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ADRIANO LUALDI

DIARIO IV

PRIMO INCONTRO
CON ARTURO TOSCANINI


TUTTI VIVI

Firenze, luglio 1951. Il racconto dei primi contatti che ebbi con Pietro Mascagni, comparso nel Corriere di Informazioni di Milano e nel Tirreno di Livorno, mi ha procurato un gran numero di lettere.
Alcuni mi domandano (un po' scandalizzati evidentemente) come mai un musicista moderno possa occuparsi, parlandone con rispetto e con ammirazione, di un compositore «plebeo più che popolare», ormai sorpassato, giú di moda, cafone, ecc.
Lo sapevo che, solo a nominare Mascagni, c'era da «compromettersi» davanti a certi spiriti sopraffini, davanti ai colli torti, davanti ai preziosi ridicoli del nostro tempo, che sono a bizzeffe.
Ma io penso, e dico, che, per il nostro Teatro lirico, un paio di Mascagni anche oggi non guasterebbero; e il perché lo spiegherò un'altra volta.
Altri lettori mi scrivono invece - anche questi con l'aria di rimproverarmi: ma di amnesia o di ingratitudine - «Ma come, lei non fu lanciato, come compositore, da Toscanini?».
***
Esatto.
Ma per essere storicamente preciso, come è necessario in un caso di tanta importanza, e per non sollevare proteste né dall'al di là, né dall'al di qua, debbo dire che, prima, io fui «potenzialmente» lanciato da un sestetto illustre (per ordine alfabetico: Gaetano Cesàri, Luigi Ferrari Trecate, Guido Gasperini, Bernardino Molinari, Ildebrando Pizzetti, Guglielmo Zuelli, allora direttore del Conservatorio di Parma), che nel 1917 assegnò il Premio Edith Mac Cormick, istituito da Cleofonte Campanini d'accordo con questa mecenate americana, alla tragedia lirica in tre atti La figlia del re, testo e musica miei.
Per non dimenticare nessuno, prima di questo intervento collegiale e ufficiale ve n'erano stati altri due, privati: quelli di Ettore Panizza e di Ermanno Wolf-Ferrari, l'amato indimenticabile mio Maestro, che, sentita l'opera, avevano energicamente insistito perché io, molto scettico in fatto di concorsi (avevo subito, nel 1909, una scottatura), la presentassi a quella gara, la piú importante che si avesse allora in Italia: ventimila lire di premio - tenendoci al prezzi dei tabacchi (la gloria è fumo) quattro milioni di oggi - e l'esecuzione assicurata al Teatro - mi perdoni il Pacciardi - Regio di Parma.
Sì (adesso rispondo ad un altro lettore ancora, che me ne chiede proprio a proposito del Toscanini) fu La figlia del re che mi procurò l'onore del primo contatto artistico con Toscanini. Ed è proprio questa l'opera mia che, verso la fine del corrente mese sarà trasmessa dalla Radio, nella nuova «edizione radiofonica» (cioè con l'intervento di un nuovo personaggio recitante: il Sutradhara, il Regista, il Narratore) che, come feci l'anno scorso per Il diavolo nel campanile, ho preparata apposta.
Questa edizione ha come apertura, alla maniera del teatro classico indù, un prologo (recitato) ed è invece di tre, in un uni co atto, della durata di circa cento minuti. Tale è il limite di tempo imposto dalla Radio; e io, d'altra parte, gli spezzatini delle selezioni non li posso soffrire. Come La figlia del re sia stata motivo di incontro spirituale fra Toscanini e me, è caso davvero singolare e simpatico.
Assistevo, il 10 maggio del 1919, nel salone dei concerti del Conservatorio di Milano, ad una prova di Ettore Panizza.
Panizza dà riposo all'orchestra, mi alzo, mi avvio all'antisala, e vedo il Toscanini in piedi, fermo nel corridoio centrale, in capo alla seconda fila dietro la mia, delle poltrone di destra (guardando l'uscita).
Sapevo che il Maestro non amava i soliti mezzi del biglietto autorevole o dell'interposta persona, e me gli presentai. Mi accolse gentilissimo, e dopo un po' mi disse: «Ma lei, un paio di anni fa, ha vinto un premio con un'opera in tre atti. Io ne ho letto il libretto (lo aveva pubblicato l'editore Riccardo Quintieri, nell'inverno del 1917) e mi piace. Come mai quest'opera non è ancora stata rappresentata?».
Mi tenni in quel momento, alle ragioni dirò cosi ufficiali, perché mi ripugnava guastare la letizia di quel primo incontro col Maestro con pettegolezzi da Galleria; e gli spiegai: difficoltà di esecuzione, assenza e malattia del Maestro Campanini iniziatore del concorso e fiduciario della mecenate americana, l'assoluta i ndifferenza degli editori, l'impresario del Teatro Regio di Parma che nicchiava perché trovava che le 40.000 lire (tale era la cifra se ben ricordo) stanziate dalla Istituzione Edith Mac Cormick come sussidio per l'esecuzione dell'opera erano pochine, ecc.
Dopo aver ascoltato il mio racconto, Toscanini mi disse: «Mi mandi a casa la partitura d'orchestra e la riduzione per canto e pianoforte. Desidero vedere la sua musica».
Toscanini - chi non lo sa? - era celebre non soltanto per il suo magistero d'arte; ma anche per il suo carattere un po' difficiletto, per la estrema severità di certi suoi giudizi, e anche perché, se gli capitava di ascoltare e vedere musiche inedite, il piú delle volte erano guai per gli autori, che quasi sempre ne uscivano malconci.
Se, a ripensarci, l'invito di Toscanini mi la ancora oggi impressione, si può bene immaginare che razza di terremoto sia stato in quegli anni. Nei quali, come compositore, tolto l'episodio del Premio Mac Cormick, ero del tutto oscuro e, vedendo tanto ardua la carriera dell'operista, dedicavo la mia maggiore attività alla direzione d'orchestra.
Sbalordito, e piú confuso che persuaso, e più terrorizzato che speranzoso, il giorno dopo l'invito consegnavo alla portineria di Via Durini 20 un pacco di grande formato e di notevole peso, indirizzato al Maestro Arturo: Toscanini: i tre volumi della partitura d'orchestra, e la riduzione per canto e pianoforte de La figlia del re.
Da quel giorno, e per molti mesi, non osai piú avvicinarmi a Toscanini.
Quando lo vedevo (speculavo sulla sua miopia) giravo al largo, e mai mi feci vivo con lui.
Ero annichilito dall'idea che la musica non gli piacesse, e che quella che mi era sembrata al primo momento una inaudita fortuna, si concretasse in un definitivo seppellimento dei miei sogni di compositore di musica.
Nessuno, all'infuori di mia moglie, sapeva che la mia opera era nelle mani di Toscanini; ma uno, sì:
l'indimenticabile Leone Sinigaglia, del Toscanini amicissimo. Ma appunto perché lo conosceva a meraviglia, si guardava bene dal domandargli notizie sulle sue impressioni intorno all'opera mia.
Sette mesi e tre giorni lasciai passare (e ogni mattina, svegliandomi, il pensiero interrogativo era quello; e ogni sera, prima di addormentarmi, era quello) prima di decidermi al grande passo. E, dopo aver cercato lungamente un pretestó, mi attaccai alle feste di Natale.
Il 23 dicembre del 1919 salii per la prima volta lo scalone di Via Durini e suonai alla porta dell'Augure.
Ero molto emozionato.
Lo fui ancor piú, quando il cameriere mi disse: «Il Maestro non c'è; è uscito da mezz'ora».
Saranno state le undici e mezzo del mattino.
Ridiscesi lento e mogio lo scalone, convintissimo che Toscanini non avesse voluto ricevermi. «No, non gli è piaciuta; non vuole neanche vedermi.»
Ma poi pensai: «Però, il mio nome il cameriere non glielo ha detto; mi ha risposto sùbito, il cameriere, che il Maestro non c'era».
E ritornai alle quattro del pomeriggio.
Il Maestro mi ricevette subito, e mi tenne a casa sua fino alle sette, vale a dire per tre ore. Potrei scrivere dieci cartelle su questa visita indimenticabile e gioiosa. Dirò soltanto la conclusione. Quando, verso le sette, stavo per congedarmi, Toscanini mi fa: «Adesso che ho visto l'opera e che la conosco bene, desidero sentirla da lei. Troviamoci lunedì 26 a casa di Clausetti, verrà anche Sinigaglia che è qui, verrò io naturalmente, e sentiremo l'opera».
Se in quel momento non mi ha preso un accidente, il merito fu tutto della robusta costituzione fisica. Oltre al fatto in sé, c'era la faccenda di suonare uno spartito pianisticamente abbastanza difficile, che avevo fuori di casa da sette mesi. Cercai pretesti per ritardare, almeno, l'evento.
- Ma, Maestro - dico - guardi che Casa Ricordi ha già sentito l'opera. Ne hanno sentito la metà del primo atto. Hanno detto che non interessa alla Casa.

- Se ne hanno sentito solo mezzo atto - dice Toscanini - bisogna che sentano anche il resto.

- Ma. Maestro, guardi che sono un mediocre pianista; e lo spartito non l'ho sotto le dita, perché da sette mesi è in casa sua.

- Tutti i compositori sono mediocri pianisti. Lei farà quello che potrà; e io seguirò l'esecuzione con la partitura sott'occhio.
Insomma non ci fu verso. L'audizione rimase fissata per il lunedi 26 dicembre ore sedici; e a me non rimase altro che riprendermi lo spartito e correre a casa, e per tre giorni di seguito cantarlo e suonarlo, per prepararmi alla grande prova.
Il lunedì 26 alle 16 precise, Toscanini, Sinigaglia e Clausetti erano raccolti nel salotto di casa Clausetti in via del Gesù - Toscanini e Sinigaglia con la mia partitura aperta sotto gli occhi, Clausetti vicino a me per voltare le pagine, io al pianoforte.
La conclusione dell'audizione fu questa: che Toscanini, quando ebbi finito di suonare, mantenne un lungo momento di silenzio; e fu silenzio assoluto e sospensione per tutti; ed io ero sui carboni ardenti. Poi disse: «Quest'opera gliela metterò a posto io. La farò rappresentare al Teatro Regio di Torino (il Teatro alla Scala non era allora né Ente autonomo né sotto la sua giurisdizione). - Lei intanto prepari una chiusa per l'Interludio del sogno, perché io lo dirigerò alla prima buona occasione. Cosa ne dice, Clausetti, come editore?».
Clausetti, un po' imbarazzato, dice: «Certo, sentita tutta intera, l'opera è una cosa importante. La Casa Ricordi ne assume l'edizione».
Ne assunse, sí, l'edizione; ma la faccenda non andò tanto spedita come avevo creduto dovesse andare, quella sera a casa Clausetti.
Perché nel febbraio del 1921, per esempio, La figlia del re, grazie all'intervento di Toscanini presso l'impresario Alessandro Borioli, aveva il teatro ormai assicurato: sarebbe andata in scena nella stagione 1921-22 al Teatro Regio di Torino. Ma, quanto ad editore, si era sempre in alto mare, perché Casa Ricordi non aveva ancora accettato alcune condizioni che avevo poste, pensando a Le nozze di Haura non ancora rappresentate, sebbene già da nove anni fossero state acquistate dalla Casa e pubblicate; e anche perché dovevo considerare come un pessimo segno la glacialità che la stessa Casa aveva mostrato verso l'opera vincitrice del piú importante concorso del tempo, fino all'audizione del Santo Stefano 1919, imposta, con le buone maniere, da Arturo Toscanini. Non che chiedessi la luna nel pozzo (figurarsi! un giovane autore!); ma, perbacco, qualche cosa sì: in modo da impegnare almeno materialmente un po' di piú la Casa: con la speranza, che poi si manifestò illusoria, di garantirmi da altri seppellimenti premeditati e prematuri.
Ed ero ben deciso a non cedere. «...Alla piú disperata, avevo scritto a Wolf-Ferrari, pianterò un chiodo e preparerò il materiale d'orchestra ecc. a spese mie. Quello dell'Interludio del sogno è già pronto: perfettissimo: fu adoperato da Toscanini per la tournée d'America».
Allora, il 3 febbraio 1921, Maestro Ermanno mi scriveva, informandomi di un suo prossimo arrivo: «...Poi, a Milano, vorrei vedere se non posso interessare per te la Casa Sonzogno con cui ora ho rapporti stretti. Trovo, come vecchio arnese teatrale qual sono, spaventoso il fatto di andare in scena con un materiale d'orchestra unico e senza editore! Se, per tua disgrazia (e sarebbe la minore) hai un successo, come fai a far girare subito (come si deve) l'opera, se non hai materiale stampato né aiuti dall'editore? Dopo il successo, avresti un anno di attesa magari... il successo si raffredda, tutto si dimentica e bisogna ricominciare da capo...»
Tira e molla, con la Casa Ricordi finii poi col mettermi d'accordo. E così avvenne che quella stessa opera che quattro anni prima avrei dato gratis, perché fresco dei premio parmense, gliela cedetti, sí, con gioia; ma facendomi versare altre 20.000 lire, in parte come
«Premio», in parte come «à valoir».
Erano ben generosi, qualche volta, alcuni (pochi, pochissimi) di questi grandi Maestri della generazione che ci ha preceduto. Pochi, pochissimi, ma qualcuno, qualche volta, spuntava. Vi era, ancora, quasi un'aura romantica nel mondo degli artisti, che rendeva fecondi i contatti fra anziani e giovani, e improntati ad un umano calore (nel si come nel no) i rapporti fra illustri e sconosciuti, e attento l'orecchio alle nuove voci, e possibili gli impulsi spontanei del cuore, e pronta la mano del grande a guidare il nuovo arrivato dall'ombra alla luce.
Poi vennero i decenni dell'aridità di cuore come blasone di nobiltà, dello snob come figurino a cui uniformarsi (ma snob deriva proprio da sine nobilitate) del calcolo. del compasso, delle cliques e delle claques.
Si partì dal neo-classicismo e dall'oggettivismo per arrivare all'astrattismo. Si cadde, cosí, passin passetto, nel disumano e nel glaciale, anche nei rapporti fra artisti.
E il pubblico dei teatri, che fino a trent'anni or sono seguiva ancora con profondo interesse la nuova produzione del teatro lirico, si scocciò, e disse addio a tutti.
Oggi siamo a questi punti.
Ma, per ritornare a ieri e per chiudere il discorso, debbo dire che Toscanini mantenne anche piú che noti avesse promesso. L'Interludio del sogno lo diresse una dozzina di volte fra Italia e Nord-America in una stupenda esecuzione, incominciando da Milano, nella tournée italo-ameticana che fece con l'orchestra della Scala; quando, nell'autunno del 1920 e dopo Milano, andammo tutti a Fiume (vennero anche Sinigaglia e Montemezzi) per accogliere un invito che il Poeta aveva rivolto al «combattente che un giorno condusse il coro guerriero» e per tenere un memorabile concerto i n quel Teatro Comunale. Poi, dopo altri concerti in Italia - uno anche a Cremona, dove Gaetano Cesàri faceva gli onori di casa - l'orchestra e il suo Maestro partirono per l'America del Nord per il loro giro trionfale.
Nel marzo del 1922, patrocinata da Arturo Toscanini, La figlia del re andò in scena al Teatro Regio di Torino, stupendamente diretta da Tullio Serafin, magnifica protagonista Ester Mazzoleni, Svarga il baritono Tagliabue, Tahana Ezio Pinza, eccellentissimo: ed era al suo secondo o terzo teatro. Il giorno della prima ricevetti da Toscanini questo telegramma: «Maestro Lualdi - Teatro Regio - Torino - Inutile dirle con quanto affetto l'abbia seguita anche da lontano nella di lei trepidazione durante le prove della Figlia del re e quanto addolorato io sia non poter assistere stassera al suo immancabile successo. Sono qui inchiodato con le prove di Mefistofele: non dispero per le recite successive. Un augurio e un abbraccio affettuosamente fraterni. Arturo Toscanini».
Il successo fu grande: di pubblico e di stampa. Le recite furono quattro o cinque, e avvennero a teatro esaurito.
Ragione per cui, essendo lo stato colpito da quella che Wolf-Ferrari chiamava, nella lettera che ho citata, la «disgrazia minore» (il successo), e disponendo, com'egli desiderava, di un editore che avrebbe, certo, provveduto, a far girare subito l'opera, per non farlo raffreddare, per non farlo dimenticare, questo successo, e per non dover, poi, «ricominciare da capo», tutto andò secondo i piani prestabiliti e tanto io quanto la mia Damara avemmo fin da quel giorno vita e fortuna assicurate.
Io, infatti, per non mettere alla dieta lattea la mia cara moglie e i miei cari due figli che volevan crescere (Riccardo aveva 12 anni; Maner, 10) dovetti accettare il posto di critico musicale per i concerti che - per designazione e tramite Alceo Toni - Umberto Notari mi offriva, nel nuovissimo quotidiano L'Ambrosiano; e cosi il giorno di S. Ambrogio, 7 dicembre 1922 usciva, nel primo numero del giornale, il primo dei miei tremila articoli di cronache musicali spicciole. E, quanto a La figlia del re, tutto andò anche qui secondo i piani prestabiliti. Perché, lasciato raffreddare, e dimenticatissimo, il grande successo torinese del marzo 1922, bisognò davvero «ricominciare da capo». Sì che l'opera dovette aspettare appena sei o sette anni il suo secondo teatro, che fu il San Carlo di Napoli, nel 1928 o 1929; dove peraltro ritornò in cartellone in altre due stagioni, a pochi anni di distanza.
Già nell'estate del 1921 avevo mandato a Toscanini da Laurana d'Istria, dove facevo studiare all'amica Ester Mazzoleni la parte di Damara, il libretto de Il diavolo nel campanile che avevo scritto un paio di anni prima, ma non ancora incominciato a musicare. Lo avevo mandato, o lo avrei mandato piú tardi, non ricordo, anche a Wolf-Ferrari. L'impianto scenico e la condotta teatrale di questo Grottesco, nel quale sapevo di aver espresso la parte piú profonda di me, mi tenevano, allora, un po'... perplesso. Avanti di mettermi alla grossa fatica di musicarlo, desideravo avere a mio conforto (o a disincantamento) il parere di due esperti di eccezione. Furono appunto Toscanini e Wolf-Ferrari ad incitarmi a comporre la musica, a darmi il «Via».
Fra il 1923 e i primi mesi del '24 la musica fu composta, la partitura d'orchestra finita, il Grottesco pronto per le scene. Nell'estate dello stesso 1924 feci sentire l'opera ad Arturo Toscanini, che seduta stante la accettò, e la mise nel cartellone 1924-25 del Teatro alla Scala, dove fu rappresentata nel maggio del 1925.
Da quell'ormai lontanissimo 1925 il mio nome di operista non è mai piú comparso sul cartelloni della Scala; neppure una delle mie opere di minor mole è stata accolta su quelle scene: non Le furie di Arlecchino (ottanta teatri), non La Grancèola (cinquanta teatri), neppure Lumawig e la saetta, il balletto che nel 1936, vent'anni prima che diventasse «moda», portava i negri sulle scene del Teatro Reale dell'Opera di Roma, per una quindicina di sere consecutive.
- Neanche l'acclamata, la tanto autorevolmente patrocinata, La figlia del re?
- No. Neanche la... figlioccia di Toscanini. Ma questo è una specie di romanzo a fumetti colorati, che oscilla fra il color livido della cabala musicale meneghina e nazionale, e il giallo del piú stupefacente paradosso (una sortita di Toscanini con Wolf-Ferrari: se il Maestro ci pensa, certo se ne ricorderà). Questo, (considerati gli eccezionali successi di pubblico e di stampa che da trent'anni ormai questa tragedia continua ad ottenere ovunque sia rappresentata), è il caso veramente tipico e rappresentativo della politica distruttiva e negatrice seguita in questi anni, per ignoranza o per malvagità, da alcuni nostri Enti Lirici nei riguardi dell'esiguo patrimonio lirico contemporaneo valido e vitale; è il fenomeno che, nello stesso Teatro alla Scala viene definito «misterioso» e che, infatti, di non misterioso, cioè di percettibile, ha solo i colori che ho detto, o altri ancora (ma ancor meno odorosi) che variano fra il bruno-Cambronne del modo in cui l'Italia tratta i suoi artisti piú degni, il verdolino della nausea e il rosso sgargiante dell'opera buffa.
Un caso davvero singolare policromo divertente morale istruttivo.
Ma il gusto di raccontarlo me lo prenderò un'altra volta.