VITTORE BRANCA

MALIPIERO
MI VERGOGNO DI ESSERE VENEZIANO

Trovata un'autobiografia inedita di Gian Francesco Malipiero.
Accusato dalla sua città di fare musica fascista e di aver 
approfittato del regime, il grande musicista reagì duramente 
ricordando di non aver mai ricevuto favori né medaglie


© IL SOLE 24 ORE 25/10/1992
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«Da Lei mi sarei aspettato meglio!» …E io da Lei, nel giudicare musica, no.» Fu lo scambio di battute fra un gerarca, che poteva essere Starace, e Malipiero autore della Favola del figlio cambiato, su libretto di Pirandello. Scoccò al Teatro dell'Opera di Roma, presente Mussolini, alla prima (24 marzo 1934) - e per allora «unica» - dell'opera, perché giudicata antimonarchica e antifascista dal Duce stesso. Per un altro gerarca piccolo, ma di cui gli si esaltava l'importanza, Malipiero nel suo veneziano «Go capio: xe' a l'altessa de la situasion». E dopo la fredda accoglienza - anche questa forse per ragioni politiche - di Antonio e Cleopatra al Comunale di Firenze (4 maggio 1938), a me che nel crocchio di amici per rompere un silenzio un po' gelato lodavo le sue Memorie utili e i suoi Profeti di Babilonia folgorava «Dunque per lei sono più scrittore che
musicista!». Se ne corse poi via di scatto saettando.
E da Asolo il 22 settembre '56, scrivendomi ridentemente, dopo che Vittorio Cini per la sua mordacità a mensa l'aveva chiamato il «Malissimo Pero»: «Per finire: il nome Malipiero ha una strana origine (documentata): viene da Mastro Piero, latinizzato Maripetrus e venezianizzato Malipiero. Come vedi niente pere: e forse i mali provengono dal fatto che sono nato Mastro, da cui 'Maestro'. È terribile!! Ho molto lavoro, per questo non vengo a Venezia 'a dormire'. Veglio qui la notte.»
Lo scatto e la battuta, il saettare e il folgorare, fra entusiasmi e risentimenti, fra passioni e puntigli, fra esaltazioni e maledizioni, fra tizzi e fiamme, erano i ritmi nativi del vivere e del creare di quell'unicum che fu Gian Francesco: e costituiscono il fascino di quella sua bizzosa autobiografia che è l'inedita Esalazioni epurative.
Il suo estro di musicista e di scrittore - librettista sorprendente, memorialista elegantissimo, saggista fra i più fulminei e penetranti - sembrava modulato sul suo muoversi e sul suo conversare. Camminava lento, ma a scatti, sostando per guardarti o perché i cani che lo accompagnavano glielo imponevano, riprendendo d'un tratto per fermarsi di nuovo o tornare sui suoi passi a una vetrina o un particolare stradaiolo che lo colpiva: un passeggiare così per passeggiare, sembrava, ma che invece aveva una direzione ben precisa, una meta già stabilita. Parlava a sprazzi e baleni, ad aforismi e motti, con un dialogare spezzettato da parentesi, da soste riempite dal suo sguardo interrogativo e di battute divaganti, misteriose e pungenti, con quella sua voce dai timbri puri, come gridi di uccelli marini. Ti avviava in una direzione, poi svicolava in un'altra, sempre fra deviazioni, arresti, falsi scopi: per farti solo in fine avvertire che tutto il discorso era logico e costruitissimo, mirava a un fine, a una conclusione intuita e fissata da lui lucidamente sin dal principio. La sua stessa aria perennemente svagata era un siparietto dietro cui signorilmente nascondeva una memoria vivacissima e tenacissima e un'eccezionale capacità di intuire e di comprendere, un prezioso e costante senso del pittoresco, una multiforme cultura volta sempre a casi concreti.
Il movimento della sua scrittura ha questo stesso fascino, insieme dell'imprevedibile, anzi del rabdomantico, e del logico e del conseguente: dell'avventura a sorpresa e del già tutto prestabilito. Nel suo procedere musicale o saggistico o narrativo, tutto ambagi calcolatissime e soste di parentesi e deviazioni ammiccanti, sfolgora improvvisa e decisiva l'illuminazione.
«Il suo stile, la polifonia vocale del XVI secolo, lo perfezionò accostandosi, nell'inevitabile ritardo del suono rispetto alla luce, all'arte del Rinascimento...»: ed è definita con uno scorcio prodigioso la proporzione matematica e metaforica, fisica ed estetica: suono sta a luce come musica sta a pittura. «Durante il XV e XVI secolo la musica avanzò compatta, quasi volesse dare in forze l'assalto all'avvenire»: un crescendo militare, alla Chesterton, che annuncia il grande secolo musicale europeo. «Sciagurata musica, che cosa sono quei poveri che devono fare stare allegri i ricchi? Poveri di spirito, cioè musici, che non sanno far meglio che cantare, suonare e ballare»: una voragine grottesca e apocalittica, alla Ensor, in cui minacciava di sprofondare la musica, come avvertì questo nuovo «profeta di Babilonia».
La stessa pungente rapidità nei ritratti umorosi e balenanti: quelli dei solitari dialoghi asolani col Poliziano, il Burchiello, lo Zarlino, l'Aretino, il Doni, i suoi Monteverdi e Vivaldi; e quelli negli incontri e scontri, su una ampia scena europea, con musicisti di ieri e di oggi. «Dopo il 1553... la musica scompare dalle opere del Doni, forse perché la sua giovinezza era legata alla vita monastica; le volte sonore, il salmodiare dei frati, il coro, lo turbavano ancora. Solo per dimenticare, o per non lasciarsi ghermire dallo spettro della morte, egli correva di notte nudo per la campagna, o si serrava entro la sua torre solitaria.» La cosmica estrosità del Doni, in quell'immagine notturna e spettrale, ti aggredisce come il raffaellesco San Giovanni spaventato degli Uffizi.
«Non so perché la musica debba cominciare col piccolo Donizetti e che Luca Marenzio, Gesualdo da Venosa e altri 'dell'eroica schiera' per digerirli si debbano presentare ben cotti e conditi con salse beethoveniane, wagneriane e possibilmente mendelssohniane» mi scriveva il 16 settembre '56, mentre stavamo impostando le edizioni di musica antica alla Fondazione Cini. «Non sono riuscito a combattere il malcostume: anzi, avendo io presentato alcuni autori nudi e crudi, ho contribuito indirettamente alla loro perdizione, ché li ho inviati al domicilio dei vari mercanti di schiavi.» E dieci anni dopo (24 luglio '66): «Da più di quarant'anni mi accusano di aver scritto contro Verdi. Ho protestato chiedendo che pubblicassero quello che ho scritto: tutto finì in un silenzio tendenzioso, ché nulla esisteva... L'ambiente musicale è una cloaca, tu dirai che pittori e scrittori non scherzano; però per quanto l'invidia e altri sentimenti li possano turbare, mai scendono tanto in basso quanto i musicanti... I soliti parassiti hanno organizzato una società per riempirsi il ventre, e l'esaltazione che fanno del genio di Busseto è un danno che recano a un grande Musicista che non ha voluto né potuto sollevare problemi.»
Continuava autobiograficamente: «Mio nonno paterno scrisse un melodramma Attila, contemporaneamente a Verdi. L'Attila verdiana fu un fiasco, un successo invece arrise a quello di mio nonno. Ira di Ricordi, boicottaggio contro mio nonno, il quale per salvarsi si affidò agli impresari che lo ridussero a zero: ville, campagne, case, tutto perduto. Mentre io, fino dalla più tenera infanzia sentivo imprecare contro gli impresari e gli editori, mai ricordo di aver sentito inveire contro il genio di Busseto. Mai.» E con aneddotica umoristica a Guido Gatti nel marzo '64, in una lettera aperta: «Ormai circola nel mondo della musica la leggenda della mia verdifobia che ha avuto origine in quei tempi lontani in cui abitavo due deliziose stanze al mezzanino di una pensione in via Sistina. Fui costretto a sloggiare perché un organetto più volte al giorno sotto le mie finestre ripeteva sempre le stesse melodie, preferendo l'Addio del passato della Traviata. Avrei sofferto pure se avesse scelto il Lasciatemi morire di Claudio Monteverdi; e certi miei 'amici', grazie a uno sgangherato pianoforte meccanico, fecero circolare la voce che io avevo cambiato di casa perché non potevo sopportare Verdi. Più di quarant'anni sono passati dall'insignificante episodio, ma ingrandito, deformato, serve ancora per una bene organizzata persecuzione. Ogni artista, se dotato di una personalità, difficilmente può adagiarsi sugli immediati suoi precursori, cioè sull'arte che lo precedette...».
Per i contemporanei, i profili si risolvono spesso in epigrammi. Schonberg «spiegava scientificamente ogni cosa, dalla più piccola alla più grande, diminuendo le grandi e ingrandendo le piccole»; Bloch, prima amico e poi avversario, è rievocato nostalgicamente: «Allora ci separava solo l'Atlantico»; D'Annunzio - l'amatissimo da questo scrittore visceralmente antidannunziano - compare fra le paccottiglie del suo ritiro: «al Vittoriale... applicò la sua retorica alle idee politiche che lo tormentavano; e gli abbondanti tendaggi, i cuscini, le comode poltrone assorbivano la sua voce senza eco. Il Vittoriale è stato, dal giorno in cui entrò, la tomba di Gabriele D'Annunzio».
Le situazioni, analogamente, sono cristallizzate in aneddoti scorciati e illuminanti non solo parlati, ma scritti: «...un ministro mi fece l'impressione di Satana travestito da uomo. Quando pareva guardarvi, scrutava la faccia del vostro vicino. Egli aveva certamente occhi anche dietro la nuca. A bruciapelo mi chiese quali tra i musicisti tedeschi viventi io preferivo: gli risposi Hindemith e Trapp. Mi voltò le spalle. Avevo colpito nel segno: Hindemith era già stato eliminato e Trapp quasi. Eravamo nel 1936 e si andava verso quel patto di acciaio che tanto acciaio fece poi cadere sull'Italia.»
Così sempre in quei capolavori che sono le sue pagine di memoria (La pietra del bando, Di palo in frasca, Cossì va lo mondo, Ricordi e pensieri, Il filo d'Arianna e ora anche la preziosa silloge L'Armonioso labirinto a cura di M. Pieri, ed. Marsilio, raccolta di scritti che vorremmo continuasse). Scatti orali e puntate, battute e apologhi morali, Malipiero le rimescola con prodigiosa leggerezza da virtuoso alla Doni, da scrittore vero e autonomo nella estrosa tradizione veneta dei memorialisti, dal Marcello e dal Gozzi alla Teotochi e al Nievo.
Con personaggi balenanti o allusivi e con aneddoti esemplari e simbolici Malipiero, geniale e rinnovatore autore di teatro, scrisse anche i suoi molti libretti, anzi «antilibretti» d'opera. In essi (disse felicemente Gianfranco Folena) la prosa è tesa alla ricerca di un recitativo drammatico, volgendo le spalle alla tradizione melodrammatica ottocentesca. E il linguaggio stesso è scandito su schemi ritmici semplici, «con moduli sintattici che tendono a un patetismo di ricerca, quasi popolare, ma il tutto in una stilizzata aulicità che rifugge dai vocaboli popolari, dall'espressività dialettale, in piena armonia con la tradizione delle «parole per musica» sei-settecentesche». Anche le trascrizioni del grande teatro classico, da Euripide a Shakespeare e a Calderon, sono prodigiose avventure di poesia.
Proprio in quella straordinaria capacità di astrazione e di caratterizzazione insieme, e in questa sublime rarefazione, è anche la matrice delle originalissime invenzioni delle maschere come simboli d'anima. Sì, questa intuizione fantastica, da poeta autentico, si situa - come è stato giustamente rilevato - fra i compiaciuti ritrovamenti del Callot all'inizio del secolo, il simbolismo dei Pierrots lunaires e dei Petrouchka, il liberty poetico del Lucini, il nostro teatro simbolista degli anni 20 e i vari recuperi della commedia dell'arte. Ma in Malipiero quel mondo, anzi quella che è stata chiamata l'ossessione delle maschere - dalla Morte delle Maschere (1922) continuamente fino alle Metamorfosi (1966) - nasce tutta dall'interno della ispirazione più rigorosa e più sua: non ha nulla di espressionistico o di dialettale, così come la sua musica respinge ogni mimesi onomatopeica. Scriveva, con trasparenza autobiografica, nelle Metamorfosi: «Guai se le maschere mi abbandonassero. Le vedo in folla danzare intorno a me, vorrei ghermirne una per vedere la sua vera faccia. L'uomo si veste con stracci multicolori e si copre la faccia con la maschera per fingersi gaio e amoroso, mentre il teschio ghigna di nascosto... Io non mi tolgo la maschera e recito la mia commedia.» E al suo notturno Bonaventura: «Anch'io nacqui poeta, ora conto le ore. O amico, fatti tu pure guardiano notturno per non morire di fame. Buona notte, fratello poeta.»
Nelle lettere insistono continuamente immagini e metafore fra il grottesco, il funereo, il carnevalesco: «Sono nuovamente nella sala d'attesa della camera operatoria» mi scriveva il 17 gennaio '61. «Stavolta la Scala, anzi la piccola Scala, ché l'altra è per i grandi. Dunque regista e scenografo stanno lavorando (per la loro carriera) e devono venire qui da me 'un giono e l'altro'. Conseguenza: sono bloccato... Si va in scena il 7: UNA PRECE. Se uno dice 'non buttare la cicca, ché c'è materia infiammabile' non annunzia l'incendio come avvenuto disastrosamente. Parliamo dunque di cicche...».
Ma a quello scorcio pirandelliano e a queste autodistruzioni ironiche opponeva poco dopo nel suo ultimo taccuino segreto: «Credo che sia un atto di eroismo vivere, dopo tutto quel che si è perduto, senza doversi considerare dei superstiti.» E aggiungeva poi: «Una pace... credo di averla conquistata: essa è falsa e illusoria soltanto di fronte al prossimo: per me è reale e mi dà la forza di continuare sulla via che mi sono imposto».