I dizionari Baldini&Castoldi

Debora e Jaele di Ildebrando Pizzetti (1880-1968)
libretto proprio, dal Libro dei Giudici

Dramma in tre atti

Prima:
Milano, Teatro alla Scala, 16 dicembre 1922

Personaggi:
Debora, profetessa di Israele (A); Jaele, moglie del kenita Hèver (S); Mara (Ms); il kenita Hèver (Bar o B); Nabì, principe di Neftali (Bar o B); Baràk, capo degli eserciti israeliti (Bar o B); Azriél (T); il cieco di Kinnèreth (B); Scillèm (T); Jèsser, il pazzo (Bar); un pastore (B); il re Sisera (T); Talmài (Bar o B); Adonisèdek (Bar o B); Piràm (Bar o B); Jafìa (T); uno schiavo (T); capitani e guardie cananei, israeliti



«La prima opera veramente tutta mia»: con queste parole Pizzetti annunciava la nascita di Debora e Jaele , quasi a voler ratificare un allontanamento da D’Annunzio, il ‘poeta incantatore’ con cui si era aperta la sua carriera teatrale. Il compositore questa volta aveva provveduto in prima persona alla stesura del libretto e non aveva cercato il consenso dell’Immaginifico ma di un’altro poeta, Annibale Beggi, l’amico col quale aveva già collaborato per l’idea giovanile di Sabina. Tuttavia, l’atteggiamento dannunziano – comunemente riconosciuto al dramma musicale di Pizzetti (specialmente nella produzione di quel periodo), indipendentemente dal fatto che libretto o soggetto appartengano al poeta o siano propri – è rintracciabile anche in quest’opera, opportunamente filtrato: l’esaltazione di un individuo spiritualmente superiore, il messaggio morale che investe l’eletto e la crudeltà delle prove cui si deve sottoporre, l’allusione a un mondo d’ideale elevatezza. «La genesi di Debora ! Prima il bisogno e il desiderio di creare dei personaggi che io potessi amare, nobili, puri, mossi da sentimenti e da passioni degne, e poi il desiderio (...) di esprimere con la mia voce quel meraviglioso mondo biblico, in cui, pare a me, possiamo ritrovarci tutti, gente di tutto il mondo, con le nostre passioni, le nostre aspirazioni, i nostri vizi (...) e la nostra speranza». Un mondo biblico in cui la missione dell’eletto non è eversiva, come in D’Annunzio, ma volta a preservare l’integrità della comunità. È la mistica dell’amore che si sostituisce a quella della potenza: una religiosità vissuta come «partecipazione con animo puro alla vita». Debora, come lo Straniero, Fra Gherardo e Orsèolo, diventa la voce di un’umanità che ricerca l’affermazione dell’amore. Il dannunzianesimo è dunque un mezzo che trasfigura l’umanità in ‘sovrumana umanità’, che ricerca una religione nelle vicende della vita e che sigla i valori dello spirito nell’eroe: colui che assomma in sé tutte le esperienze umane, le nostre esperienze. All’elaborazione del libretto Pizzetti attese dal 1917 al ‘21; la composizione, iniziata il 18 luglio 1918, terminò il 21 giugno del ‘21. Secondo Mario Castelnuovo-Tedesco, la genesi di Debora sarebbe da porre in relazione anche alla lettura della Judith di Hebbel, testo che egli stesso aveva fatto conoscere a Pizzetti; vi sarebbero in effetti analogie tra «le scene di una grandiosità davvero biblica del popolo di Betulia affamata» e il primo atto di Debora , in grado di evidenziare precisi suggerimenti tratti dal lavoro del drammaturgo tedesco ( Judith risale al 1839). L’adattamento della nota vicenda dell’Antico Testamento preserva in un certo senso solo la cornice esterna della storia originale: la motivazione risulta completamente rivissuta, tanto che l’identificazione del bene e del male pare quasi rovesciata. I conflitti rappresentati nel dramma traggono spunto da un episodio della guerra tra Ebrei e Cananei, al tempo detto appunto ‘dei Giudici’. All’interno di questa cornice v’è spazio per uno scontro più articolato e individualizzato, tra l’affermazione di una legge severa e arcaica (personificata dalla profetessa Debora, voce dello spirito dell’Antico Testamento) e il superamento di questa stessa legge in un’altra più umana, che anticipa la pietas cristiana. Quando, verso la fine del dramma, Debora chiede a Jaele, che ha ucciso Sisera, nemico ma anche amore di un tempo, «Hai udito la voce del Signore?», la risposta di quest’ultima, dolorosa, è «Non del tuo Dio... d’un altro, che non conosci!».

Atto primo . In Palestina, nel XII secolo a. C. In una piazza di Kedeh, davanti alla casa di Baràk, capo dell’esercito ebraico, il popolo attende di ascoltare la profetessa Debora. Si invoca la guerra contro Sisera, re dei Cananei, ma quest’ultimo è chiuso fra le mura inespugnabili della città di Haroscet. Debora, conoscendo il sentimento che Sisera nutre nei confronti di Jaele, decide di assegnare a quest’ultima, accompagnata da Mara, il compito di attirare il re fuori dalla città, sul monte Tabor, affinché gli Ebrei possano facilmente sconfiggerlo.

Atto secondo . Nel palazzo di Haroscet, Sisera fa imprigionare Hèver, venuto a tradire gli israeliti; malgrado Jaele si presenti poco dopo come donna velata, non può portare a termine la sua missione: un ministro di Sisera è venuto a conoscenza della presenza degli israeliti sul monte Tabor. Vistasi scoperta, la donna si getta sul re per ucciderlo, ma all’improvviso si rende conto di esserne innamorata: il perdono offerto da Sisera la conquista, vorrebbe rimanere; sarà il canto di Mara, che piange il figlio ucciso dai Cananei, a ricondurre Jaele alla realtà. Turbata, chiede al re di lasciarla partire e Sisera acconsente, promettendo di raggiungerla dopo la vittoria sugli Ebrei.

Atto terzo . Sconfitto inaspettatamente dall’esercito ebraico, Sisera si rifugia nella tenda di Jaele, nel querceto di Saananim. Il fatto è riferito a Debora da Mara: la profetessa giunge sul luogo e intima la consegna del sovrano. Jaele reagisce dapprima offrendo la propria vita in cambio di quella del re; poi, quando una folla minacciosa di Ebrei si avvicina alla tenda, uccide l’amato nel sonno, per risparmiargli lo scempio che ne avrebbe fatto il popolo.

A differenza di Fedra , Debora lascia intravvedere l’esistenza di un mondo ideale, in cui v’è spazio per la pace e il perdono; e la nuova inclinazione del piano ideologico si riflette nell’assetto drammaturgico. Nell’opera la tradizione modale si qualifica come colore dello spirito, si integra di significato religioso, diviene referente di un passato liturgico; e parola e musica si fondono in un declamato in grado di amministrare l’economia espressiva dell’intero dramma, elemento regolatore dello stesso tessuto sinfonico-tematico, del linguaggio armonico, della dinamica, del timbro. Come è stato rilevato, «non v’è personaggio... che non sia fortemente caratterizzato dal musicista, che non sia individuato dal suo linguaggio, sintassi e accento... Soltanto la profetessa ci mostra sempre lo stesso viso, ci rivela la stessa certezza; gli altri, Jaele, Sisera e il popolo, mutano di scena in scena e quest’ultimo più volte in breve volgere di tempo» (Gatti). Proprio il coro assurge in Debora a vivide funzioni drammatiche e dinamiche, da personaggio addirittura protagonista; non più statico e lirico come in Fedra , incarna la mutevole psicologia della folla, si fa carico di condurre l’azione (particolarmente nel primo atto) sia interferendo con le voci dei protagonisti, sia differenziandosi al suo interno in gruppi contrapposti, vincolati a passioni antitetiche, interagenti. L’idea pizzettiana di dramma, che ricerca un continuo divenire dell’azione, non impedisce la presenza di notevoli squarci lirici: i momenti vissuti da Jaele e Sisera nel secondo e nel terzo atto, o la ninna-nanna di Mara nel primo, che ritorna alla fine con valore evocativo, di stimolo alla missione omicida di Jaele; sono picchi lirici che penetrano nel vivo dell’anima dei vari personaggi, esprimendone le passioni con vivida intensità, con realistica forza vitale. Salutata al tempo della ‘prima’ come l’opera del «più grande musicista italiano d’oggi» (Gatti 1921), Debora e Jaele fu presto ritenuta, a dispetto delle voci dissenzienti, non solo il capolavoro del suo autore, ma addirittura una delle vette dell’opera italiana del XX secolo; Debora e Jaele fruttò tra l’altro il conferimento a Pizzetti – nel 1931 – del premio Mussolini (assegnato da una commissione formata da Accademici d’Italia), per «l’elevatezza degli intendimenti artistici, la singolarità del principio estetico informatore, la nobiltà dell’ispirazione e dello stile, la sapienza tecnica». Nel 1956 era ancora ritenuta degna di occupare un prestigioso terzo posto (insieme alla straussiana Salome ) nella rosa delle venti opere più importanti del secolo; pure, dopo la scomparsa del compositore, è uscita completamente dal repertorio, come del resto gli altri suoi lavori. Neppure le celebrazioni del centenario pizzettiano (1980) hanno finora stimolato una fase di riavvicinamento al musicista di Parma, in vista di una riproposta della sua migliore produzione.

m.t.m.

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