MASSIMO BONTEMPELLI

IL CAMMINO DI MALIPIERO
------------------------------------------------------------------------
Sulla fine del secolo scorso, e poi dal principio di questo sino alla guerra del quattordici, l'arte europea parve impegnata soprattutto nella liquidazione scrupolosa d'un lungo passato ch'era stato molto glorioso. In esso di secolo in secolo la volontà di creare s'era venuta rinnovando con fecondità ininterrotta, ora in pochi decenni rapidamente si disfaceva. Quel dissolvimento non parve un'agonia: era pieno di pudore e di un'ardente dignità.
Per questo molti lo credettero giovinezza nuova e primordio. Il carattere appariscente dell'arte europea di quel trentennio fu il fiorire delle cosiddette avanguardie. Variopinte pattuglie, le avanguardie si presentavano come un tentativo di reazione all'impoverimento del gusto sul finire del secolo, ma in effetto riuscirono una revisione e ripresa ed esecuzione sommaria delle forze estreme del romanticismo.
I loro aspetti di seducente violenza ce le hanno allora fatte parere il preludio di un'epoca nuova dell'arte; ma noi stessi siamo arrivati a tempo a riconoscervi i caratteri del tramonto anziché dell'aurora: due fenomeni che, come sappiamo, a prima vista hanno lo stesso colore.
Di fronte a quelle avanguardie abbiamo veduto assumersi quattro diversi atteggiamenti. Qualcuno le ha ignorate; qualcuno se n'è lasciato assorbire e vi s'è fermato; altri dopo averle tentate sono tornati a un nuovo accademismo, che han chiamato «ritorno all'ordine»: e gli uni, e gli altri, e gli altri ancora, non hanno concluso niente di duraturo e non hanno saputo meritarsi neppure la situazione di precursori. I piú utili del nostro tempo, in tutte le arti, rimangono infine coloro che, nati sul finire del precedente, hanno affrontato in giovinezza quella agitazione delle avanguardie fulgide, l'hanno traversata partecipandovi, hanno saputo uscirne senza tornare indietro.
Solamente in tal modo, pure rinnegandola, hanno potuto trarre dall'avventurosa esperienza impreveduti vantaggi. Lo smanioso tentativo, con franchezza affrontato e con coraggio, abbandonato, di creare a ogni costo un futuro, ha insegnato, loro a rimettersi con occhi vergini di fronte al passato: per questa ragione, liberati dai consunti schemi che imperavano nella scuola e nel costume della loro adolescenza, si son trovati ricchi di nuovi modi espressivi: un vocabolario fresco specialmente in musica e in pittura, una improvvisa semplicità specialmente in architettura e nell'arte dello scrivere.
Francesco Malipiero è uno dei superstiti da quel naufragio, o incendio; uno dei protagonisti dell'avventura toccata ai creatori nati circa vent'anni prima della fine del secolo decimonono e rimasti vivi e operanti sul campo.
Naturalmente, quando un procedimento quale quello che ho delineato non è teorico ma creativo, la invenzione può imprimere a ogni momento del lavoro un carattere di assoluto, che svelle l'opera dal procedimento stesso e la porta fuori del tempo. Perciò in ciascuno dei periodi in cui può essere divisa la produzione folta di Malipiero, potremo riconoscere opere che riescono a vivere in pieno del proprio risultamento espressivo, e in cui gli elementi puramente storici (avanguardia, ripresa, tradizione ecc.) sono tutti oltrepassati e assorbiti. Basti pensare alle Pause del silenzio (1917), opera ancora giovanile ma già perfettamente viva.
(Fatte queste premesse, sarà opportuno che in certo modo le dimentichiamo).
Il carattere che più chiaro ci appare se pensiamo il decorso dell'opera malipieriana dai primi saggi veramente personali (cioè all'incirca dalle «Impressioni dal vero» che sono del 1910, anno ventottesimo dell'età sua) a oggi, è ch'egli non procedette per crisi, conversioni, improvvise scoperte; ma l'allontanamento dalle attitudini iniziali (quali erano in lui favorite dal costume tra decadente e avanguardiero del tempo) giù fino alla sua presente classicità, si operò per un processo di semplificazione, graduale e continuo. Così procedette la sua musica dalla accumulazione di particolari e da un senso d'improvvisazione inquieta, che dominano gli esperimenti del primo periodo, fino alla vasta e macerata calma che è il carattere della sua musica d'oggi; e questo «oggi» possiamo cominciarlo almeno dalla «Passione» che è di sei anni fa ('35) e che sentiamo già preparata nel primo atto della «Favola del figlio cambiato» ('33). Si parte da un colorismo strumentale e ritmico mobilissimo per arrivare a un senso disteso di pianura solo confinata dal più lontano orizzonte ove la terra si confonde col cielo.
Lungo il quale cammino s'è generato, e si è imposto, quello che è il nucleo del mezzo espressivo di Malipiero: il discorso musicale come continuità senza ritorni. Ne deriva a quelle pianure monocrome un senso d'implacabile, accompagnato da un sotterraneo murmure di malinconia.
Malipiero ha preso le mosse da un impressionismo sensuale, le sue prime musiche prorompono da una avidità di colori e di sensazioni d'ogni genere. L'avidità nasce dalla nostalgia, e tutto il primo tempo del decorso malipieriano è in questo senso nostalgico. Così stranamente accade spesso ai giovani, i quali pare camminino guardando dietro sè un passato che non hanno, mentre il creatore maturo più procede più guarda fisso avanti e dimentica l'ieri appena trascorso. Quel nostalgìsmo poteva trascinare Malipiero nella gora sentimentale: invece servì a salvarlo dall'estetismo epidemico in cui a quel tempo parecchi, se pure partiti dalla stessa necessità sensuale (altro carattere dell'imperfezione giovanile), sono miseramente caduti. Minaccia seria era certo per tutti noi in quegli anni l'atmosfera dannunziana che gravò sulla nostra generazione; e Malipiero ebbe ad accostare molto anche personalmente d'Annunzio. Quelli ch'erano predestinati a salvarsi, trovarono la loro tavola di salvezza nella cultura. Malipiero trovò pronto il motivo e lo strumento della sua propria salvazione quand'ebbe incontrati Monteverdi e il Gregoriano, il che per fortuna di lui e nostra, fu molto per tempo nella sua biografia.
(Comunque è, giustizia riconoscere che nemmeno in quel suo primo presentarsi alla ribalta della vita musicale europea la musica di Malipiero nacque mai, né mai fu improntata, da ragioni polemiche, come ad altri è accaduto in quel tempo. Sappiamo tutti che ogni opera d'arte che sia viva riesce automaticamente polemica contro il mezzo da cui vien fuori, sappiamo che essa, in ragione della sua stessa energia, viene fatalmente a rinnegare i propri precedenti, perché la vita della poesia autentica è, di sua natura, scoperta di leggi nuove e ribellione. Insisto, che ogni opera riuscita appare sempre in contraddizione aggressiva col suo ambiente; ma tenete conto che dico «con l'ambiente», cioè con i modi artistici che già sono diventati o stanno diventando consuetudine e ripetizione: non mai contro le grandi figure e le grandi creazioni che per avventura la precedano. Malipiero ebbe a scrivere dieci anni sono: «la musica italiana non si deve fabbricare con lo stampo, essa può manifestarsi in mille modi, sotto variissimi aspetti, e nei secoli XVI e XVII l'Italia ha dato grandi musicisti i quali oggi potrebbero additare nuove strade, o forse ricondurre sulla grande strada maestra qualora li rimettessimo, almeno, allo stesso livello di quelli ottocenteschi». Tutto il preteso antiottocentismo di Malipiero si riduce a quell'innocente «almeno»).
Possiamo anche dire che i suoi primi eccitamenti alla musica nacquero da un amore dei contrasti coloriti, delle sorprendenti antitesi; e che il raggiungimento della sua vera persona musicale s'è formato a mano a mano per una serie d'acquetamenti e di sintesi. Tale il cammino di lui verso la semplificazione, che è chiarimento, purificazione.
Il processo è ininterrotto, e sembra con ciò richiamare uno dei caratteri fondamentali del concetto che Malipiero ha della musica: ossessione della continuità, non tollerare una sosta quasi la menoma pausa sia la morte; di qui il senso d'implacabile e quello smarrimento lirico di cui le musiche di Malipiero sono soffuse.
Qualche volta tale smarrimento - chi voglia capire bene la mia impressione consideri per esempio «Antonio e Cleopatra» ('37) - può giustificare quanto in talune musiche sue del nuovo tempo potè ingiustamente sembrare avarizia del respiro, scarsezza di lievito e di alleggerimento.
Le stesse considerazioni potranno per contro illuminare e avvalorare il senso di creazione per piani distesi che abbiamo dichiarato carattere di tutta l'ultima fase dell'opera di Malipiero. La montagna è ostile e difficile, ma la pianura è più inesorabile della montagna.
Permettetemi d'insistere nell'artificiosa considerazione dell'opera di Malipiero quasi distinta in due periodi, e di passare ogni tanto lo sguardo dall'uno all'altro. Poiché, come ho detto, il cammino è tutto progressivo e graduale, ci sarebbe difficile precisare il punto del trapasso: l'artificio dell'alternare l'osservazione tra le due supposte fasi, deve evitare dunque di porre un segno al punto estremo ove l'antica sbocca nella nuova.
Debbo aggiungere che nella prima epoca l'espressione malipieriana, anche quando appare «musica pura» (accettiamo con buona fede, per facilitarci l'impresa, il significato empirico di tale equivoca espressione), si mostra pur sempre collegata almeno alla memoria d'una realtà, sensazione, impressione, occasione che la abbia eccitata: conserva, intendo, un ricordo d'una sua larvale esistenza pre-musicale; invece nel colmo del secondo periodo la stessa musica teatrale, quella che per definizione parrebbe più irrimediabilmente legata con l'argomento, lo trascende subito, lo assorbe così che nel nostro ricordare l'opera rimanga come pura musica. S'io penso - per dire il primo esempio che mi si presenta - ai «Cantari alla madrigalesca» ('28) non posso non risentirvi un'eco di vita popolare; ma se ricordo Ecuba ('39) non so fornirla di un aggettivo altrettanto empirico, non vedo più se non quei piani che si generano uno dall'altro a stabilire un creato tutto musicale e artisticamente metafisico, tutto di là o tutto di qua dalla esperienza umana. S'intende che ancor meglio vedrai la diversità di movimento raggiunto, se scegli dal teatro anche la prima parte del paragone: ditemi «Torneo notturno» ('29) e subito nella mia mente oltre che un fatto musicale si suscita un lugubre aggirarsi di volti disperati tra le pareti d'una città squallida.
Anche portata di fronte alla scena, la nuova musica di Malipiero non serve dunque caratteri o vicende; al contrario, i caratteri e i loro atti son diventati strumenti sui quali l'autore suona come i cortigiani avrebbero voluto suonare sul principe Amleto; non esistono se non come timbri, sono essi a servire l'estro musicale di lui che se n'è impadronito.
(Accadde esattamente lo stesso al suo concittadino Goldoni; il quale molto diversamente da quanto la tradizione critica ha creduto, non ha per suo scopo e condotta la formazione dei caratteri; anzi lui i caratteri se li prepara fatti per adoperarli come limiti espressivi da costruirne gli spazi d'una architettura che viva e si manifesti tutta nel movimento e nel ritmo. Ho detto «limiti» per far capire che Goldoni usa i caratteri esattamente come il compositore quartettista si serve dei confini espressivi concessi alla tessitura dei suoi quattro strumenti).
Un siffatto ordine di osservazioni, mentre comincia a disegnare ai nostri occhi il complesso creativo di Malipiero, aiuta pure a spiegarci la superiore indifferenza con cui egli può adoperare partiti puramente ritmici o puramente melodici o di contrappunto, e dietro il solo impulso della immaginazione musicale mescolarsi tra loro: lo spirito della creazione spaziale è l'energia che ottiene tra quelli una persuasiva fusione e continuità, riesce cioè a creare l'unità non più analizzabile di un'opera.
Unità della continuità. Dopo tante cautele, puoi dire coraggiosamente che la prima musica di Malipiero (mettiamo fino alla Prima Sinfonia e al Quarto Quartetto entrambi del 134, anzi a un po' prima, a quel felice anno 1932 che vide nascere «Acciaio» e gli «Inni» e le «Quattro Invenzioni») fu, a confronto con la seconda, d'ispirazione romantica, e che proprio là dove è più scopertamente romantica, ivi raggiunge le sue migliori espressioni: «Le sette canzoni» ('18), «San Francesco» ('20), «Torneo notturno» ('29). Tuttavia per tanta unità di progressione - nata da un procedimento che sembra accompagnare tutto lo spirito più nascosto di un'epoca - Malipiero è uno di quegli autori di cui ciascun numero conta, perché tutti insieme nella loro serie cronologica costituiscono quasi una sola vasta opera ininterrotta.
Lo sviluppo di Malipiero compositore, il suo procedere dalla regione terrestre pittoresca labile da cui è partito, allo spazio aereo uguagliato astrale cui è pervenuto, tale cammino e processo comportano una tendenza a sentire sempre meglio ogni suono come invenzione vocale, la quale è l'attuazione più prossima al suono astratto pensabile dall'uomo. Questa qualità vocale più o meno intimamente si nasconde entro tutti i suoni, comunque prodotti, dei quali può servirsi la musica. Di tale indole del suono musicale che gli orchestratori esasperati di trenta o vent'anni fa non riuscirono a comprendere (e questo li condannava alla caducità), Malipiero è invece, sia nativamente sia per persuasione critica, tutto imbevuto; egli è sempre, anche quando orchestra, felicemente antistrumentale. Questa è l'originaria attitudine che ha potuto fargli definitivo e immune da possibili ritorni e ricadute l'allontanamento dallo strumentale decorativo, liberando lui da uno dei più pericolosi morbi di decadenza dell'epoca da cui la nostra generazione ha tanto faticato a salvarsi. Fu essa disposizione lo strumento più sicuro del passaggio di Malipiero dalla giovinezza alla maturità.
Ne nasce lo spirito del pudore, che già si manifestava tra il colore del primo periodo, e diventerà dominante in tutta la sua musica nuova: vedi come i fondi dolori di Cleopatra e di Ecuba non sfiorano mai la scapigliata disperazione.
Arrivati a questo, ci appare ancor più chiaro il decorso della sua formazione. Anche quanto nel primo tempo ha potuto sembrarci polemico, non era se non una irritata ricerca di sè. Pare, in quelle musiche, ch'egli si dia continuamente la disciplina. Quel che in altri diverrebbe torbido, in lui si fa allucinazione. Perciò il fluire malipieriano non ristagna mai, la parola é sempre ariosa anche quando il motivo ispirante è depresso; vedi come il suo lirismo è sovente amaro ma non mai mortificato. Così ogni opera segna una conquista sulla precedente, ogni pagina scopre un lembo di più del suo mondo interiore, e con esso suscita un modo nuovo di fantasia.
In altre parole, Malipiero nel suo procedere muove sempre meno dall'esterno, cioè da una sollecitudine costruttiva, e sempre più avanza in una implacata escavazione nell'intimo, scarnificazione di natura mistica e ascetica.
Trovava dietro di sè nel tempo quel tipo formale che dominò la musica strumentale europea del secolo scorso il tipo tema-sviluppo. D'istinto lo evitò, e altrettanto si teneva lontano dal tipo opposto, quello della circolata melodia, che nello stesso periodo tiranneggiò la musica teatrale. Il suo mezzo e il suo risultamento fu in ogni tempo il discorso polifonico continuato (sempre l'armonizzare di lui è polifonia) ch'egli riprese, in atmosfera monteverdiana, soprattutto dall'ideale gregoriano. Il riferimento al gregoriano e al suo fascino determinante ricorrerà sempre fatalmente nel nostro pensiero quanto più vorremmo addentrarci nella esplorazione degli spiriti e dei modi di Malipiero: chi volesse sorprendere più allo scoperto il fenomeno, pensi alla «Missa pro mortuis» ('38). Per virtù di esso fascino lui si ritrovò quasi impensatamente ad avere riacquistato il senso dell'astratto che tutti i secolari pregiudizi accumulatisi nella storia della cultura europea ci avevano fatto smarrire.
Volle dunque decisamente e quasi garbatamente le spalle al tema variato e alla melodia strofica, lui seppe vivere d'una coraggiosa fiducia che l'intima commozione dovesse bastare a diventare di per sè costruzione. Per questo coraggio il suo discorsivo continuato venne con naturalezza a condensarsi nello spirito e nella forma della concatenata meditazione musicale. E la meditazione porta sicuramente alla contemplazione. L'aura contemplativa, dalla «Passione» in avanti, si fa sempre più chiara e intensa e dominante, lo allontana sempre più risolutamente dai trascorsi drammatici della sua preparazione romantica.
A conclusione di queste note generiche intorno allo spirito malipieriano, dirò che quel procedimento non è solamente un suo fatto a carattere personale, ma dà, credo, l'esempio d'una direzione di tutta la musica anzi di tutta l'arte ed il pensiero che si matura alla storia nuova d'Europa. L'arte europea sta ritrovando il senso metafisico che il barocco e il romanticismo avevano ottuso in noi. Possiamo interpretare l'ansia della nostra musica mediante una immaginazione di natura mitologica. Ho una volta immaginato che potesse proporsi una interpretazione del mondo secondo la quale Dio è lo Spazio, e il Tempo è il Demiurgo. Dio è dunque l'immobilità pura; il Demiurgo puro movimento. La musica è la rappresentazione umana del Tempo, e nel corso della propria storia s'era abbandonata sempre più a tale indole originale; ma qualche volta si sforzava di servirsi dei suoi mezzi, che sono demiurgici e temporali cioè mutazione e ininterrotto procedere, per adombrarci un senso della immobilità spaziale. Travaglio, insomma, del dionisiaco che cerchi rientrare entro l'apollineo. Questo che sinora fu caso e quasi eccezione, io so certo che diventerà l'aspirazione di tutta l'arte che offriremo al secolo nuovo: corrispondenza in sede estetica dell'ansia del nostro tempo. a ritrovare la fede in una trascendenza, a formulare la vita umana sopra una riscoperta legge divina.
In tale situazione e anelito procede il cammino che porta senza indugio o deviazione dal primo al più recente Malipiero.
[Da La Rassegna musicale, febbraio-marzo 1942. Pubblicato anche in
L'OPERA DI G. F. MALIPIERO]