ALFREDO CASELLA

IL LINGUAGGIO DI G. F. MALIPIERO

I primi sintomi della crisi che attualmente interessa l'armonia propriamente detta, l'armonia cioè che si chiama strumentale-classica e che ebbe inizio coi primi albori del Cinquecento, coincidono col nascere del presente secolo. L'armonia classica, basata sulle tre «funzioni» di tonica, dominante e sottodominante, era stata infatti oggetto, sin da G. S. Bach, di una progressiva penetrazione cromatica che poco a poco ne aveva alterato la fisionomia, e quel processo cromatico giungeva, già alla metà dello scorso secolo, al formidabile sviluppo del Tristano. Ma dopo Wagner il processo di alterazione cromatica si era ancora accentuato, sino a porre un serio interrogativo dinanzi al problema totale dell'armonia. Negli anni 1910-1915, varie erano le posizioni assunte dalle maggiori scuole europee di fronte alla situazione determinata dai Russi, da Strauss e da Debussy, musicisti tutti che avevano - chi più chi meno - sentito la necessità di uscire dal vecchio binomio «maggiore-minore» e di allargare i limiti del senso tonale. Questo superamento della antica concezione modale - già presagito da Bach e da altri minori musicisti - «bussa già alle porte» col Tristano, nel quale Wagner stesso confessa di avere dimenticato ogni teoria e di muoversi colla più grande libertà (la rivoluzione era però prematura, e Wagner per primo doveva rinunciare - nei lavori successivi al Tristano - ad esplorare più profondamente le nuove terre intravedute).
Ravel aveva continuato lo sfruttamento degli armonici, superando l'accordo di nona dominante maggiore per usare correntemente l'undicesimo armonico, il quale, assieme ad un uso estremamente sottile e raffinato delle cosiddette «appoggiature non risolte» costituisce la base della sua armonia (sono del resto oggi ancora numerosissimi i compositori che basano tutto il loro giuoco armonico su settime oppure none dominanti più o meno sapientemente «mimetizzate» mediante sovrastrutture che vorrebbero creare l'illusione di un nuovo linguaggio musicale). Mentre Ravel sviluppava così «in altezza» l'armonia classica e soprattutto romantica basata sugli armonici, il viennese Arnold Schönberg, partito dal cromaticismo wagneriano, riusciva sin dal 1909 (nei tre Klavierstúcke op. 11) a sostituire alle antiche scale diatoniche dì qualsiasi tipo la scala cromatica, stabilendo l'eguaglianza assoluta dei suoi dodici suoni ed abolendo i vecchi «privilegi» della tonìca, della dominante e della sottodominante. Più tardi (nel 1921-26 circa) egli sviluppava la sua conquista e creava il «Zwölftonsystem», vale a dire la composizione «dodecafonica», sia sotto forma di «serie» melodiche, sia sotto quella di regola determinante dell'armonia.
Nel, 1913 poi, scoppiava come una bomba la Sagra della primavera, nella quale Strawinski riaffermava potentemente la vitalità delle antiche scale, ma ìn pari tempo dimostrava, colla politonalità così prepotentemente usata in questo capolavoro, la possibilità di dare un nuovo significato alla modulazione, dapprima limitata alla successione ed invece ormai raddrizzata nella «verticalità» della sovrapposizione armonica.
Riassumiamo dunque le varie posizioni della musica europea ìntorno al 1910-15: sfruttamento estremo raveliano degli armonici naturali, base dell'armonia dal Medio Evo al 1900; dodecafonia (impropriamente chiamata atonalità) schönberghiana che doveva poi dare origine ad un nuovo sistema costruttivo-componistico; politonalità infine strawinskiana, colle sue larghe conseguenze di liberazione - sia pur non di rado empirica - dalle antiche regole che avevano diretto per secoli il movimento delle parti nella polifonia vocale e strumentale.



GFM - CARICATURA DI CASELLA

Nel 1910 Gian Francesco Malipiero aveva ventotto anni. Egli usciva dall'insegnamento di M. E. Bossi e di Max Bruch, didatti i quali debbono certamente aver non poco influito - per reazione - sulla formazione della sua potente e spregiudicata personalità. Come tutti quelli della nostra generazione, egli poco poteva imparare in una Italia dove a mala pena si cominciava a pronunciare il nome di Debussy (Strawinski e Ravel vennero introdotti da me nel 1915 all'«Augusteo», ed erano le loro prime esecuzioni orchestrali in Italia) e dove i musicìsti più «aggiornati» scoprivano con sbigottimento la scala per toni interi, che da vent'anni correva il mondo. Ma al giovane veneziano erano bastatì pochi mesi di viaggi all'estero per aver una rapida e definitiva conferma della legittimità di quanto la sua sensiblità gli aveva già suggerito. Nel 1913, Malìpiero aveva già pienamente conosciuto le esperienze di Ravel, di Strawinski (egli udì in quel medesimo anno a Parigi la prima della Sagra) e di Schönberg. Egli sapeva ormai che cosa fosse la musica europea e quali, per un italiano, i problemi da risolvere.
L'armonia di Malipiero rappresenta una posizione di totale indipendenza paragonata alle varie espressioni europee sopracitate. Se anche egli ha conosciuto ed approfondito Schönberg, nulla è penetrato nella sua arte della dodecafonia propriamente detta. Neì riguardi di Debussy e di Ravel, la sua armonia è altrettanto indipendente, non basandosi essa mai sulle none dominanti maggiori e nemmeno sull'undicesimo armonico. E se anche questa musica pratica correntemente la compenetrazione di varie tonalità, rimane però sostanzialmente dìversa da qualsiasi Strawinski.



L'allargamento nel senso tonale è ottenuto da Malipiero dapprima col largo uso di modi antichi: dorico, ipodorico, frigio e misolidio. Artificio che egli adopera in comune con altri molti musicisti: Russi, Debussy, Ravel ed infine Pizzetti, senza però che mai si possa confondere Malipiero con uno di quelli. Ma il maestro veneziano riesce soprattutto a creare una nuova atmosfera tonale con continui contrasti ed urti fra modalità e gravitazioni tonali divergenti, determinando così una incertezza tonale, una instabilità modale, che costituisce uno dei lati più potentemente originali di quell'arte.



Quest'armonia è essenzialmente antiromantica, nel senso che è pura di ogni residuo cromatico ottocentesco. Da essa sono eliminate non solamente, come già abbiamo veduto, le none maggiori dominanti, ma persino le settime dominanti in funzione cadenzale. Nulla rimane dell'armonia impressionistica francese (se eccettuiamo alcuni parallelismi di accordi perfetti, di lontano sapore debussiano), e nemmeno si trovano (come abbiamo pure constatato a proposito di Ravel) accordi di undicesima dominante maggiore. Viceversa Malipiero usa frequentemente accordi di quarte sovrapposte, riuscendo a dare loro una intensità espressiva come forse non ha saputo raggiungere nessun altro maestro col medesimo artificio. Un altro merito di Malipiero è quello (che solo un altro italiano della sua generazione può condividere con lui) di non aver mai adoperato la poverissima e sciatta scala per toni interi, per quanto quella costituisse un vero pericolo universale al principio di questo secolo.



È l'armonia che occorreva per l'arte di Malipiero e che sola poteva permettere alla sua musica di realizzare quella fermezza di linee, quel pathos doloroso e così umano, quella totale assenza infine di ogni decorativismo e persino di ogni virtuosità strumentale. Carattere quest'ultimo che è essenziale della musica malipieriana, e che è una delle ragioni maggiori della grande difficoltà di esecuzione di quella musica.



Ma soprattutto è un'armonia di profonda, inconfondibile originalità. Sotto apparenze che ai loro tempi scandalizzarono i cosidetti «benpensanti» della nostra terra, e che fecero persino accusare Malipiero di mancare di «italianità», è invece quella un'armonia tipicamente nostra, per le sue qualità di indipendenza e di meraviglioso equilibrio. In essa, eliminato quanto vi è ormai di caduco e di superato del linguaggio romantico, rimangono vivi e possenti gli echi della maggiore coralità nostra e della scuola veneziana cinquecentesca, perchè Malipiero non rinuncia al culto della consonanza e dell'accordo perfetto quando la sua arte lo richiede. Ma accanto a questi elementi di secolare nobiltà, egli oppone - fondendole in una medesima eloquenza - le conquiste più legittime dell'attualità. In quest'epoca ove quattro secoli di armonia sembrano oggi dissolversi in una specie di «dissociazione atomica», aurora probabilmente di un nuovo mondo sonoro che però non sarà concesso a nessuno di noi di conoscere e nemmeno di immaginare, in questa epoca oscura ed inquietante, ogni parola che valga -come è precisamente l'arte di Malipiero - a tener presente quanto rimane tuttora vivo e fecondo della tradizione passata ed a difendere l'ordine artistico di fronte all'anarchia, è parola altamente benefica e, nel caso specifico dell'autore delle Sette canzoni, risponde ancora una volta al compito che la storia ha sempre assegnato all'arte italiana.

[Da La Rassegna musicale, febbraio-marzo 1942; anche in L'Opera di Gian Francesco Malipiero]