CRONOLOGIA DELLA VITA
E DELLE OPERE DI


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Gian Francesco Malipiero nacque a Venezia il 18 marzo 1882, da Luigi Malipiero (1853-1918) - pianista e direttore d'orchestra, figlio di Francesco Malipiero (1824-87), operista minore, e dalla contessa Emma Balbi. I genitori si separarono quando Gian Francesco aveva undici anni e il ragazzo seguì il padre in movimentate peregrinazioni all'estero (Trieste, Berlino...)
Nel
1898 il padre si stabilì a Vienna e nel novembre di quell'anno Gian Francesco entrò al Conservatorio di quella città. Poiché fu respinto dalla scuola di violino (strumento che studiava dall'età di nove anni) decise di seguire corsi di armonia. Nel 1899 tornò dalla madre a Venezia e si iscrisse al Liceo Musicale «Benedetto Marcello».

Come mai a diciassette anni ho scelto quegli studi che poi mai ho abbandonato? Perchè rimasi sempre straniero nei paesi ove mi trascinarono per forza e dove vagai alcuni anni? Obbedendo a quale istinto ritornai a Venezia da mia madre? Con terrore penso a quello che sarebbe accaduto se una forza misteriosa, e che certamente doveva essersi alleata al mio destino, non mi avesse spinto verso una mèta ben precisa. Lottai, sicuro di me, contro tutti e anche contro quelli che volevano aiutarmi ma non per fare di me quello che io dovevo divenire. Non amo le recriminazioni, nè accusare, però di quanti ammaestramenti convenzionali, assurdi, errati, veri scogli contro i quali s'infrangono le migliori energie giovanili, potrei lagnarmi se non ritenessi più opportuno dimenticare un insieme di fatti e misfatti che offenderebbero la memoria di quelli che facevano professione di insegnanti e che nulla mi hanno insegnato salvo a guardarmi dai falsi insegnamenti? [Cat. op. - p. 286]
Nel 1900 iniziò il corso di contrappunto con M. E. Bossi, il quale, avendo scarsa stima dell'allievo ormai diciottenne, gli consigliò di studiare uno strumento: fece un tentativo con il fagotto, ma smise subito.
Nel
1902 ottenne la licenza alla fine del corso sulla fuga, e, approfittando dell'assenza di Bossi, continuò gli studi da solo componendo, secondo la sua stessa testimonianza, «sonate e sonatine e trascrivendo un gran numero di composizioni di antichi autori italiani: «[...] Ho davanti a me la fotografia di un certo registro della biblioteca Marciana [...] dal quale risulta che io il 28 agosto 1902 consultai l'«Incoronazione di Poppea» di Claudio Monteverdi.» Fu un incontro fatale.

Spesso penso con terrore a quello che sarebbe accaduto di me, se, senza rendermene conto, cioè guidato soltanto, dalla mia intuizione, non avessi tempestivamente preso decisioni che mi hanno poi condotto là dove dovevo arrivare, ed evitato di precipitare nel baratro della esperienza dei miei familiari, o dei saggi consiglieri.
Come, dal 1902 in poi, io mi sia recato quotidianamente alla Biblioteca Marciana di Venezia per studiare gli antichi, quasi completamente ignorati dai miei insegnanti e dai miei condiscepoli, io non lo so. Non trascrissi soltanto Monteverdi, ma molti autori, fra i quali Baccusi, Nasco, Stradella, Tartini, Galuppi, ecc. Tutto ciò solo per studiare i cosiddetti antichi. [...] Devo confessarlo: fu un puro caso se l'edizione di tutte le opere di Monteverdi fu iniziata; però, nel 1902, fu un caso ancor più straordinario se primo fra tutti gli editori dell'Incoronazione di Poppea, trascrissi (sia pure soltanto alcuni frammenti) questo melodramma monteverdiano. Chi mi consigliò? Nessuno. Ubbidii esclusivamente al desiderio di riconoscere il nostro passato e di reagire contro la sopraffazione degli studiosi stranieri che interpretavano a modo loro la nostra musica. Dunque nel 1902 il genio monteverdiano si metteva direi quasi attraverso alla nostra strada, non per impedirci di camminare ma per fare il nostro passo più franco, più sicuro.

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Lettori del manoscritto dell'«Incoronazione di
Poppea» aslla Biblioteca Marciana di Venezia:
al no. 2 (28.8.1902) lo studente Malipiero.

Nel 1904 ottenne il diploma in composizione a Bologna con M. E. Bossi, che nel frattempo mutò opinione sulle capacità del giovane.

L'insofferenza per l'insegnamento accademico, che traspre da questo periodo di formazione, preluse alla successiva polemica per il rinnovamento musicale italiano, conro forme e linguaggi dell'800, svolta negli scritti teorici apparsi tra il 1910 e il 1920. [Pestalozza]

A Bologna compose il poema sinfonico Dai 'Sepolcri', che venne eseguito nei saggi di classe e che fu poi ripudiato e 'distrutto' [cfr. infra].
Dal
1905 visse a Venezia, dove compose una Sinfonia degli eroi, poi riupudiata e 'distrutta' [cfr. infra], una Sinfonia del mare (1906) e Six morceaux per pianoforte, pubblicati ma in seguito ripudiati.

Passa alcuni mesi d'inverno del 1908 e del 1909 a Berlino; alla Hochschule seguì alcune lezioni di Max Bruch (ma, e lo ribadì sempre con vigore, non ne divenne mai allievo)

Nel 1908 ho assistito, alla Hochschule di Berlino, a cinque o sei lezioni di Max Bruch, le quali consistevano nella lettura al pianoforte e analisi di opere classiche. Beethoven rappresentava per i bruchiani il più scapigliato fra i musicisti tollerati. Mi pare ancora di vedere un'allieva brutta quanto sciocca, confessare arrossendo, di aver acquistato i posti per tutta la Tetralogia all'Opernhaus. Ottenne dal «Maestro» l'assoluzione quando s'impegnò a farne un dono alla domestica. Wagner era la bestia nera di quel Max Bruch che deve la sua celebrità a un concerto per violino e orchestra di cui hanno abusato i violinisti grandi e piccoli. In quell'ambiente come avrei potuto non sentirmi a disagio? Ciò nonostante spesso si legge sui dizionari musicali e sui programmi dei concerti ch'io sono stato allievo di Max Bruch!
Asolo, 25 maggio 1932.

A Berlino incontrò Ferruccio Busoni. Le composizioni di quel periodo («Sinfonie del silenzio e della morte», una Sonata per violoncello e pianoforte, le «Bizzarrie luminose dell'alba, del meriggio e della notte» per pianoforte) furono pubblicate ma poi ripudiate.

Nel 1909, appena ritornato a Venezia, scoprivo, gettate alla rinfusa in un ripostiglio, alcune opere musicali e sulla musica. Il padre di mio padre, pur essendo un musicista squisitamente ottocentesco, aveva raccolto molta musica della buona epoca e so che egli l'aveva studiata. Disgraziatamente la biblioteca venne gettata sui banchetti della fiera di Natale a Rialto, dove andarono vendute le opere migliori per poco o nulla. I miei tutori nulla seppero conservare perché non comprendevano il valore delle cose che mi appartenevano. Io credo invece che sarei capace di scrivere la loro vita che sarebbe la vera storia della mia vita.
Il curriculum didattico, come si è accennato precedentemente, aveva avuto inizio nell'area del tardo romanticismo germanico, secondo l'insegnamento impartito dal suo maestro Marco Enrico Bossi (1902; 1904), cui seguí un breve corso di analisi musicale sotto la guida di Max Bruch a Berlino (1908). Ma a questi discepolati, vissuti entrambi con insofferenza verso la pedantesca ortodossia accademica, il musicista anteponeva come assai piú fruttuoso il tirocinio di trascrittore di musiche antiche svolto per proprio conto nel 1902 alla Marciana di Venezia (elaborò manoscritti di Monteverdi, Baccusi, Nasco, Stradella, Tartini, Galuppi), nonché la conoscenza 'pratica' dell'orchestrazione, appresa lavorando nel 1905 con il vecchio Antonio Smareglia (ormai cieco, questi gli faceva scrivere sotto dettatura le partiture che veniva componendo). [NICOLODI 1984, pp. 201-202]
Nel 1907 cominciò la composizione di un'opera in tre atti, Elen e Fuldano su libretto di Silvio Benco. Terminata nel 1909, affermò di averla distrutta: in realtà la fece sparire nel suo... dimenticatoio [cfr. Waterhouse p. 27].

Ho trovato il librettista ideale, cioè il libretto che mi permetterà di realizzare tutte le mie aspirazioni teatrali. Solo il titolo mi preoccupa: Elen e Duncano. Quel Duncano (tenore) può creare qualche malinteso per una pericolosa assonanza. Si può cambiare in Elen e Fuldano. [Memorie utili]

In una lettera inviata a D'Annunzio del 29 luglio
1909, il pittore Marius De Maria (soprannominato Marius Pictor) scriveva: «[...] Ho un bravo e buon amico musicista, Francesco Malipiero, il quale è entusiasta di musicare i tuoi 'Sonetti delle Fate' [...] Vuoi tu permettere a questo mio caro e buon amico questa gioia?» Ottenuta l'autorizzazione, Malipiero mise in musica questi testi poetici con l'accompagnamento del pianoforte). Nacque così un rapporto di collaborazione e in seguito di profonda amicizia e stima reciproca tra i due artisti. Il poeta era noto e influente nel panorama culturale italiano; Malipiero era «un giovane musicista che già si stava distinguendo per la sua particolare visione dell'arte, alla ricerca di una strada nell'ambiente culturale italiano, e al quale D'Annunzio doveva apparire come una luce da seguire.» [BIANCHI, p. 5]. Così Malipiero ricordò l'inizio del suo rapporto con il poeta:

[...]
la conquista dell'amicizia di Gabriele d'Annunzio non fu facile perché ostacolava l'immediata e reciproca comprensione la diversità della nostra vita esteriore: dovevamo incontrarci nel mondo che apparteneva ad entrambi e dove era impossibile trovarci in conflitto, cioè nel mondo della poesia-musica e della musica-poesia. [cit. BIANCHI 5-6]

Nel 1910 compose il Canto notturno di un pastore errante nell'Asia su testo di Leopardi, per baritono, coro e orchestra, i «Poemetti lunari» per pianoforte solo (editi a Parigi, nel 1918, da Senart), le «Impressioni dal vero» per orchestra (saranno eseguite alla Scala il 15 maggio del 1913 sotto la direzione di Max Birbaum).

Queste 'Impressioni' rappresentano una reazione contro la musica a programma e contro la musica artificiosamente tematica. La natura, 'ascoltata' da un musicista, non può suggerire che un'idea musicale. [...] E il titolo, nel caso in questione - che una falsa interpretazione potrebbe appunto legare a intendimenti extra-musicali, - non rappresenta che un omaggio fatto dal musicista a chi ha saputo evocargli un sentimento e un desiderio di estrinsecazione. 'Il Capinero' è un'impressione nostalgica, ma abbastanza luminosa. Nel 'Picchio' è più indefinita: nonostante la sua vivacità e gaiezza, qua e là apparisce qualche spunto che ha del macabro. Nel 'Chiù' l'equivoco non è possibile: è questa un'impressione notturna nella quale la luna non riesce a rompere il silenzio delle tenebre.

Nell'ottobre sposò Maria Rosa, figlia del noto pittore veneziano Luigi Rosa. Nel viaggio di nozze fece la scoperta di Asolo, villaggio che fu ben presto eletto a locus amoenus, luogo di villeggiatura dapprima, di dimora permante poi.
Sulla Rivista musicale italiana, XVII, pubblicò l'articolo «Il pregiudizio della melodia».
Nel 1911 compose, ancora su libretto di Benco, Canossa, che ebbe un'unica tempestosa esecuzione al Costanzi di Roma, tre anni dopo (1914). Anche in questo caso il compositore dichiarò falsamente di averla distrutta [cfr. Waterhouse p. 36 ss.]

L'opera Canossa è stata scelta per la rappresentazione al teatro Costanzi di Roma. La vita sulla riviera del Brenta, le rievocazioni della Malcontenta, le acqueforti del Canaletto, ecc. ecc., mi hanno sedotto: devo musicare il Sogno di un tramonto d'autunno di Gabriele d'Annunzío. Non sono riuscito ad avere il permesso del poeta, ma la musica è nata in tre mesi e la partitura è finita.

Il 14 giugno scrisse a D'Annunzio per ottenere il permesso di musicare il Sogno di un tramonto d'autunno:

All'arte italiana voi avete creato una patria: avete rievocato, rianimato tutti i capolavorì che delle generazioni cieche e sorde avevano dimenticati, ed lo ho sempre intuito come tutte le cose vengano dall'arte vostra innalzate, prendano vita, colore. L'arte vostra è musica. Ed è appunto perciò ch'io mi stupisco come non esista ancora in Italia il capolavoro sinfonico generato dalla vostra parola. Forse i musicisti d'Italia persistono nella tradizionale sordità e cecità.
A Firenze sentii, dall'amico Ildebrando da Parma [Pizzetti], il Iº atto della Fedra [...]. Da quel giorno, a Firenze è risorto in me il tormento che da due anni si fa sempre più sensibile dopo che lessi, per la prima volta, il vostro divino «Sogno d'un tramonto d'autunno». Non so come definire l'impressione che il vostro «sogno» mi lasciò indimenticabile, ma non vi dico altro che la verità impicciolita...
[BIANCHI, p. 51]
Sono del 1912 le Danze e canzoni per orchestra, stampate (e poi ripudiate, come quasi tutta questa produzione giovanile, tra cui Arione per violoncello e orchestra). La Rivista musicale italiana, XIX, pubblicò il suo saggio «La sinfonia italiana dell'avvenire».
Sulla sinfonia scrisse una breve introduzione anche nel Catalogo commentato delle sue opere:

Se i tedeschi hanno scelto la parola italiana «sinfonia» per definire una loro forma musicale, noi italiani non possiamo rinunziare al titolo 'sinfonia' quando abbiamo concepito un'opera musicale che non si può chiamare altrimenti dato il suo carattere, la sua forma, ecc., e la cui denominazione risale alla nostra più pura tradizione musicale. Senza alludere alle sinfonie che precedevano le cantate, che troviamo anche ai tempi di Alessandro Stradella e che significavano preludi per vari istrumenti, possiamo dire che la sinfonia italiana è una forma libera di poema in più parti che si seguono capricciosamente obbedendo soltanto a quelle leggi inafferrabili che l'istinto riconosce e adotta per esprimere un pensiero o un seguito di pensieri musicali.