagaglio molto più ingombrante di opere, e di nemici.
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Dilettissimo
amico,
quali potevano essere le prospettive per un musicista
che usciva dalla guerra (1918) con le ossa rotte ma lo spirito
intatto? Non volendo sfruttare la propria musica, era necessario
alimentare qualche illusione. Battere alla porta di un
«conservatorio»?
Malato il ritmo, malata l'armonia! Un intervento
attraverso la scuola avrebbe potuto salvare la nostra
musicalità (non alludo alla musica bensì alla
musicalità perché quest'era, ed è, la grande
inferma) che disgraziatamente non si curava affatto, anzi del suo
male se ne faceva un vanto e in certi patetici atteggiamenti melodici
si voleva scorgere l'impronta del genio. Non ho mai osato esprimere
qualsiasi «giudizio» su certa musica perché
l'idiosincrasia non compromette né offende ciò che
provoca la avversione. Sono invece convinto che la musicalità
italiana è ridotta a mal partito causa i pregiudizi che si
inculcano fin dai primi elementi nelle scuole e attraverso la
critica. I musicisti sono estranei a questo processo negativo, lo
subiscono e non s'accorgono di soffrirne. Eppure al ritmo e
all'armonia si dovrebbe ridonare la libertà cui sono stati
privati da due secoli. Pieno di buone intenzioni entrai con la
fiaccola accesa (per illuminare o per incendiare?) in un
conservatorio: mi accolsero con forti getti d'acqua gelata che non
nocquero alla mia salute perché sono insensibile alla
delusione. Tutto ciò che mi è sempre e ovunque accaduto
non supera mai le mie previsioni. E poi sempre qualche santo mi ha
aiutato, quando le condizioni materiali potevano compromettere la mia
passione. Difatti, appena dimessomi da «insegnante» venne
a battere alla mia porta un grande editore straniero. Egli volle
accaparrarsi tutte le opere che avrei scritto fra il 1924 al 1930, e
per poterle scrivere la vita nella casa di Asolo, lontano dalla
rumorosa città, era la più propizia. Dipendere poi da
un editore abile e accorto che aveva in mano le chiavi della musica
internazionale, - voleva dire non marcire e allo stesso tempo non
subire il nostro ambiente musicale. Difatti fra il 1924 e il 1932,
vissi intensamente nel mondo della musica senza occuparmi di quelle
«pratiche» che distruggono la serenità e
corrompono il musicista.
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«Piovendo un giorno all'alba a mezza notte
Gambari verdi tinti in grana gialla,
tutta sudata venne una farfalla
gridando all'arme le, fave son
cotte.» |
I musicisti
gridano spesso prima che siano cotte. Difatti «gambari»
di tutti i colori vennero a turbare la mia quiete campestre. Mi
agitai perché la bella Asolo si voleva
«incrementare» cioè distruggere, Piovvero le
denunzie contro di me, mi vidi minacciato peggio che dietro le quinte
di un nostro teatro lirico. Anche in questo caso si trattava di un
teatro, e si andava preparando una grande tragedia. Fantocci?
Maschere? Non si sapeva che cosa fossero. Certo recitavano tutti una
commedia, una farsa, non valeva la pena di esagerare facendone un
dramma. Oggi diciamo così, ma allora non si scherzava!
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Ecco un
graziosissimo esempio.
A Crespano del Grappa, non lontano da Asolo, esisteva
una antichissima fabbrica di caratteri intagliati nel legno. Un
artigiano di questa fabbrica venne un giorno (1926) a trovarmi e
chiedermi aiuto: le stamperie non si servivano più dei
caratteri di legno, non v'era più lavoro.
Avevo sottomano, riprodotta in un catalogo librario,
una strana illustrazione tolta da un libro del XVI secolo: un circolo
che doveva rappresentare il mondo, di sotto una croce rovesciata e
entro il circolo case, campanili, strade, il tutto capovolto. In
basso il motto «cossì va lo mondo».
Invitai l'artigiano a copiare questa xilografia per
me. Difatti egli la incise magnificamente ed io mi divertivo a
stamparla in testa alla mia carta da lettera nel periodo in cui ebbi
occasione di carteggiare vivacemente col Podestà di Asolo.
Una di queste lettere finì fra certi atti di
accusa contro di me! «Cossì va lo mondo»,
cioè alla rovescia! A che mondo volevo alludere? Rinunziarono
però al mio trasferimento in una qualche isola del mar Tirreno
e gli artigiani xilografi di Crespano del Grappa e cessarono di
esistere.
E questo non fu che un episodio. Tutte le vicende di
una lotta per salvare da inutili distruzioni un paese che amavo
(durata dieci anni) non sono interessanti, interessante è il
fatto che non trovai pace nemmeno in campagna e che le più
grandi assurdità edilizie si vennero ad attuare in fondo ad
una valle, sotto le mie finestre, in un buco dove non si sentiva che
il gracidar delle rane, ed era un coro che bene s'intonava col
paesaggio.
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«E
tanta inimicizia
è nata fra le bufole e i ranocchi
che per gran sete mi pizzican gl'occhi.»
Molti, entrando in casa mia si meravigliano di un
«motto» che domina una parete della sala d'ingresso:
«Non lasciarti commuovere dalle disgrazie
altrui.»
Non dovete chiedermi che cosa significa. È
soltanto un monito per me: tutti bussavano alla mia porta invocando
aiuto, ma «tanto era la inimicizia fra le bufole e i
ranocchi» che più volte aiutando una bufola mi trovai di
fronte un ranocchio, e come sempre fra i due litiganti il terzo gode.
Il motto doveva impedirmi di ricadere nel mio vizio. Dico vizio
perché escludo di aver aiutato sempre per bontà di
Cuore, sono convinto di averlo fatto per la mania di aiutare, forse
per, debolezza, per non saper dir di no.
Nel dicembre del 1932 in una piccola città,
che però fino al 1918 è stata la capitale di un ducato
(Coburgo) ho assistito alla prima rappresentazione del mio Mistero di
Venezia. L'ex-teatro di Corte (un teatro completo in miniatura) mi ha
offerto una ottima esecuzione, e non me ne meravigliai perché
tutti collaborarono con entusiasmo. Dominava un senso di benessere e
di serenità. Sono però convinto che se la guerra fosse
scoppiata improvvisamente, cantanti, suonatori, direttori
d'orchestra, di scena e del teatro, in un batter d'occhio si
sarebbero trasformati in guerrieri. Trasformati? Forse sarebbero
ritornati quello che realmente erano nella loro subcoscienza.
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I teatri tedeschi rappresentavano il più perfetto
organismo sul quale l'arte musicale potesse contare, dunque se dopo
il dramma wagneriano non han dato che quello di Riccardo Strauss vuol
dire che anche in Germania il teatro musicale è in piena
decadenza e che il cinematografo lo ha strangolato col lento e
inesorabile serrare delle sue spire.
Nella tranquilla Coburgo, la sera del 15 dicembre
1932, all'albergo Excelsior, dopo la rappresentazione del
«Mistero di Venezia», si riunirono «in
letitia» gli interpreti principali, molti critici, ecc. ecc. Il
sovraintendente mi confessava di non esser mai stato in Italia, ma...
sorrise quasi imbarazzato.
Difatti una sera (autunno 1916) Gabriellino
D'Annunzio raccontava che mentre egli era di guardia al campo di
aviazione, dall'osservatorio di Verona e poco dopo da quelli di
Piacenza e della Spezia, gli chiesero che cos'era l'aeroplano che
volava sulla città. Alla Spezia capirono subito che doveva
essere austriaco perché aveva lasciato cadere una bomba!
L'aeroplano della Spezia era pilotato dal sopraintendente del teatro
di Coburgo, che aveva veduto l'Italia sì, ma soltanto
dall'alto. Parlavamo spesso di lui a casa nostra perché,
deciso dopo lunghe discussioni che un certo nostro gatto era maschio,
un bel giorno prolificò! Come l'aeroplano della Spezia,
dicevamo, ci vollero prove molto concrete per capire di che, natura
fosse il mostro!
Non so se l'episodio del gatto abbia fatto piacere al
sopraintendente di Coburgo, certo che la serata finì
allegramente, e il giorno dopo c'imbarcammo per l'Italia carichi di
piacevoli impressioni.
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Alla stazione
di Vicenza acquistai un giornale e per prima cosa mi cadde
sott'occhio «un manifesto di musicisti italiani per la
tradizione dell'arte romantica dell'800»! Non si faceva il mio
nome ma nella nota del redattore era detto chiaramente che il
manifesto era diretto contro di me e Alfredo Casella, e non potevano
esserci dubbi sulle intenzioni di colui che l'aveva concepito: il
critico musicale del Popolo d'Italia. Due sole fra le firme raccolte
mi stupirono perché nel manifesto fra le molte balordaggini si
dichiarava che «con una rivoluzione in atto che rivela ancora
una volta l'immortalità del genio italiano e presidia ed
avvalora ogni nostra virtù, sentiamo la bellezza del tempo in
cui viviamo e vogliamo cantarlo nei suoi momenti tragici come nelle
sue infiammate giornate di gloria.» Come lo cantarono?
«lo ho studiato il corso de' destini
e trovato ho le pillole di gera,
fanno cantare i grilli, fatto sera
per B molle la Zolfa de gli Ermini...»
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Il manifesto
non ebbe alcun seguito: dispiacque nelle alte sfere, non
perché con esso si voleva colpire due musicisti, ma
perché le polemiche intorno alla nuova stazione di Firenze
prendevano una brutta piega, non si voleva dunque che col pretesto di
combattere due musicisti moderni, si tirasse ancora in ballo la
stazione di Santa Maria Novella.
Tante furono le convulsioni che non riesco a
stabilire l'ordine dei molti atti di questa brutta commedia.
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Quando il 24
marzo 1934 il teatro Reale dell'Opera rappresentava la «Favola
del figlio cambiato», che cosa vi fu di cambiato, oltre che il
figlio, al calar della tela? Nulla. Quelli del manifesto, colsero
l'occasione per manifestarmi ancora la loro profonda antipatia e
intanto il «Figlio» continuava ad essere tormentato dal
dubbio:
«niente è vero e vero può essere
tutto, basta crederlo».
Queste pirandelliane riflessioni fecero scattare un
forsennato, che assecondato da alcuni compari gridò allora che
c'era una sola verità, quella della «rivoluzione in
atto». Calò il sipario e fui dato per morto. L'ira degli
dei era nulla in confronto di quella scatenatasi sul mio capo la sera
del 24 marzo 1934 in Roma.
La stampa italiana decretò che «'La
Favola del figlio cambiato' non rispondeva alle esigenze del tempo
fascista, che era una diffamazione di tutte le spiritualità
che il fascismo sì, sforzava di imprimere nel popolo italiano,
che contrastava in pieno con lo spirito e la finalità
dell'etica fascista, che era diarrea musicale».
«Ti sei giuocato l'Accademia» mi
assicurava uno scrittore mio amico, come se io avessi potuto giuocare
quello che non possedevo e che non avrei mai posseduto. E poi m'ero
già salvato dall'Accademia grazie a una denunzia, nel 1929
[1].
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Non so perché, forse solo per il gusto di complicare
ancor più la mia «situazione», io abbia messo gli
occhi addosso a Shakespeare e precisamente sul «Giulio
Cesare». Nonostante la traduzione letterale la censura volle
interpretare la frase «colui che cammina trionfante nel sangue
di Pompeo» come una allusione al delitto Matteotti: mi impose
vari cambiamenti. Ho dovuto impegnarmi a far cadere Cesare sotto il
pugnale di Bruto dietro le quinte. Con una ben condotta campagna di
ingiurie e di menzogne anche di quest'opera si riuscì a far
proibire, dopo quella di Genova qualsiasi altra rappresentazione in
Italia.
«Non si capisce come da quando il fascismo ha
impreso ad esaltare e rievocare la grandezza della romanità ci
sia un pseudo-musicista che si ostini a far fischiare dal popolo i
più grandi personaggi della storia romana». Con queste
parole la stampa preparava «Antonio e Cleopatra»
annunziato per il Maggio Fiorentino.
È logico che ci si domandi perché si
rappresentavano le mie opere. Si rappresentavano perché era
necessario tener viva la fama dei miei insuccessi. Nonostante la
congiura del silenzio non si poteva mantenere il segreto assoluto
sulle esecuzioni di opere mie fuori d'Italia, bisognava
controbatterle possibilmente con ben organizzati insuccessi italiani.
Non era necessario che questi fossero reali, bastava che apparissero
come tali nelle menzognere cronache musicali dei giornali della
penisola come fu il caso per il «Giulio Cesare» e
l'«Antonio e Cleopatra».
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Si desiderava
anzitutto far vedere al mondo che l'Italia, «con una
rivoluzione in atto» non soffocava per principio le
manifestazioni d'arte cosidette d'avanguardia.
Vennero poi l'andare verso il popolo e l'ebraismo.
«Che cosa farà Malipiero ora che per
ordine del Duce si tratta di andare verso il popolo? Come farà
se per venti anni si è vantato di andare contro il
popolo?» «Le musiche di Malipiero devono essere
condannate (e lo sono già dal popolo) perché frutto
dello snobismo e del cerebralismo ebraico internazionale.» E
così di seguito finchè l'avvicinarsi della guerra fece
un po' tremar la mano ai vari critici della «rivoluzione in
atto». Infine quando la Scala (che non era più la Scala)
nel marzo 1945, metteva in scena senza il mio consenso le «Tre
Commedie goldoniane», scritte fra il 1920 e il 1922 e
rappresentate in vari teatri, la critica milanese le stroncava
ferocemente facendole passare per una novità assoluta.
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Queste poco
interessanti vicende non possono certo divertire nemmeno l'amico che
mi legge, ma giustificano il mio sollievo alla liberazione. Ero
stanco anche perché quale direttore del conservatorio di
Venezia, dopo l'8 settembre 1943, le difficoltà da superare
non furono poche né lievi. Come impedire concerti
«politici» al Conservatorio? Come salvare i giovani
soggetti a leva e tutti gli insegnanti dall'obbligo del lavoro? E il
giuramento? Nonostante le minaccie, le denunzie, le intimazioni il
Conservatorio ebbe soltanto molti vetri rotti dallo scoppio del 21
marzo 1945, ma si salvò con tutto il contenuto!
Confesso che dal 28 aprile 1945 in poi, cioè
per quasi cinque mesi, ho atteso che «qualcuno» (sognavo
cortei di gente solenne, sindaci, prefetti, sottosegretari in
cilindro e redingote) venisse a dirmi grazie per quello che avevo
fatto per il Conservatorio Benedetto Marcello durante la guerra.
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Verso la fine
di settembre (1945) ricevetti una lettera di un mio amico, il quale
mi raccontava che era stato abbozzato il progetto di cacciarlo dal
suo posto per aver composto apologie fasciste perché protetto
in tutti i modi si era arricchito col fascismo, e infine per aver
collaborato coi tedeschi. «Quando finalmente (egli scrive) mi
fu concesso di leggere i testi d'accusa risultò che uno dei
denunzianti, a me sconosciuto, era imparentato con un lirico
sopraintendente a spasso. Gli teneva terzo un povero avvocatuzzo di
poca fama, e che conta fra le migliori clienti la sua
stupidità. Ha le mani unte di sego, ché egli segue le
processioni: è un pio, tanto pio che denunzia inventando, e
non ha vergogna delle sue menzogne. Si è associato a un degno
compare. Costui da più di vent'anni vive alle spalle della
musica facendo il critico e di musica non ne sa più degli
altri due. Sa di tenere saldamente il suo posto perché non
vale il prezzo della sua liquidazione.
Non dirò quello che costoro inventarono,
cioè il basso pettegolezzo che è caduto contro la salda
muraglia del mio disprezzo. Esaminato il mio curriculum vitae, coloro
che dovettero occuparsi di me per merito di una miserabile
combriccola (che ha l'incolumità perché le delazioni
erano segrete), hanno potuto constatare sino a qual punto possano
arrivare la malafede e l'invidia».
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L'esempio mi
è servito di lezione: rinunzio a qualsiasi prova di
gratitudine, solo ho concluso che «s'io havesse a dir male d'un
mio nimico, non piglierei per iscorta l'imaginativa et pensate
invenzioni, ma sopra i fatti suoi mi distenderei in dir male in
questo o altro si fatto modo».
In un grosso volume che intitolai «alla
berlina», nel 1921 incominciai a riunire i ricordi delle mie
esecuzioni, ma a un certo punto mi stancai, articoli e critiche si
ammucchiarono disordinatamente nel mio archivio.
Perché nel luglio 1945 mi decisi a far venire
tutto questo materiale e per quasi due mesi dedicai al lavoro penoso
e snervante di ritagliare e incollare due o anche tre ore al giorno?
Trovavo la forza di perseverare nel doloroso piacere di rivivere il
passato per dimenticare il presente.
Riunii in alcuni volumi la storia della mia musica
sino al 1945. Pensavo di condurre a termine questo lavoro unicamente
per mia consolazione, per rendermi conto di quello che fui,
però se mi fossi venuto a trovare nelle condizioni del mio
amico, che cosa avrei potuto salvare con la mia formidabile
documentazione? Il posto di direttore del Conservatorio di Venezia,
non quello nel mondo dello spirito ché questo è
invulnerabile. Un artista che sale di grado grazie a un impiego, vale
certamente poco. Dirigere un conservatorio non è un onore,
l'onore è per il conservatorio che ha alla sua testa un
artista. La scuola dovrebbe perciò in tutto e per tutto
corrispondere a quello che vuole e può farne colui che la
dirige secondo la sua esperienza.
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La radio, i
grammofoni e i cinematografi perseguitano l'umanità con le
più orribili musiche per impedirle di pensare e di vivere
nella pace del silenzio. I conservatori dovrebbero perciò
rappresentare un rifugio per chi sente di poter aiutare
l'umanità a sollevarsi. Vivendo in un clima che non consente
il più piccolo tentativo di evoluzione, il direttore di un
conservatorio non è né più né meno che un
direttore di ospedale, anzi di lazzaretto, nel quale molti sono i
malati ma è vietato curarli. Queste mie idee che mi son ben
guardato dall'applicare perché non porto barba di profeta,
molti le hanno indovinate tanto che un musicista che dalla
«rivoluzione in atto» ebbe cento volte più di
quanto meritava, con una spiritosa invenzione tentò di
liberarmi dalla noia di dirigere il Conservatorio. Nel mio lazzaretto
ci sono ospiti molto poco desiderabili e che guarirebbero cambiando
aria.
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Durante
«la rivoluzione in atto» si è creato il mito
verdiano intorno al quale si imperniarono i vari sistemi di
speculazione musicale. Si stabilì anzitutto che, nessuna
critica si poteva muovere all'opera di Giuseppe Verdi. Nacque una
letteratura verdiana utile agli autori di biografie (vite romanzate,
analisi, iconografie ecc. ecc.) ma dannosa in quanto che la
infatuazione servì a vieppiù allontanare ogni interesse
nella musica contemporanea. I veri detrattori di Giuseppe Verdi erano
coloro che si illudevano di poter fare come lui (sognavano il
paradiso terrestre) grazie alla volgarità della loro musica e
la ponevano sullo stesso piano di quel Verdi che si presta alle
riproduzioni meccaniche degli organetti di Barberia e degli
orecchianti. Erano dunque doppiamente antiverdiani, prima di tutto
perché la loro banalità non si poteva paragonare alla
espressione popolaresca del Verdi della prima maniera e poi
perché ripudiavano quasi il Verdi dell'ultima maniera. La
«Gioconda» per, costoro non valeva meno del
«Trovatore» perché si sentivano più vicini
a Ponchielli che all'autore del «Falstaff».
Verdi o non Verdi, la musica popolare, non può
dipendere dal melodramma anzitutto perché accoppiato a una
brutta poesia rispecchia sentimenti teatrali che non hanno nessun
rapporto con la natura.
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Siamo ormai
tanto lontani dal Risorgimento (si gridava allora «evviva
Verdi» per il significato patriottico di questo nome),
ciò non ostante le scuole musicali sono tuttora organizzate
per interpretare unicamente i classici intorno a Beethoven, e i
lirici da Verdi a Puccini come se nulla fosse mutato nel mondo. Le
scuole anziché educare si adattano a servire il gusto corrente
creando molti spostati e altrettanti servitori.
Abbiamo dimenticato gli orrori dell'altra guerra
(orrori molto relativi se paragonati a quelli di questa guerra)
perché non aveva intaccato la fede degli italiani
nell'avvenire della Patria. Dall'otto settembre 1943 s'è
aperta una orribile parentesi e non sappiamo come e quando si
chiuderà.
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Mi ritornano
alla memoria tre date: 1917, 1918 e 1920.
Nella primavera del 1917 a Roma ho assistito alla
nascita del «Ditirambo tragico» e delle «Pause del
silenzio». Del primo nulla è rimasto, pur essendo stato
il punto di partenza, le seconde da quasi trent'anni si eseguiscono
un po' dappertutto e, rifiutano invecchiare.
M'illudo di non sbagliare sperando che le
«Pause del silenzio» non siano il punto di arrivo
perché chi arriva alla mèta ha ed è FINITO.
Nemmeno si può stabilire un itinerario per
questi interminabili viaggi fuori del tempo. Materialmente ho
ripudiato il facile gioco degli sviluppi tematici perché ne
ero saturo e mi venivano a noia. Imbroccato un tema, voltandolo,
girandolo, sminuzzandolo, gonfiandolo, non è difficile
costruire un tempo di sinfonia (o di sonata) che diverte i dilettanti
e soddisfa la insensibilità degli intenditori.
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Il discorso
della, musica veramente italiana (basta pensare a Domenico Scarlatti)
non s'arresta mai, segue la legge naturale dei rapporti e dei
contrasti: non costruzione geometrica ma una architettura pensile e
solida, antisimmetrica e proporzionata.
Difatti questo avrei voluto raggiungere; non ho
insistito per evitare il pericolo del sistema, ché se è
un sistema superato quello dell'artifizio tematico, a che pro
inventarne un altro non meno accademico?
Se il teatro, iniziato con le «Sette
canzoni» (1918) è nato dal bisogno di ritrovare noi
stessi, e i «Rispetti e strambotti» (1920) per troncare
ogni rapporto col più recente passato, attraverso quali dati
positivi potrò rendermi conto se sono uscito dal melanconico
cimitero dell'aurea mediocrità?
Unico mio punto di riferimento sono le feroci
inimicizie, le fastidiose punture di parassiti, le quali dimostrano
che io sono quasi come vorrei essere e valgono a orientarmi da me
stesso.
Quando eravamo giovani pensavamo che i vecchi
critici, refrattari e ignoranti di musica sarebbero pur morti prima
di noi. Difatti morirono ma lasciandocene in eredità molto di
peggiori. Pace all'anima loro e a quella dei successori, che se ce
l'hanno non è certamente musicale.
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Non credo di
avere trovato parole adatte a descrivere la vita dall'otto settembre
1943 in poi. Quello che oggi sopportiamo non è che la
conseguenza della catastrofe di due anni fa. L'Italia fu più
volte sconvolta da guerre e da terribili flagelli, ma la fede
trionfò sempre e forse la salverà anche questa
volta.
È per la mia fede che sopportando disagi
è vivendo nell'angoscia non ho interrotto il mio lavoro e che
proprio sul finire del 1943 rilessi l'«Eneide» di
Virgilio tradotta da Annibal Caro. Senza un piano prestabilito e per
dimenticare, nacque il mio poema «Vergilii Aeneis»
l'opera mia maggiore, perché è stata la mia maggiore
consolazione. Durante un anno intero mi fu dato di vivere fra eroi,
in un mondo leggendario e molto in contrasto con quello che dovevamo
subire nostro malgrado.
Temo di aver troppo parlato di me all'amico che mi
legge, due volte amico se ha avuto la pazienza di seguirmi fin
qui.
Venezia, Epifania 1946.
G. F. M.
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Questa lettera non è mai stata recapitata al
destinatario, perché dimenticata sotto il peso di una
voluminosa documentazione. Se per caso capitasse fra le mani
dell'amico a cui è diretta, si saprebbe egli riconoscere? Come
si potrebbe riconoscere? Dai periodi sottolineati, o dagli argomenti
trattati nella supposizione che possano interessargli? Sarebbe per
caso Alfredo Casella? I malintesi, non sono sempre gravi ma se si
accumulano possono influire sull'amicizia.
Nell'affannosa corsa verso una mèta (sia pure
una chimera), tutto dà ombra, tutto si può interpretare
negativamente quando l'amicizia si perde nel polverone sollevato da
chi corre all'impazzata.
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E Ildebrando
Pizzetti? Certo non la respingerebbe. Quando egli si imbarcò
sulla Nave dannunziana io lo seguivo da terra.
Quante tempeste, quante peripezie! Un giorno ci siamo
trovati faccia a faccia come due naufraghi e guardandoci negli occhi
abbiamo intonato il «de profundis». Che cosa era morto?
La nostra fede? Le nostre speranze erano morte.
Molto verosimile che la lettera sia indirizzata a un
amico che non è mai esistito. Comunque in essa attira la
nostra attenzione il tormento per la scuola, ove si vuol dimostrare
che potrebbe influire sulle evoluzioni dell'arte musicale se non
fosse una istituzione in margine alla musica. Ma chi vorrà mai
darsi la pena di formulare un dubbio se la brutta musica fa piacere a
tutti?
Se superando le difficoltà burocratiche si
potesse riformare la scuola, la musica potrebbe diventare il centro
di tutte le arti, ché i teatri, la danza, la scenografia
abbracciano l'architettura, la scultura e la pittura. La poesia si
fonde con la musica e insieme le fondono tutte.
La musica ora vive di elemosine (sovvenzioni), non si
regge da sé. Se si tiene conto di quello che costa allo Stato
fra scuole, teatri, concerti, e si tiran le somme, si vedrà
che i famigerati incassi degli spettacoli diventano quantità
trascurabile. In onore di questi incassi si dà l'ostracismo
all'arte contemporanea e a quella del passato non di repertorio, con
la scusa che non attirano il pubblico.
Quanto più degno della nostra civiltà
sarebbe di non concentrare l'interesse nei piedi col foot-ball e di
trascinare il popolo verso più degne passioni.
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La stessa
Germania che vantava la più importante organizzazione
musicale del mondo non raccolse quello che seminò,
perché seminò illudendosi che potesse esistere un'arte
borghese a doppio uso.
Si vedevano rappresentati, sullo stesso piano, i
racconti d'Hoffmann di Offenbach, i «Maestri cantori» di
Riccardo Wagner, e il «Pipistrello» dell'altro Strauss, e
spesse volte i programmi erano combinati nei modi più
inverosimili. Da noi, per pudore, non si fa seguire a Bach la
«Vedova allegra», viceversa per godersi diecimila vedove
allegre si tollera un Bach o a denti stretti un'opera di autore
moderno.
La musica in Germania è stata costretta entro
certi limiti perché non ha le nostre tradizioni, vale a dire
le nostre antichissime tradizioni, non quelle recenti improvvisate da
una società di impresari.
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La vera tradizione si perde nei, secoli, però
non si può parlare di un'arte musicale e di uno stile prima
del XV secolo. Sino a tutto il XVIII secolo nella musica italiana, si
possono individuare tre autori: Gesualdo da Venosa, Claudio
Monteverdi e Domenico Scarlatti. Tutti gli altri rappresentano
un'epoca. Per esempio Pierluigi da Palestrina è indubbiamente
un grande compositore italiano, ma come si può distinguere dai
contemporanei? Forse dalla grandiosità della sua
architettura.
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Fra i tedeschi, i francesi e i russi, nel secolo
scorso alcuni musicisti acquistarono il titolo di innovatori
perché rappresentavano il loro tempo. Per esempio chi
più francese e più personale di Claudio Debussy? In
Italia invece si volle creare un nazionalismo musicale combattendo il
carattere dei singoli musicisti, cioè la loro
personalità. In un'atmosfera ostile si crearono parecchi
fuorusciti, i quali con nostalgia guardavano la musica moderna
straniera e la subivano tanto che molti si immolarono rinnegando
patria e religione. Da ciò l'imbastardirsi di buona parte
della musica italiana e la decadenza di tutta quella dell'ultimo
quarto di secolo.
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1945?
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Nell'autunno del 1917, un amico americano aveva messo
a mia disposizione il suo studio, nella villa che a suo tempo
ospitò il figlio del poeta inglese Robert Browning: lo
scultore Barett-Browning. Questo figlio di due poeti fu un artista
solo per la sua comprensione di un paese che riuscì a
conservare come suo padre lo amò, forse perché vi si
potessero ritrovare le immagini di «Pippa passes» e
l'atmosfera di «Asolando». Per merito suo ho vissuto (nel
1911) alcuni mesi in una cittadina che si chiamava Asolo e che non
ritrovai mai più. Che cos'era allora? Due file di case, che si
tenevano in piedi quasi per miracolo. Nel centro della città
esse sviluppavano un quadrato e le botteghe, le osterie e i
caffè sprovvisti di insegne, bisognava scoprirli tant'erano
umili e intonati col carattere del paesaggio.
Il buon Barett-Browning non deve aver incontrato
gravi difficoltà per proteggere ciò che si era salvato
da quelle speculazioni chiamate progresso e certamente l'avranno
aiutato il farmacista, appassionato archeologo, il parroco
collezionista di opere più o meno d'arte ed altri ancora.
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Basti pensare che così si esprimeva un
semplice cittadino asolano, impiegato al Municipio, Antonio Gaetano
Pivetta, nella prefazione alla raccolta delle sue Poesie bibliche, Evangeliste,
Ascetiche: «Lo sprezzare e vituperare ciò che non si
conosce non sarà mai soggetto dell'uomo saggio, ma soltanto di
chi nell'ignoranza è cresciuto. Egli è vero che tale
ognuno sortì dalla culla, ma da essa allontanato ed
all'educazione sottoposto deve questa unitamente alla rettitudine
condurlo all'intelletto che richiede la natura». E concludeva:
«Ed ecco fatta una raccolta dei miei manoscritti e se buona o
trista ad altri lo lascio decidere e se questi, allorquando
nell'essere vitale io più non avrò a trovarmi cadessero
nelle mani di un qualche rigido censore, io non posso che pregarlo
con quell'umiltà che vivente di possedere mi trovo, di non
farne pubbliche polemiche in mio disvantaggio, ma piuttosto di
distruggerli onde resti da queste cancellato il nome dell'autore,
quando fredda salma, o polve sotterra avrà a trovarsi e che
nemmeno sarebbe grato a quella fama cui cercò o cerca
peregrinante presso il mondo di acquistarsi».
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Il brav'uomo s'illudeva che qualche parente o amico,
dopo la sua morte, si sarebbe forse dato la pena di far stampare le
sue opere, che copiate con diligenza benedettina comprendevano
parecchi volumi. Difatti, venduti probabilmente a peso di carta, due
volumi li trovai da un libraio di Milano, uno a Roma (il VII), uno a
Venezia.
Non di proposito, ma per evitare l'umiliazione del
confronto si voleva cancellare una ormai inutile prova, del modo in
cui, pure isolati in mezzo alla campagna, si reagiva contro
l'abbrutimento spirituale.
Fino a mezzo secolo fa gli uomini si muovevano poco,
viaggiavano invece col cervello. Oggi è più difficile
non viaggiare che viaggiare e la cultura si fa attraverso le
cartoline illustrate che gli amici inviano agli amici rimasti a casa,
per farli soffrire di invidia. Si apprendono in tal modo la
geografia, la storia dell'arte e tante altre belle cose!
|
***
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Nell'autunno del 1917 mi ero dunque ridotto nello studio
di un amico americano. Dalle finestre si dominava l'immensità
della pianura dalle Alpi al mare. Uno degli ultimi giorni di ottobre
mi affacciai alla finestra e mi colpì il tragico silenzio. Non
una foglia si muoveva, né carri, né carrozze. Cani,
galline, tutti gli animali erano diventati muti. Indovinai quello che
stava succedendo: in quel momento gli austriaci avevano attaccato,
sfondando il fronte a Caporetto! Mi rifugiai a Roma ed ebbi dai
giovani musicisti di allora qualche prova di
solidarietà. Non solleticati da recondite aspirazioni svolsero una
attività quasi decisiva per il loro avvenire, ché essi
vennero accolti con grande cordialità in Francia, Inghilterra
e in America. La politica estera dell'Italia si può
ricostruire con la statistica degli scambi musicali i quali
registrano con grande precisione gli umori e i malumori
internazionali.
Ricordo fra le altre le lettere di un editore il
quale nel 1932 mi annunziava che un teatro tedesco gli aveva chiesto
un'opera di compositore italiano che si voleva rappresentare per far
cosa gradita all'Italia. Naturalmente io risposi che per far cosa
gradita all'Italia non scegliessero un'opera mia!
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I compositori tedeschi ricomparverofra noi verso il 1922 facendosi
precedere da Arnoldo Schönberg che spianò loro la via con
poco successo però, ché solo Riccardo Strauss
riuscì a dividere i diritti d'autore con Riccardo Wagner.
Durante un'importante riunione di musicisti d'ogni
nazione, m'incontrai con un ministro che mi fece l'impressione di
Satana travestito da uomo. Quando pareva guardarvi scrutava la faccia
del vostro vicino. Egli aveva certamente occhi anche dietro la nuca.
Il suo sguardo e tutto il suo essere incutevano spavento e ribrezzo.
A bruciapelo mi chiede quali fra i musicisti tedeschi viventi io
preferivo, gli risposi: Paul Hindemith e Max Trapp. Mi voltò
le spalle. Avevo colpito nel segno: Hindemith era già stato
eliminato e Max Trapp quasi.
Eravamo nel 1936, nel periodo delle Olimpiadi e si
andava verso quel patto di acciaio che tanto acciaio fece poi cadere
sull'Italia.
Fra le sciagure che sette anni più tardi si
abbatterono su Venezia, gli ospiti che si rifugiarono all'ombra del
campanile di San Marco non è fra le minori.
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(Intermezzo)
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Incontrai
molti anni or sono un individuo dallo sguardo torvo, con uno occhio
semispento, la faccia tumefatta. Avrei dovuto reagire come le donne
isteriche quando vedono un serpente o un rospo, ma riuscii a vincere
la ripugnanza perché presentato da amici e raccomandato quale
uomo d'ingegno. Difatti ascoltai quasi con piacere le sue enfatiche
declamazioni e lo aiutai. Ciò non ostante si valse a mio danno
di una sua diabolica invenzione: raccoglieva frammenti, passaggi,
interi capitoli della letteratura pornografica e li faceva leggere
alle donne che contava sedurre. Le iniziava così alla
prostituzione e quando le vittime erano mature le ghermiva. È
stato punito per aver troppo spesso teso la mano agli amici che
tradiva e che non erano responsabili della bruttezza del suo corpo e
ancor meno di quella della sua anima.
(Venezia, autunno 1944).
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Le calli, come nei gironi dell'inferno dantesco,
formicolavano di gente in fuga. Le barche scivolavano silenziose,
passavano come cortei funebri e quando il canto dei soldati tedeschi
e le risa delle femmine risonavano sull'acqua le gloriose dimore sul
canal grande sembravan sprofondarsi nel fango.
Nulla irritava più della voce umana,
ché soltanto nel silenzio si poteva capire quanto lontani
sì era dalla morte. Pure la musica si respingeva perché
impediva di stare in ascolto.
Durante i concerti, a teatro dominava il sibilo delle
sirene e il rumore dei motori. Nonostante l'evidente
incolumità di Venezia, lo spavento degli ospiti si comunicava
a coloro che avevano il diritto e il dovere di vivere nella propria
città, rispettata solo per quello che le lasciarono in
eredità gli antichi, non per l'opera dei vivi che a poco a
poco tante distruzioni avevano perpetrato.
|
Le ultime note di una sinfonia o di un melodramma non
giungevano mai troppo presto. La paura del silenzio si manifestava
col timore di interromperlo. Ispirate da questa guerra le
«pause del silenzio» non avrebbero potuto esprimere che
il terrore, la morte.
Pur vivendo preoccupati per le sorti della nostra
civiltà, si tentava di reagire immaginando grandi imprese.
Navigammo coi nostri eroi verso spiaggie che esistevano solo nella
nostra fantasia e c'incontrammo con Enea, con Didone.
Non sempre si poteva nutrirsi di illusioni ché
la brutalità non si placava con le segrete torture, essa
esplodeva più malvagia di tutte le macchine infernali non
appena veniva a contatto con la vita reale.
Le ore, i giorni, i mesi passati col poeta che
cantò dì Enea, non sono segnate da cifra, ma dal
ricordo delle sofferenze sopportate durante il nostro tempestoso
viaggio sul mare che più non ci apparteneva. Al risveglio,
ogni mattina si poteva gridare al miracolo: le campane suonavano a
festa per gli indifferenti, a morto per noi e i loro rintocchi ci
perseguitavano anche nel sonno. La sera dell'armistizio alcuni
sbandati invasero il campanile, s'attaccarono alle corde, ma i sacri
bronzi di San Marco si rifiutarono di squillare per la pace, essi
annunziarono nuove sciagure.
|
***
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Quali possono essere le nostre aspirazioni? Che si
aprano le frontiere: ritrovare gli amici. Vincere la loro diffidenza
e non umiliarsi. Rifiutare la corona del martirio ché per noi
sopravvissuti alla guerra, la guerra incomincia ora.
È giunto dall'America un articolo informativo
dì Darius Milhaud nel quale si parla dei musicisti rifugiati
negli Stati Uniti. Questi martiri che vissero al sicuro, nel paradiso
dei dollari quando ritorneranno in Europa? Probabilmente dopo la pace
e dopo riorganizzati gli scambi e i cambi.
Le ideologie in conflitto e il razzismo hanno messo
in pericolo molti celeberrimi musicisti, bisogna, però fin.
d'ora stabilire da quale parte vissero i martiri. La nostalgia per la
patria è certamente gravissima sofferenza per chi è in
esilio, ma i bombardamenti, le rivoluzioni, la fame ecc, ecc. non
rendono la vita molto piacevole. I musicisti che nel 1940 non erano
minacciati direttamente non si sono mossi, ma a poco a poco son
venuti a trovarsi bloccati nelle vicinanze dei fluttuanti campi di
battaglia. Le esperienze dei cinque durissimi anni vissuti
nell'inferno europeo, sì riscontreranno nelle opere degli
scampati alla morte? Oppure avranno essi continuato a intingere la
loro penna nel solito calamaio senza nemmeno accorgersi che persino
l'inchiostro era un surrogato? Quali vantaggi avrà portato
all'America la presenza di tanti illustri musicisti? |
Eccezione fatta per lo Strawinsky che, com'era logico,
sì è ancorato a Hollywood, tutti gli altri insegnano
composizione nelle varie università americane. Riceveremo
così d'oltreoceano le opere dei schoenberghiani, (pare
più dodecafoniche che mai) degli Hindemithiani ecc. ecc.
Darius Milhaud non ci parla di Ernesto Bloch [2]. Forse
lo considera americano. Oltre il poco che di Strawinsky abbiamo
potuto sentire attraverso la radio, e che ci ha già orientati,
Darius Milhaud sottolinea il fatto che i musicisti di laggiù
hanno preferito la sonata per due pianoforti (scritta in Europa nel
1936) alle opere del periodo americano, opere, che come sempre, sono
tutte state composte per qualche occasione. La «Sinfonia in
do» per il cinquantenario dell'orchestra di Chicago,
l'«Ode» in memoria di Natalia Koussevisky, le danze
concertanti e le «Scènes de ballet» per uno
spettacolo a Broadway e infine la Circus polka per gli elefanti del
circo Barnum.
Nonostante l'amore per gli animali questi elefanti
sono sconcertanti. Il circo Barnum è un'offesa per noi che
abbiamo visto andare in polvere il Mantegna degli Eremitani dì
Padova e tante altre belle cose.
|
***
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Le sorti della musica contemporanea europea sono
ancora molto incerte. Si nota solo qualche tentativo di riorganizzare
i luoghi: Bayreuth, Salisburgo, ecc. ecc.
Bayreuth e Wagner fanno veramente tutt'uno, ma che
Mozart sia nato a Salisburgo è un fatto che interessa soltanto
i biografi. È a Vienna che egli ha vissuto, alla Corte
dì Maria Teresa; la sua era una musica spensierata che non
doveva mai stupire né turbare la pace durante le ore di svago,
nei teatri, nelle feste di Corte: a Salisburgo si trasforma come
quadro al quale si cambi la cornice, la grande cornice barocca tutta
dorature si sostituisce con una di quelle che gli alpigiani
intagliano nel legno e che san odor di pino.
La vita quasi campagnola di Salisburgo non è
per Wolfango Amedeo Mozart, ma lontano dalla, ex capitale del Sacro
Romano Impero, i turisti si sentono più a loro agio È
accorrono per vedere dove e come si confezionano i geni per
esportazioni.
Di Beethoven si può dire: preferisco la
settima alla nona sinfonia, o la quarta alla sesta. Di Mozart la
scelta è quasi impossibile ché le sue composizioni sono
tutte identiche, tutte serene, molte in tempo di minuetto. Il loro
stile è italiano (salvo nelle proporzioni) e si confonde con
quello dei nostri Pergolesi, Galuppi, Jommelli, Sarti; le ariette e
le ouvertures sono tutte costruite sullo stesso stampo delle
ouvertures e delle ariette dei Bertoni, dei Piccini, degli Anfossi.
Tutti indistintamente componevano aprendo le finestre per lasciar
entrare l'aria del tempo, aria pura: la radio non esisteva ancora.
|
Non è difficile distinguere Canaletto da
Guardi, Zuccarelli da Zais, non servono invece le analisi degli
eruditi, che si basano sulla enumerazione dei particolari grafici
(preferenze e intercalari) per individuare un musicista del XVIIII,
secolo. Si rassomigliano tutti, come le parrucche, le velade, le
tabacchiere, le sedie, i tavoli, i cassettoni. Nel vestire e negli
arredamenti ogni particolare si curava con grande amore, nella musica
non si cercava che di far presto, si tirava via.
Svariatissimi e divertenti documenti provano che. la
indifferenza per la musica, nel XVIII secolo aveva già fatto
notevoli progressi. Per esempio in un quadro del Battaglioli si vede
ai piedi di una gradinata (dunque all'aperto) un'orchestra:
clavicembalo, tre violini, oboe, contrabbasso. Accompagna una
cantatrice.
A destra due dame e un cavaliere che le intrattiene.
Un domestico versa il caffè. A sinistra un altro cavaliere
preoccupato (forse geloso) li tiene d'occhio. Soltanto un cane
montato su una sedia ascolta attentamente la musica.
|
(Alla fine del VI secolo scriveva nel trattato di
musica Lodovico Zacconi: «quando si dice che gli animali per il
canto restano amirativi et che mostrano esser della melodia presi, si
ha da intendere quell'attione che fanno mentre che uno canta che con
drizzar il capo a quella voce et star intenti danno segno di udir
cosa dilettevole»).
Il suonatore di contrabbasso legge con la faccia
voltata verso la parte del maestro al cembalo, e la posizione degli
altri suonatori, ugualmente incomoda, dimostra che le
difficoltà da superare dovevano essere molto relative.
Questa orchestra il Battaglioli l'ha certamente colta
dal vero, come una istantanea, perciò in ogni particolare
interessa la storia della tecnica orchestrale. La musica che con
l'avvento del melodramma s'era a poco a poco allontanata dalla
chiesa, alla metà del XVIII secolo, incipriata e sorridente
risaliva alle cantorie. Il cicisbeo l'ascoltava, se l'ascoltava, con
uguale indifferenza a teatro come in chiesa e le dame all'Agnus Dei
in tempo di gavetta, distrattamente tendevano la mano al cavalier
servente.
|
***
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Un documento di eccezionale importanza è stato
scoperto in questi giorni da uno che non cerca e perciò trova.
Si tratta del «gioco pitagorico musicale col quale potrà
ognuno, anco senza sapere di musica, formarsi una serie quasi
infinita di picciole ariette e duettini per tutti lì
caratteri, Rondò, Preghiera, Polacche, Cori ecc., il tutto
coll'accompagnamento del pianoforte, o arpa, o altri strumenti,
composto e dedicato agli amatori delle belle arti ed alle
filarmoniche conversazioni da Antonio Calegari, primo organista
dell'insigne basilica di S. Antonio di Padova. Venezia
1801».
«L'Europea Musicale Repubblica è si
viziosamente fornita di opere profonde ed insigni, che sembrano
esaurite le fonti del Bello. Difatti chi oserà emulare, non
che superare un Zarlino, Ramau, Rousseau, Fux e Martini nel genere
scientifico? Chi nel filosofico-madrigalesco un Marcello, un Hendel
[sic]? Chi nello spettacoloso teatrale un Gluch [sic], Piccini,
Sacchini ecc.? Chi finalmente nell'istrumentale un Haydn, Mozart e
tanti altri che ommetto per brevità?» (Che vuol dire col
filosofico-madrigalesco di Marcello?).
|
A fronte dì tutto ciò ardisco di
presentarmi agli amatori della Musica e Poesia con un'opera ch'io
reputo del tutto nuova. Quest'è un piano sperimentatissimo,
col quale il Professore, il Dilettante, il Discepolo, e fino chi
affatto ignorasse il musicale Alfabeto potrà da se stesso
formarsi la Musica ad ogni regolata Poesia ed avrà per ogni
metro materiali bastantissimi ad esprimere qualunque sentimentale
poesia, variar potendo a piacere per una serie quasi
infinita».
Ed ecco le «istruzioni necessarie per ben
intendete il gioco».
«Prima di tutto si fa con due dadi»,
«si gettino dunque tante volte, quante sono le colonne che
compongono la tavola» la tavola è composta di otto
colonne, una per ogni battuta, e 11 sono ì numeri di ogni
colonna perché 11 sono le combinazioni che possono dare due
dadi, cioè dal 2 al 12. Per ogni numero della tavola
c'è l'equivalente
battuta alla quale si possono applicare anche i versi
purché siano di otto sillabe, come
Solo effetto era d'amore quel timor cheavea nel petto e d'amore
è solo effetto or la speme del mio cor. ecc.
«Questo metro comprende più caratteri,
il grazioso, il grave, il sostenuto, il flebile.»
Varierà il carattere della poesia, anche se religiosa, la
musica però rimarrà sempre la stessa!
|
«Le persone religiose poi, se non vogliono
esercitarsi nelle cose profane, hanno di che poter sostituire invece
coi sacri oratori, cioè con la Parafrasi dei salmi del
celebratissimo sig. Saverio Mattei, cogl'inni e molte altre
cose.»
Come già spiegato ogni numero. comprende una
battuta, e le battute sono numerate di seguito, ma completamente
indipendente l'una dall'altra.
Il loro carattere corrisponde a quello di una prima
battuta (inizio) o delle battute di mezzo (2, 3, 4, 5, 6, 7) o
all'ottava battuta che conclude il periodo. Presa isolatamente ogni
battuta si potrebbe attribuire a un qualsiasi compositore del XVIII
secolo, compreso Mozart. L'intero periodo, combinato dalla sorte (dai
dadi) bisogna andar più cauti nel giudicarlo ché la
fretta e l'istintiva fedeltà allo stile dominante, hanno
tramandato molte improvvisazioni non migliori di quelle uscite dal
gioco dei dadi.
Le operazioni sono due: la prima per comporre a una
voce con accompagnamento, la seconda per formare «il duetto con
l'alternativa fra le parti nel genere grazioso».
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Qualora la pubblicazione non recasse la data-1801,
sarebbe giustificato il sospetto
che molti musicisti del XVIII secolo se ne fossero
serviti, certo che l'organista padovano ha dovuto fare anzitutto
opera di critico perché in realtà, anche senza servirsi
dei dadi, durante quasi un secolo i musicisti sono andati avanti
ripetendo sempre le stesse frasi, gli stessi modi di dire, o di
cantare.
Il Calegari col suo gioco ha avuto il coraggio di
dimostrare che la creazione musicale era appunto un gioco. Forse per
tale ragione questo libro è molto raro; certamente musicisti e
critici l'hanno dato alle fiamme per vendicarsi di un pericoloso
guastamestieri.
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***
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Potessi anch'io penetrare nel cervello di coloro che
oggi compongono, criticano e parlano di musica per scoprire il loro
gioco! Invidio l'arguto organista del Santo di Padova, però
sono convinto che oggi non riuscirebbe a combinare le sue tavole,
perché gli cambierebbero le carte in tavola. Il gioco è
tenuto da bari.
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«Viva fuit in sylvis, fui dura occisa
securi,
dum vix tacui, mortus dulce cano.»
Vorrei che così si potesse scrivere sulla mia
tomba.
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[1] Vedi G. F. Malipiero - La pietra del
bando, pagg. 78-79.
[2] Con Ernesto Bloch per
qualche anno ho tenuto un interessante carteggio. Ci divideva allora
soltanto l'Atlantico!
A Roma, mentre parlavo al portiere del mio albergo
qualcuno chiese del Maestro Bloch! Corsi al telefono, fissammo
l'appuntamento. L'incontro fu cordialniente freddo.
Non lo rividi mai più, mai più mi
scrisse.
Eravamo fatti per scriverci, non per guardarci negli
occhi. (Roma 1931).
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