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ROMA 1942-XXI

PRIMA PARTE

SECONDA PARTE

TERZA PARTE


IX

Un'altra urgente necessità: la rinuncia, in chi ne è infetto, alla mentalità, alla pratica, al comodi del «gruppo» e della «cricca» ai quali troppi ancora, fra artisti militanti e organizzatori, soggiacciono: che è mentalità - non che imperiale e nazionale - provinciale, paesana, faziosa; e glaciale e sorda rispetto al momento attuale. Qui, per non ripetere idee e parole che vado ribadendo da vent'anni, mi soccorre ciò che scriveva in quest'anno nella «Stampa», Marco Ramperti, da quell' «indipendente» che è, a proposito di poesia: «Un tale monacato, in realtà, non è che assenza, inerzia, indifferentismo: e infatti vedrete, in tutte le crestomazie che quel lindi fraticelli mettono ogni tanto insieme, per comentarsi e beatificarsi fra di loro, puntualmente banditi tutti gli scrittori colpevoli, a loro giudizio, d'avere invece dei nervi e dei sensi: tutti gli aderenti alla realtà; tutti i partecipanti alla vita. Qualunque palpito cordiale è un crimine, al loro occhi immobilizzati non si sa se dall'estasi o dal sonno; e quindi il letterato che esiste perchè pensa, e scrive perchè esiste, non trova grazia nei loro chiostri dalla regola austerissima e dal refettorio ben fornito. Mancando loro una coscienza vitale, non possono essi immaginare che altri l'abbia; e la poca gioia di se stessi diventa mortificazione per tutti».
Senza essere troppo ottimisti, si può credere che queste barriere e trincee e - sopra tutto - queste mentalità saranno presto rotte e superate. Esse rappresentano infatti, specialmente nella musica e nella pittura, l'anacronistica sopravvivenza di membra sparse della «Internazionale dell'arte» che aveva in queste chiesuole nostrane le sue «cellule» attivissime e che, già liquidata a Berlino e a Vienna, lo è oggi anche a Parigi: e non presenta più, dunque, ragione alcuna di esistere ne utilità alcuna per i suoi corrispondenti e agenti italiani.
Se c'è dunque da compiere una azione-base, che costituisca una solidissima piattaforma per gli sviluppi avvenire, che debbono essere studiati e fissati su di un piano seriamente meditato e ordinato, questa dev'essere volta, come già si è detto, a rinfocolare, ad esaltare, ad irrobustire e a rendere sempre più geloso e sempre più scontroso e irritabile quel senso della libertà della indipendenza della 'dignità individuale e nazionale che si è mostrato si valido scudo alla maggior parte, ai più sani e dotati e autentici artisti italiani, nell'ultimo ventennio, contro tutti i barbarismi e le degenerazioni d'oltr'Alpe.
Non tanto a chiarimento e a precisazione del nostro pensiero - chè crediamo di esserci abbastanza spiegati - quanto in omaggio ad un Pittore e Poeta che, pur vivo di modernissimi spiriti e di verace, ma italiana, ansia di rinnovamento, vide e parlò schietto molti anni or sono, quando la moda e la convenienza suggerivano di veder torbido e di parlare prudente - ricorderemo qui una bella pagina di Ardengo Soffici che entra perfettamente nel nostro ragionamento e può molto brillantemente concluderne questa parte in cui si è fatto l'Elogio della Gelosia: «Più d'una volta mi è occorso, opponendomi stomacato alle scimmiottature artistiche e letterarie dell'estero, di sentirmi ribattere che dall'acclimatarsi tra noi di codeste perversioni sarebbe pur nata alla fine una nuova tradizione e civiltà, come a volte è acca duto che un mondo si e sovrapposto ad un altro, formando un nuovo composto vitale, eccetera. Codesti miei eruditoni, codesti goffi letteratucoli, piccoli borghesi bolscevizzanti, codesti freddi bastardi credono di rivelarmi, così facendo, una gran verità, o di dire chi sa che cosa peregrina e profonda. Grazie tante! Lo so anch'io, e lo sa anche il portiere, che la storia è tutta fatta di queste palingenesi; che dalle rovine di una civiltà un'altra civiltà si leva; che morto un papa se ne fa un altro'. insomma. Ma io amo per l'appunto la civiltà italiana con le sue particolari caratteristiche, e quella difendo, perchè essa vive in me ed io in lei, perchè ne sono geloso come di un'amante diletta; e ogni intrusione di spiriti stranieri mi fa orrore e ribrezzo, proprio a quel modo che l'invadenza d'un rivale, per interessantee fecondante che sia. Anzi!».
Non tanto a chiarimento e a precisazione del nostro pensiero - chè crediamo di esserci abbastanza spiegati - quanto in omaggio ad un Pittore e Poeta che, pur vivo di modernissimi spiriti e di verace, ma italiana, ansia di rinnovamento, vide e parlò schietto molti anni or sono, quando la moda e la convenienza suggerivano di veder torbido e di parlare prudente - ricorderemo qui una bella pagina di Ardengo Soffici che entra perfettamente nel nostro ragionamento e può molto brillantemente concluderne questa parte in cui si è fatto l'Elogio della Gelosia: «Più d'una volta mi è occorso, opponendomi stomacato alle scimmiottature artistiche e letterarie dell'estero, di sentirmi ribattere che dall'acclimatarsi tra noi di codeste perversioni sarebbe pur nata alla fine una nuova tradizione e civiltà, come a volte è acca duto che un mondo si e sovrapposto ad un altro, formando un nuovo composto vitale, eccetera. Codesti miei eruditoni, codesti goffi letteratucoli, piccoli borghesi bolscevizzanti, codesti freddi bastardi credono di rivelarmi, così facendo, una gran verità, o di dire chi sa che cosa peregrina e profonda. Grazie tante! Lo so anch'io, e lo sa anche il portiere, che la storia è tutta fatta di queste palingenesi; che dalle rovine di una civiltà un'altra civiltà si leva; che morto un papa se ne fa un altro'. insomma. Ma io amo per l'appunto la civiltà italiana con le sue particolari caratteristiche, e quella difendo, perchè essa vive in me ed io in lei, perchè ne sono geloso come di un'amante diletta; e ogni intrusione di spiriti stranieri mi fa orrore e ribrezzo, proprio a quel modo che l'invadenza d'un rivale, per interessantee fecondante che sia. Anzi!».
***
«Gelosia» questa parola che corre spontanea alle labbra e alla penna dell'artista per il sentimento che esprime, dice tutto. Dice, prima di, tutto, passione; che non soltanto significa l'opposto di «indifferenza» (eppure, quanti saggi d'arte «alla moda» - di quella che dura una stagione e che vive la sua oscura effimera vita solo nella letteratura e nella retorica delle varie Vogues - sono dovuti ad artisti che erano e sono altrettanti «indifferenti») ma anche rappresenta qualche cosa di remotamente lontano da alcunchè di «accomodevole», di «salottiero», di «crepuscolare», di «deluso», di tanto cosmopolita e poliglotta, da non riuscire più a preferire il proprio idioma - il proprio Spirito - a quelli estranei. Dice ciò che fu glorificato da Stendhal col nome di entusiasmo, e che fu amato ed esaltato da Leopardi come la prima forza motrice del suo proprio mondo: la Maya dell'India Vedica, l'Illusione; dice non soltanto passione, ma dice anche temperamento: e sono appunto passione e temperamento condizioni prime e assolute dell'essere artista' vero e - implicitamente - autentico esponente dello spirito di una Nazione. (La passione sostiene i fondamenti del mondo, mentre il genio ne dipinge la volta - è di Chang-Ch'ao -; non sosterrà dunque i fondamenti dell'arte?). Temperamento e passione portano con se, lo sappiamo, alcune varietà di «eccessi»: l'irritabilità, l'ego-centrismo, ecc.; ma li preferiremo sempre ai fiori di malva da decotto, o all'ipocrisia della falsa violetta mammola. Saranno litigiosi, magari spinti nella polemica; ma gioveranno molto più, alla fisionomia spirituale di una Nazione, che non quel troppo diffuso stile di vita che è la perpetua tremarella. L'infiammata passione nazionale potrà rendere tali artisti tendenziosi in qualchetesi, non abbastanza sereni in qualche giudizio; ma anche questi eccessi potranno servire d'esempio a quegli italiani (non molti, ma ve ne sono) che dopo vent'anni di Fascismo non hanno ancora imparato - nella vita, nell'arte, negli studi - a sentire e, a mostrare l'orgoglio del proprio essere italiani, la sicurezza della propria intelligenza e della propria coltura latina e classica, il coraggio e la fermezza delle proprie opinioni. Si potrebbe mai immaginare un Dante, un Machiavelli, un Buonarroti, un Leonardo, un Galilei, un Colombo, un Mazzini, un Cavour, un Verdi, un Crispi, un Mussolini senza passione, senza temperamento, non assillati dallo stimolo prepotente e provvidenziale della propria coscienza di italiani interi e schietti?
Ebbene, senza menomamente pensare o sperare che, in breve giro d'anni com'è questo della nostra esperienza, possano alzarsi dalla nostra terra molti di questi colossi, è pure indubitabile che, per essere spiritualmente, per affermarsi in un qualunque modo in una qualunque arte o manifestazione di pensiero; e tanto più per riconquistare, e per affermare durevolmente il proprio Primato, è di temperamenti autentici, è di passioni infiammate, è di intolleranti gelosie che l'Italia ha bisogno.
Molto, moltissimo hanno già fatto, come si è detto, i nostri artisti nel ventennio scorso, con la superba difesa che hanno saputo opporre agli assalti dello snob e dei barbarismi. Ma, siccome non basta tenere le posizioni conquistate, ma occorre procedere oltre e conquistarne di nuove, altre passioni bisogna suscitare e tener vive, altri temperamenti ancora bisogna scegliere e aggregare alla santa Milizia. E a quest'opera di decantazione di scelta e di orientamento - che, quanto l'assunto è arduo, tanto più sevèra eattenta dovrà essere - potrà molto servire, prima della Vita, la Scuola: specialmente coi suoi nuovi ordinamenti, se saranno seriamente intesi e applicati.
Lo vediamo ogni giorno nelle scuole d'Arte. Perché questi e questi signorini si ostinano a studiare musica? Perche, questi altri, pittura e scultura? Perchè, questi altri ancora, architettura? Pigri, ignoranti, svogliati, con delle facce da scemi che si può giurare non si sveglieranno mai: senza spirito, senza vita, senza neanche l'intelligenza e il lasciapassare (per l'avvenire) di rompere le scatole al signor maestro. V'informate, e saprete sempre la stessa storia: non volevano far nulla, eran buoni da nulla, incapaci di ogni seria applicazione, muti di ogni vocazione, sordi ad ogni - alto o mediocre - ideale; perciò sono stati mandati alla scuola di arte; il rifugio non dei peccatori, che magari fossero tali, ma dei niente, degli zero. Quali artisti, quali architetti saranno domani, nella vita? Saranno niente, saranno zero. Nel caso migliore, che riescano cioè a praticare in qualche modo l'arte che hanno studiato (e che non hanno imparato) saranno i malcontenti, i mancati, gli sfiduciati, «gli indifferenti», i rivoluzionari per analfabetismo o per infantilismo cronico, gli scimmiottatori di tutto quel che di peggio si fa fuori di casa.
Compito delle scuole dovrebbe dunque essere quello di eliminare questa folla di inetti prima che diventino un peso morto per la vita dell'arte, ed elementi di confusione, di intralcio e di danno per gli artisti ben dotati. E i talenti per natura ribelli? e gli «spontanei»? Se sono «talenti» e se sono «ribelli», non rientrano nella categoria che si è detto, dei Muti, dei sordi, degli «indifferenti»; e se sono proprio «artisti spontanei» meglio per essi. Non vi sarà barba accademica che riesca a farli tacere, nè maligna forbice che possa tagliarne le ali.
Come sarebbe bello, invece, se - avvenuta la selezione, riservate le aule solo ai «degni» ai «ben dotati» a quelli che hanno vera e profonda «passione» - le scuole d'arte riuscissero ad accendere nel loro frequentatori la fiamma dello squadrismo spirituale, il piacere e l'amore delle nuove conquiste, delle vie inconsuete, del perenne rinnovarsi ed evolvere dell'arte! Se nella stessa Accademia, insomma, già si desse a conoscere il fascino dell'Anti-Accademia! Ma questo, dopo aver bene studiato e grammatica, e sintassi, e imparato bene il mestiere, e superate tutte le lunghe, dure difficoltà che la sua vera padronanza richiede, e bene studiato e imparato a capire e ad amare tutto quello che fecero, nei secoli, gli altri, prima di noi. Sarebbe, questo, il migliore alimento all'innata passione; il più sicuro corroborante al «temperamento» che va formandosi: la più intelligente giustificazione al geloso orgoglio nazionale; il più sicuro cemento per la formazione della personalità che dovrà poi affermarsi e possibilmente eccellere nella vita artistica militante.
Abbiamo accennato alla opportunità, alla necessità anzi di suscitare negli scolari degli Istituti d'arte, uno spirito di squadrismo spirituale (non chiassoso, non parolaio o facilone: alle condizioni esposte più sopra, cioè: una cosa seria); e pensiamo che esso potrebbe molto utilmente contribuire a formare uno stile di vita, un abito mentale, un modus agendi che dovrà essere in ogni caso - nell'Italia imperiale e decisa ad occupare il posto che le compete nel mondo dello spirito - molto diverso da quello che per ragioni varie si è venuto formando nella grande maggioranza della nostra gioventù di oggi. Passione, slancio, calore comunicativo; e voglia di studiare.
Sentiamo un altro che con i giovani ha avuto ed ha sempre molti contatti, e che può guardarli ormai come padre i figli ... «Siamo stanchi di una razionalità che rimane chiusa in se stessa e non sveglia intorno che flebili echi. Siamo stanchi di un'arte «corretta», troppo misurata, troppo controllata, per la quale ci siamo impegnati con una convinzione salutare, certo, ma più voluta che non sentita. Vediamo con inquietitudine come le nostre esperienze abbiano dato origine, nei più giovani, ad una prosa depauperata, sterilizzata, alla quale un aggettivo di troppo nuoce ormai come una bruttura; a una poesia che ragiona con una sottigliezza paurosa; a una musica dove non risuona un accento che non sia calcolato in funzione di un'assoluta impassibilità.
Insomma siamo stanchi di questa perfezione. Perchè non sappiamo che cosa potrà accadere della cultura europea: ma abbiamo l'impressione che per sopravvivere essa dovrà tornare allo slancio, al calore comunicativo che ci hanno incantati negli anni della nostra adolescenza. Non possiamo continuare a ripetere motivi che si risolvono in formule, a irrigidire i sentimenti, a chiudere porte e finestre alle idee generali, comuni e tuttavia grandiose del tempo passato».
È C. B. Angioletti che scrive. Guardando ad altri fenomeni (e taluni opposti, ma simmetrici a quelli da noi accennati, e procedenti da tina medesima, unica origine) con diverse argomentazioni, con altre parole che non le nostre, egli - come noi - invoca e reputa necessarn un fuoco, una espansività, uno slancio di cui trova sprovvisti troppi giovani e, possiamo aggiungere, anche troppi mezza età di questi tempi. E prima, lo stesso Angioletti aveva scritto: «Nel 1915 noi, allora ventenni, eravamo romantici, romanticissimi, con un candore e una facoltà di illusione che (purtroppo) oggi ci fanno, nel ricordo, sorridere... Il nostro interventismo fu ancora romantico, romantica fu la nostra guerra. Tutto insomma era irrazionale quel che ci piaceva».
Romanticismo o no (noi detestiamo le etichette e gli ismi, e tutte le catalogazioni-gabbia) è con quei temperamenti, e con ; quelle temperature che fu voluta, e fu vinta la guerra del 1915 (e il popolo e gli artisti e gli intellettuali italiani non hanno nessuna colpa se i politici del tempo perdettero poi la pace al tavolo della Conferenza; ma D'Annunzio protestò per tutti); è con quei temperamenti e con quelle temperature - e gli articoli 1915-18 di Mussolini sul Popolo d'Italia sono bene un altissimo modello di squadrismo spirituale che il Fascismo si affermò e fece la sua trionfale marcia su Roma: è ancora con quei temperamenti e con quelle temperature che tanta parte degli artisti di tutte le arti e gli intellettuali italiani si opposero strenuamente - nel ventenmo 1919-39 alle invasioni barbariche e alle lusinghe societarle, e vinsero la loro guerra presagio.
Ebbene, è proprio di temperamenti e di temperature che per l'oggi e per il domani - noi abbiamo parlato e parliamo.

X

A dare lo spunto, o per meglio dire a rendere più ricco il sommario che avevamo già tracciato, di quest'ultimo capitolo, ci cade sott'occhio molto a proposito un sensatissimo (altri direbbero coraggioso: ma noi non abbiamo ancora capito - e speriamo di non capirlo mai - quale sia il coraggio che occorre per enunciare, nel nostro clima, e nell'interesse della Nazione e del Regime, certe semplici, evidentissime verità) un sensatissimo articolo pubblicato in Primato recentemente. Reca, a luogo della firma, una stelletta, ma ha tutta l'aria di essere di Giuseppe Bottai. Sia o non sia, dice cose che meritano di essere sottolineate; offre spunti che tornano molto comodi allo sviluppo e alla conclusione del nostro ragionamento.
Nell'articolo, intitolato Forza di popolo, si legge: «La lotta che si combatte duramente sul fronti italiani, dall'Albania alla Marmarica, mette oggi alla prova tutte le nostre capacità, tutte le nostre forze (e anche i nostri difetti) nel campo materiale e in quello morale. E ormai perfettamente inutile nascondere la dura realtà: se un insegnamento vivo ci ha dato e ci dà tuttora il Fascismo, non solo sul piano del freddo calcolo e della ragione politica, ma anche su quello del costume etico e dell'attribuzione di precise e concrete responsabilità, è precisamente quello di misurare, di dedurre, con spirito quasi geometrico, dai fatti, dai risultati - e solo da essi - la virtù degli uomini e dei sistemi. Le giustificazioni, le scuse agli insuccessi non varrebbero e non valgono: sono, sul piano morale, i residui di una abitudine all'impersonalità e all'irresponsabilità che noi respingiamo; sono, sul piano politico, i tentativi vani e piccoli di inzuccherare la pillola amara... Se una cosa certamente e definitivamente questo conflitto seppellirà, per la pace e per la guerra, è il mito del «lasciar fare» o «del fare da sé», individualisticamente inteso».
Qui lo scrittore doveva aggiungere subito che, oltre al «lasciar fare» e al «fare da se» questo conflitto dovrà definitivamente seppellire per la pace e per la guerra anche lai del «lasciar correre». Ma di questo diremo più avanti.
Quello che importa adesso è di osservare quale suono producano questi principli una volta trasferiti sul piano della nostra meditazione. Non, dunque, il fare da sé, individualisticamente inteso. Perfettamente d'accordo. Questo, nel campo dello spirito e dell'arte, è il nostro pensiero e la nostra prassi, da quando siamo nati alla vita militante; e questo collima rigorosamente con quanto abbiamo, anche recentemente, sostenuto in questi nostri scritti, ripetendo ancorauna volta che prima condizione per l'affermarsi di un impero spirituale italiano per il raggiungimento di un vero Primato, è che gli artisti, gli scrittori. gli uomini di pensiero e di penna, agiscano e producano ed operino sempre nel quadro dei grandi interessi nazionali. Non è questa una scoperta: e non è, come prassi, cosa nuova.
Tutti i grandi artisti e pensatori italiani antichi e moderni, pur senza essersene fatto un programma aprioristico, non fecero altro che questo; ed è per questa ragione che l'Italia occupa nella Storia e nel Mondo dell'intelletto e dello spirito, da otto secoli, il posto veramente imperiale che oggi bisogna più che mai riaffermare.
Lo predicava già Dante in Della Monarchia: «La operazione propria del genere umano preso nel suo insieme, è di ridurre in atto tutta la potenza dell'intelletto possibile, in prima a speculare, indi, per questo, ad operare per la estensione sua... Ma perchè a questa operazione ne un uomo solo... ne una città... ne un regno particolare può pervenire... è necessario che sia moltitudine cooperante nell'umana generazione per la quale tutta la presenza sua in atto si riduce». Mazzini, parlando di arte, e precisamente di musica, scriveva: «Soli, soli nel passato noi morimmo per rivivere, e il nostro vivere fu sorgente di vita nuova all'Europa. Una tendenza ingenita nella mente italiana che mira a congiungere in perenne armonia teoria e pratica, conferma le profezie della Storia, ci addita, siccome parte dell'Italla nel mondo, l'unificazione morale, la parola sintetica dell'incivilimento. L'Italia è una religione... a nessuna terra in Europa fu assegnato più splendido Ufficio educatore...»; e alla musica del suo tempo rimproverava (Verdi non era ancora sorto): «Si è segregata sempre pffi dal viver civile, s'è ristretta ad una sfera di moto eccentrica, individuale; s'è avvezza a rinnegare ogni intento, fuorché di sensazioni momentanee e di un diletto che perisce coi suoni»; e ai giovani diceva (e le sue parole stupende vanno anche ai giovani di oggi): «L'arte che voi trattate è santa e voi dovete essere santi com'essa, se volete essere suoi sacerdoti. L'arte che vi è affidata è strettamente connessa col moto della civiltà, e può esserne l'alito, l'anima, il profumo sacro, se trarrete le ispirazioni dalle ricerche della civiltà progressiva, non da canoni arbitrarii ed estranei alla legge che regola tutte le cose». Quando «Primato» e noi ripetiamo l'augurio e l'auspicio, non facciamo altro, dunque, che chiedere «via libera» al sano atavico istinto nostrano, e far tesoro di una felice provatissima esperienza, e tributare il ben dovuto onore ad una superba e gloriosa tradizione italiana alla quale dobbiamo saldamente riallacciarci, se vogliamo contare quel che possiamo contare nel mondo dello Spirito.
Anche però dobbiamo saldamente riallacciarci nella pratica del viver civile ad un'altra superba e gloriosa tradizione che è «italiana» in quanto latina e classica sopra tutte, e che costituisce una delle premesse necessarie e delle necessarie condizioni alla universalità del nostro pensiero, alla grandezza e alla «romanità» della nostra civiltà, alla saldezza d&que alla durevolezza del nostro Primato spirituale e del nostro Impero. Intendiamo la riaffermazione - e in qualche campo limitato la restaurazione - di quello che fu detto lo «spirito erasmico» dal suo maggior assertore del '500, ma che potrebbe anche dirsi «spirito umanistico», per significare amore della poesia e della coltura, ricerca dell'equilibrio, contrapposizione della ragione e della misura alle intolleranze del fanatismo e del dogma,. amore dei vasti e alti e liberi orizzonti contro l'angustia mentale, religione umanitaria contro gli eccessi 'del furore e della violenza.
Contro il fanatismo luterano, che riconosce «giusto» solo il proprio sistema, che ammette solo la propria verità, che si vale della violenza per sopprimere, entr o l'immensa varietà dei fenomeni voluta dal Creatore, ogni ' altro Vero, si erge Erasmo da Rotterdam: con non abbastanza energia, purtroppo; con non sufficiente coraggio; e la diserzione nell'ora fatale di Worms rimane indelebile macchia nella sua vita; e le invocazioni del Dúrer, e quelle del Pontefice, e di Enrico VIII, e di Carlo V, e di Ferdinando d'Austria e di Francesco I e del Duca di Borgogna, rimaste inascoltate, aggravano la sua colpa. Si erge, cioè, il più grande, in quel tempo, il più legittimo e autorevole rappresentante, per va.stità di coltura e di ingegno, dell'umanesimo nato e fiorito in Italia a illuminare il mondo: per nulla affatto degno rappresentante - né poteva, essendo nato d'altro sangue della virilità, dell'indomito coraggio dell'italiano - vero e schietto: italiano cioè di sangue, di coltura, di spirito. E, da quell'umanista che è, Erasmo contrappone alla predicazione d'intolleranza del rivale, il suo vasto amore per il mondo, cui dichiara di amare appunto per la sua molteplicità, in cui trova necessari, alla vita, anche i contrasti. E proclama che nulla gli è più ripugnante che abolirli al modo di quel «fanatici e sistematici che vorrebbero condurrè tutte le cifre ad un comune denominatore e tutti i fiori ad unica forma e a un solo colore».
In questo consiste e si materia la caratteristica grandezza di spirito e la superiorità della mentalità umanistica, e dello Spirito latino, romano, italiano: nel cercare e nel riconoscere possibile, al di sopra dei contrasti delle contingenze e delle contrapposizioni, il raggiungimento di una sfera nella quale l'intesa dev'essere attuabile, di una unità superiore: quella umana. Fu bene un riflesso di questo grande Spirito umano e umanistico, fu bene la luce e l'ispirazione della nostra latina antica umana civiltà che illuminarono e potenziarono il genio di Mussolini nell'anno indimenticabile che gli eventi, non il tempo trascorso, rendono ormai remoto: quando volle salvare l'Europa e il Mondo dall'abisso verso il quale ciecamente si avviavano ideando, proponendo e propugnando a Stresa il «patto a quattro», che fu il primo tentativo di raggiungere la solidarietà europea attraverso la revisione pacifica dei trattati e con la affermazione pratica di quei principi di alta giustizia tra i popoli, che sarebbe stato convenienza di tutti accettare, e che in ogni modo rimangono titolo di gloria impareggiabile per Mussolini e per l'Italia fascista che li avevano presentati in concretezza diplomatica e sostenuti con spirito umano e umanistico insieme. Ed è bene solo da questo Spirito che un Primato é un Impero possono trarre forza ed essere accettati ed amati nel tempo e nello spazio.
Ma Primato prende anche posizione, nelle righe che abbiamo citato, contro i residui di un'abitudine all'impersonalità e all'irresponsabilità, e questa abitudine respinge. E a questo proposito vogliamo dire che - sia o rto del Bottal l'articolo in parola---cifa molto piacere, molto ci sentiamo sollevati e confortati di leggere, in un periodico di cui il Ministro dell'Educazione Nazionale è condirettore, affermazioni chiare e precise come queste. Perché non si puo negare che, nata non si sa di dove, nè come, nè perchè, una certa tendenza alla spersonalizzazione si era osservata tra noi 'in questi ultimi annf: la quale, oltre ad essere in assoluto insanabile contrasto con quella che è una delle più profonde e feconde e mirabili e preziose qualità dell'italiano, è e sarebbe del tutto negativa, esiziale, controproducente, ai fini della affermazione non diciamo di un Impero, non di u n Primato, ma neanche di un mediocre atto di presenza nel mondo dello Spirito, perchè mai non vi furono nè mai vi potrebbero essere grandi arti, grandi lettere, grandi opere di pensiero senza grandi, ben individuabili, liberamente fiorite ed espanse (nel quadro degli interessi nazionali) personalità di artisti, di scrittori, di pensatori.
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Dice altrove Primato: «Dopo quelle di una politica di 'nazionalità' e di 'indipendenza territoriale', l'Italia affronta oggi le prove di una Politica di 'potenza' e di impero: ha in se - noi crediamo, quali che siano gli eventi - la capacità di un grande popolo in ascesa: intelligenza e coraggio, tenacia e numero. Ma bisogna decidersi: nessuna di queste doti vuole e può essere soffocata, vuol solo essere incanalata e potenziata in un lavoro concorde, disciplinato, onesto e fiducioso. E dannoso, è pericoloso - in una lotta in cui tutte le forze vanno messe all'attivo - sacrificare qualcuna di queste doti in un meccanismo inumano, e cieco, come era dannoso lasciarle disperse e inutilizzite».
L'allusione alla greve e disorientante bardatura burocratica che si è venuta creando e sempre più appesantendo in questi anni è qui evidente (vero caso di teratismo» statale. dei più dannosi e costosi all'economia e allo spirito nazionali, che meriterebbe lo studio di uno specialista, come «i teratismi dell'industria» l'ebbero in Francesco Mauro), come è chiara l'allusione al conseiuente Nirvana delle irresponsabilità, alle disfunzioni procedenti direttamente dalla elefantiasi, dalla macchinosità e «indifferenza» meccanica appunto degli organismi stessi, alle ottusità e rivalità di tavolino che ne derivano, alle innumerevoli vie aperte in tal modo a tutte le più perniciose contaminazioni, 'nterferenze e influenze estranee.
Trasportato il ragionamento nel campo spirituale vuol dire, tra l'altro, che l'intelligenza e il coraggio dell'itallano, molto notevoli e dotatissimi per aspirare a qualunque Primato e a qualunque, Impero, l'una e l'altro, non debbono essere ingabbiati in troppe pastoie formali e burocratiche; e che, se e quando si verifichino casi di iniziativa personale (specie se posson tornare, per larghezza di vedute e per intelligenza di piani. a vantaggio del Paese) non debbono essere corisiderati come un... pericolo nazionale. Ancora dice Primato: «Nell'un caso e nell'altro, la «preparazione» è imperfetta se non negativa. Ora, se sul piano europeo le moderne rivoluzioni segnano la fine di ogni liberistico e liberale lasciar fare, su quello della storia italiana si vuole la fine definitiva, anche in tutti gli angolini e mimetizzamenti, di ogni residuo spirito quarantottesco e di ogni improvvisazione. Come non vi e oggi risoluzione del problema economico se non su un terreno di collaborazione sociale e perciò anche umana e morale, così non si risolve il problema di «potenza» se non su un piano di alte competenze tecniche e capacità organizzative: se non con una preparazione profonda, valida per se e per gli altri. Sono queste le condizioni effettive e assolutamente ineliminabili di un «primato» moderno. Accanto alle antiche virtù, bisogna che anche queste nuove entrino nella forza degli italiani, nella costituzione sociale, nella vita di ogni giorno e di ogni individuo, occorre che si facciano metodo e costume di una classe dirigente e di una Nazione».
Non si potrebbe parlare meglio di cosi; e noi ci reputiamo molto fortunati di trovare, in questo 14 febbraio del 1941-XIX in cui scriviamo, cos i chiari e giusti e solidi concetti, e così intimamente vicini al nostro pensiero, che potremmo senz'altro commento tenerli a conclusione dei nostri scritti. Ma potrebbe sembrare troppo «comodo»; e uno dei nostri doveri di italiani e di fascisti è quello, oggi, di scansare le troppe comodità, specie quando possono assumere l'aspetto di reticenza. Sempre operando dunque la trasposizione del ragionamento di Primato al nostro campo specifico, le parole che abbiamo sottolineate nella citazione ci incoraggiano a sperare che, davanti al nuovi ardui compiti che ci attendono, saranno definitivamente sepolti con questo conflitto anche il culto dell'incompetenza, quello della raccomandazione o «segnalazione» che dir si voglia, quello del «lasciar correre»; e che, eliminati gli inetti, ci si prenderà cura di riconoscere e di fissare nella milizia dell'arte e dello spirito, i gradi ben guadagnati e l'autentica scala delle gerarchie degli ingegni e delle intelligenze, e dei valori autentici. Ma a questo - occorre appena accennarlo - non potrà bastare la buona volontà e l'eroismo degli artisti operanti e militanti. Dovranno innanzi tutto operare e collaborare, assumendosi coraggiosamente le iniziative e le funzioni discriminanti opportune e necessarie, gli organismi confederali, sindacali, burocratici, aventi compiti direttivi o di controllo, o voce in capitolo nelle cose dell'arte e dello spirito.
Intendiamo che dovrà essere combattuta e vinta certa malsana (e anacronistica) tendenza alla demagogia, all'accontentare tutti (e specialmente chi strilla di più o chi più si fa raccomandare) e al livellamento dei valori - che significa disammare e allontanare dall'arte i migliori -; tendenza della quale abbiamo largamente parlato in un nostro recente volume [I]; e che, oltre a non appartenere al Fascismo predicato da Mussolini, è dannosissima agli interessi dell'arte e della intellettualità nazionale, ed è controproducente ai fini della chiarificazione dei rapporti fra artisti creatori e pubblico e vita circostanti, che da tanto tempo si invoca, che è già in atto, e che è urgente portare a buon termine.
E ugualmente dovrà essere combattuta e vinta la già accennata esiziale pratica che va diffondendosi in modo sempre più allarmante, del «culto dell'incompetenza» che in ogni campo (e lo si è visto) ma specialmente in quelli spirituale e artistico che costituiscono il cervello, la guida, la fisionomia, il carattere distintivo, l'«accento» della Nazione e del Regime - può produrre rovine incalcolabili e irreparabili; come dovrà essere risollevato dall'oblio, e finalmente preso a norma inderogabile di ognuno che veramente voglia servire e difendere il Paese e contribuire alla grandezza imperiale di Roma quale dovrà essere (come dettò Ovidio? «Aetherearn servate Deam, servabitis Urbem»), il detto di Mussolini: «Il distintivo non dà l'ingegno».
A chi non li abbia sortiti la madre Natura o non li abbia affinati o non se li sia conquistati nella scuola e con duri anni di lavoro di sacrificio e di lotta, non dà l'ingegno; ma neppure la intelligenza, né la coltura, né l'esperienza, ne il carattere, ne la serietà, ne il senso della responsabilità, ne autorità degna di esser riconosciuta, né attitudine, ne abitudine al comando. In questi anni pieni di Fato e di grandezza, è p iú che mai necessario ricordare - obbedendo scrupolosamente ad esse - le parole-base di Mussolini, come sarà molto utile rileggere almeno qualche chiara pagina del Profeta della Nazione, Mazzini; «Noi vogliamo su questa terra che unificò, migliorandola, due volte l'Europa, riedificare un Tempio alla Morale» [...] «Noi vogliamo dunque porre a capo del nostro edificio sociale i migliori per senno e per core, il Genio e la Virtù».
Tanto più oggi, che l'Italia deve assumere il suo ufficio di Potenza imperiale anche nel campo spirituale e artistico (in musica e in pittura lo ha tenuto sempre questo ufficio, veramente, anche nell'Evo Moderno) e deve dunque preoccuparsi non soltanto delle convenienze interne, ma anche e sopra tutto delle convenienze e delle ripercussioni verso l'esterno.
Questa - fra le molte che abbiamo man mano accennate - sarà prova tra le più ardue e dure: perchè qui occorreranno veramente, in chi dovrà lavorare su un terreno tanto difficile e scabroso, coraggio, fermezza, ardore, e profonda conoscenza degli uomini e delle cose.
Solo a queste condizioni, d'altra parte, la grandezza spirituale e artistica dell'Italia e di Roma sa quella voluta da Mussolini, e degna dell'era gloriosa che Mussolini ha dato alla nostra Patria. Roma diventerà e si affermerà allora, per noi e per il mondo civile, quale la Parigi dell'ultimo ventennio non fu certo: non il centro del capriccio e della corruzione, come fu la Ville-Lumière con le conseguenze che abbiamo vedute; ma neppure caserma del «pompierismo», neppure ampolla della cristallizzazione, che sono sinonimo di morte; e neppure schedario della «rotazione» che è parola senza senso in arte.
Diventerà invece, Roma capitale d'Italia e dell'Impero fascista, veramente il centro artistico e spirituale non soltanto dell'Italia, ma dell'Europa: faro di civiltà romana. Veramente investita di tanta autorità morale e spirituale da poter conferire, a chi ne sia degno, l'alloro della grandezza.
Roma. Il Giornale d'Italia, 30 luglio 1940-XVIII-22 agosto 1941-XIX.
[1] ADRIANo LUALDI - L'arte di dirigere l'orchesira, Antologia e guida, preceduta da una Leitera dedicatoria a S. A. R. la Principessa Maria di Piernonte. Ulrico Hoepli, Editore Milano.