GIANNOTTO BASTIANELLI

G. F. MALIPIERO

DA «IL NUOVO DIO DELLA MUSICA»

EINAUDI - TORINO 1978
pp. 143-147

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Scritto fra il 1925 e il 1927 e rimasto fino a oggi inedito, Il nuovo dio della musica è l'opera piú significativa di Giannotto Bastianelli. È infatti specchio non solo del complesso e problematico itinerario biografico-critico dell'autore, ma riflette anche le ansie e le contraddizioni di un'intera generazione di intellettuali. Steso in forma diaristica, a brevi capitoletti, il volume nelle prime due parti è una violenta requisitoria contro l'epoca romantica e i suoi epigoni, che Bastianelli identifica con gli sfrenati seguaci del dio Dionisos. A questi egli oppone il «nuovo dio» novecentesco, il cerebrale Hermes che percorre le partiture di Debussy, Strauss, Stravinsky, Malipiero. Ma anche questa categoria estetico-linguistica dev'essere solo una fase transitoria, che porterà il compositore a una maggiore autocoscienza creativa. L'opera avrebbe dovuto comprendere anche una quarta parte, che Bastianelli non scrisse mai.

Giannotto Bastianelli nacque nel 1883. Collaborò a «La Voce» e a «Solaria» e fu critico musicale de «La Nazione» e de «Il Resto del Carlino». Pubblicazioni: Pietro Mascagni (1910), La crisi musicale europea (1912), Saggi di critica musicale e «Il Parsilal» di Wagner (1914), L'Opera e altri saggi (1921). Muore nel 1927 a Tunisi.

E proprio Goldoni* (Commedie goldoniane: La Bottega da caffè; Sior Todaro Brontolon; Le baruffe chiozzotte) ha ispirato al piú birichino spregiudicato antiottocentesco dei compositori moderni italiani tre particole d'opera comica di raffinato buongusto e da teatri così piccoli da chiamarli - addirittura - teatri per piccoli. Che cosa ne penserà Goldoni di vedersi ridotta così la parrucca incipriata a capigliatura «à la garçonne»? Certo che il nuovo dio della musica si dev'essere divertito un mondo consigliandogli di lasciarsi «rinvenezianizzare», prima, da un tardo nipote di Mozart e di Cimarosa (alludo ad Ermanno Wolf Ferrari), quindi da un fratellastro di Strawinsky. Soltanto Mr de Voltaire oppure Einrich Heine avrebbe potuto ripetere il dialogo corso tra il sullodato «nuovo dio della musica» e Carlo Goldoni.
Le tre particole sintetico-melodrammatiche sieno o no il non plus ultra del cerebralismo musicale moderno, per chi ha imparato (e ha fìnito per invaghirsene) qualcosa delle freschezze inviperite e delle trouvailles vocali, orchestrali e sceniche e soprattutto della signorile ironia di Malipiero, non valgono forse le Sette Canzoni con l'aggiunta di quell'Ottava Canzone che è, credo, uno dei piú abbaglianti miracoli italiani ed esteri compiuto dal cerebralismo moderno. Fa piacere parlare di questo ormai europeo compositore nostrano che (mi ricordo) era tenuto da principio anche dai suoi commilitoni novecenteschi in germe, vent'anni fa, per un su per giú non temibile concorrente. Malipiero, dati i limiti che il suo ironico dio ha saputo suggerirgli e il suo gusto aristocratico accettare, invece, a poco a poco ha saputo imporsi in terra straniera e di lì trionfare fra noi - italianissimo com'è -, a giocondarci con le sue frizzanti freschezze e con la sua incalcolabile sapienza musicale, non mai fatta pesare come usavasi spesso fare dagli atleti un po' da fiera del secolo XIX, bensì, con armonica leggerezza e con chiarezza che a volte ha della rarefazione, fattaci tintinnire negli orecchi e negli animi con sonorità di zecchino.
Io non scorderò mai un suo Quatuor [Primo Quartetto per archi,Rispetti e Strambotti, 1921] eseguito con scandalo insigne da uno di quegli indiavolati - eppure mirificamente affiatati come una troupe di equilibristi - quartetti che ci vengono d'Oltralpe piú dalla parte zingaresca dell'ex impero austroungarico che dalla parte latina, di terra di Francia, anche se ebbi a udirlo in una delle piú barbogie sale da concerti del nostro italico regno [«Sala Bossi» del Conservatorio «G. B. Martini» di Bologna]. I maligni vi trovavano dell'isterisino popolar-strawinskiano. Ma alla fin fine non suonava divinamente quella roba in apparenza indiavolata, in realtà limpida, scintillante e perfino popolare come certe voci di mare e di fanciulle echeggianti nei divini calli di Venezia? A leggerla da sé quella musica può sembrar nulla o poco. A sentirla eseguita a dovere ne sprizzano felicità non poi dissimili - si guardi! - da quelle che si provano nelle feste campestri; oppure vi tremano accenni di malinconie lancinanti che solo un grande ironista - è ormai risaputo - sa destare con quella grazia di chi molto spregiudicatamente irride, ma al momento opportuno dimostra d'avere piú cuore di un sentimentalone borghese che fa professione di buoni sentimenti ed è poi il piú angusto egoista che ci sia. E del resto il successo - non osato osteggiare dai taciturni e tacitati benpensanti, nella sala barbogia dalle cui pareti pendono i ritratti di tutti i musicisti, con la loro brava data di nascita e di morte e perfino con in bianco la data di morte di quei musicisti che non si sa se sono ancora vivi, o non ancora nati - fu clamoroso.
Malipiero è - come tutti i novecentisti, e tale già fu Wagner loro predecessore, come ho accennato - «un poeta musicale». Ma lo stesso gusto raffinato e niente affatto decadente, ma ansioso di verginità, lo manifesta oltre che nella musica, nella poesia. Egli è il primo in tutta Europa che ha osato concepire un teatro che - antiottocentescamente - non sia davvero teatro. Quello che ho chiamato «teatro da camera», un tempo forse si [sarebbe chiamato] teatro granducale. Le Sette Canzoni sono sette scene, l'una indipendente dall'altra. Piccoli drammi in sintesi, in cui uno sfondo melodico (sissignori, melodico), in generale una «canzone», spesso bellissima nonostante le derivazioni ora medievali ora popolari (originalissima, la prima), fa da amalgama realmente musicale. Ora sarà la malinconia dorata del cantastorie provenzale che incontra in sé un triste dramma d'amore; ora sarà la canzone (meno bella) dell'innamorato sotto la finestra dell'amata, che poi s'arrabbia di non essere ascoltato, e salito su in iscena trova la casta innamorata in atto di vegliare la madre morta, e tutti i fiori che aveva portato alla bella vanno a finire sul cadavere con un atto di rispetto e d'amore insieme; ora sarà un magnifico movimento orchestrale descrivente lo scoppio d'un incendio, mentre il campanaro se ne sale sul campanile e di lassú canta una canzone pornografica del tempo della Pléiade, una canzone alla Villon; ora sarà la mattina delle ceneri - e il contrasto tra la canzone delle beghine e della Compagnia della buona morte colle ultime materie anche vocali delle maschere, è semplicemente ben indovinato.
L'Ottava Canzone è addirittura Pirandello sulla scena musicale. Sull'irrealtà del palcoscenico, i palcoscenici - come un giuoco di rifrazione di specchi - si moltiplicano. Irrealtà - realtà? - i palcoscenici su cui si presenta un personaggio sono due. Ma ognuno di questi palcoscenici a rifrazione ha il suo pubblico ed ogni pubblico il suo personaggio. Così Nerone - oh! quanto diverso da quello di Boito! - ironizza su di una serie di cantilene una delle quali somiglia alla [...] ballata « del mal che avea quel prete », [la quale] insieme con le altre due liriche polizianesche, è tra le migliori cose del Malipiero; così, dicevo, Nerone ironizza davanti a un pubblico giovanile immagino simbolizzante i futuristi; mentre i vecchioni (che avrebbero ancor essi il loro palcoscenico il cui sipario però non si alza mai) protestano contro l'ironico immoralismo neroniano con ululati scimmieschi, finché nel palcoscenico di mezzo (quello reale?) compare Orfeo e declama «un saluto al vostro secolo imperturbabile ed eclettico» (il famoso Novecento?) e con modi dalla seconda e dalla prima delle tre liriche polizianesche - ripeto, testimonianti uno dei piú vivaci momenti di autoscoperta del Malipiero - finisce per dottamente ed umanisticamente addormentare il pubblico ufficiale (quello schierato presso la ribalta) e che è un pubblico del Settecento: della quale confusione tra realtà e irrealtà ne approfitta non il Malipiero, né tanto meno il pubblico sulla scena né quello in teatro, ma il divo Orfeo che si mette a fare all'amore tra la sonnolenza generale con la regina, che molto compuntamente assieme all'augusto coniuge, non si sa se silenziosamente rappresentativo o addormentato, ha assistito imperturbabile così alle smargiassate di Nerone, agli urli dei suoi ammiratori e detrattori, nonchè all'arcadica esibizione di Orfeo.
In questo secolo di convulsioni isterico-soggettivistiche si parla tanto di Strawinsky e lo si eseguisce con gioia in Italia ove, salvo qualche caso sporadico, piace o per lo meno è piaciuto maledettamente. O perché non si deve rendere i dovuti onori a questo nostro chiaro spiritoso originale (originale come si può essere oggi) musicista che si è rassegnato a poco a poco ad essere del suo secolo? Giacché con loro buona pace gli ottocentisti in oggidi faranno sempre la figura degli arretrati e dei 'laudatores temporis acti'.
Mi dimenticavo di dire che nell'anno francescano Malipiero ha composto un San Francesco d'Assisi che, benché lasciato in disparte, a parer mio, in tanta gara di «volersi far belli allo splendore eterno di Frate Sole», resterà l'unica cosa di genio - oh! dio, si capisce, novecentesco - che sia stata prodotta in mezzo alla caterva di produzioni francescane con cui i compositori hanno voluto onorare il centenario del Serafico.
Per quanto il modo con cui dal Malipiero è musicato Povertate poverella umiltate è tua sorella abbia carattere squisitamente popolare e medievale, sì, ma abbia anche la disgrazia di ricordare l'intonazione delle parole ironicamente puerili di Nerone nella Ottava Canzone: «Io ho rotto il fuscellino per un tratto e sciolto il grupo». Il che, precisamente, non edifica, come avviene in altre parti del lavoro maliperiano. Che però - ripeto - tutto sommato, rimane l'unica cosa geniale che musicalmente il centenario francescano abbia prodotto.
* Il capitoletto precedente è dedicato a I Quattro Rusteghi di Wolf-Ferrari.