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ADRIANO LUALDI

DIARIO VII

IL MANTELLO DELLA MISERIA

TUTTI VIVI

Firenze, 21 maggio 1949 - Sono un poco intimidito di dover parlare oggi su questo tema; quasi mi pento di averlo scelto. E ho sentito trattare e maltrattatare nei giorni scorsi da eminenti congressisti italiani e stranieri: filosofi, grammatici, critici, esteti, storiografi la maggior parte; i compositori di musica - coloro cioè che all'atto pratico debbono concretare l'opera d'arte, sulla quale lavorerà poi l'esteta, il teorico, l'esegeta - in minoranza assoluta come numero; e questo mi pare, per il tema proposto, brutto segno. In questo esiguo numero, fra gli anziani, io solo finora.
Mi pare un brutto segno la quasi totale astensione dei compositori di musica dalla trattazione del tema «Soggettivismo e oggettivismo nell'espressione musicale» perché vedo già, in tale astensione, un segno dell'inconsistenza, della vanità, della pura verbalità del tema stesso; le quali i compositori di musica - quelli che hanno qualche cosa da dire, intendo - intuiscono, sentono distinto, anche se non indugino a dimostrarsele con lunghi ragionamenti e con lusso di citazioni che considererebbero tempo e fatica sprecati. Quei compositori di musica, poi, che non hanno nulla da dire, e che per tale precipua ragione adottano nei loro modi di esprimersi strane, ermetiche e orribili favelle, è ancor piú naturale che si tengano alla larga dalla trattazione del tema incriminato: perché esso è inconsistente, è vano (nonché vanitoso), è - sì - soltanto di parole; ma è anche sdrucciolevole; e di scivolo in scivolo per non approfondire potrebbe, con uno sdrucciolone, condurre a scoprire le batterie.
Dice: e allora perché lo hai scelto, questo tema?
Questo tema io l'ho scelto perché ero ben certo che sarebbe stato, nei confronti dei compositori di musica, la Cenerentola del Congresso: e, a me, le Cenerentole piace assisterle; e l'ho scelto perché le imprese e le situazioni rischiose mi sono sempre piaciute e mi piacciono ancora.
Oh, Dio: non c'è pericolo di vita; lo so. Ma uno come me, che parli con quella semplicità e chiarezza da cui, nelle musiche come nelle prose, non si sa distaccare; a voi abituati e allenati ormai alle alte, se pur nebulose quote della filosofia, dei filosofemi e dei sillogismi, e ai lunghi e complicati ragionamenti e talvolta sragionamenti a mortificazione di ogni logica e buonsenso... ; uno che vi parli come parlerò io, può anche sentirsi dare del maleducato, del signore non abbastanza serio e grave che non sa adeguarsi alle cir-
costanze, mancando del senso della opportunità.
Questo tema-cenerentola, però, un merito lo ha avuto, nei giorni scorsi, e bisogna riconoscerglielo. Ha avuto il grande merito di porre in chiarissima luce, attraverso tanti discorsi oscuri, quale e quanta sia la confusione delle idee in tante teste che, non si sa bene perché, insistono a volere occuparsi di musica e di musicisti non solo, ma che la fanno da alfieri della rivoluzione obbligatoria e a tappe forzate, e dell'arte astratta ed ermetica. Allora si spiega come, anche nella dolce terra del sì, nella bella Italia, vi sia da una quindicina di anni a questa parte e con ritmo accelerato nel dopoguerra, tanta fioritura di musiche antisociali e brutte, alle quali il pubblico continua a dir no. Questi zetatori, questi attivisti - quando distillano le loro musiche - si lasciano erudire e guidare da quei tali esteti e alchimisti dalle idee confuse, che si è detto, o tengono a compiacerli, perché la moda e il commercio voglion cosí; e i resultati non possono essere diversi da quelli che sono.
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Il motivo scusate, volevo dodecafonicamente dire «la serie» - «Soggettivismo e oggettivismo ecc.» è stato completamente liquidato dai congressisti che mi hanno preceduto: da quelli obiettivi e sereni, come Ronga, Parente e l'impagabile Mister Cecil Gray, e dai fanatici dell'altra sponda. Ciascuno di quelli e di questi ha portato testimonianze importanti, nessuna inedita peraltro, di illustri nomi del passato a sostegno della propria tesi di «inconsistenza», o di «equazione», che è antor peggio; e a suffragio e sepoltura del tema silurato.
Anch'io me ne sono procurata una, di testimonianze contro, prima di sapere che tanto largamente vi avrebbero provveduto i Relatori dei giorni scorsi. Anche la mia è di un nome molto illustre: ma è - di piú - fresca di oggi, e del tutto inedita.
Un passo indietro.
Alcuni di voi non sanno che dal dicembre dello scorso anno la piú che centenaria, nobilissima ma catalettica Accademia Musicale Cherubini si è rinnovata, ed ha assunto la nuova consistenza e il nuovo titolo di Accademia Nazionale Luigi Cherubini di Musica, Lettere ed Arti figurative.
In forza del nuovo Statuto, nel gennaio di quest'anno sono stati chiamati con voto unanime a far parte dell'Accademia alcuni dei piú grandi scrittori ed artisti di cui Firenze è ricca come nessun'altra città d'Italia. Altri nomi, ed altrettanto illustri, entreranno fra non molto nel sodalizio, che per il fatto di comprendere tutte le Arti e per l'qutorità dei suoi membri è unico in Italia, e deve essere considerato fra le piú importanti Accademie Nazionali del nostro Paese.
Fiorentino di nascita, di sede, e per la maggioranza dei suoi membri, di carattere eminentemente fiorentino è anche il programma ideale dell'Istituto.
Esso - pure riconoscendo la legittimità, anzi la necessità di lotta fra le piú varie e diverse tendenze di ogni Arte - vuole che da Firenze sia riproposto (come invocavo giusto un anno fa, nella mia relazione al V congresso dei musicisti in questa sala) il motivo,della restaurazione del concetto di Bellezza in Arte, e della lotta aperta contro tutte le depravazioni e le degenerazioni del gusto, contro l'estetismo del brutto, contro tutte le fazioni e tutte le sètte.
Che cosa è l'estetismo del brutto?
È l'ultima novità del dopoguerra; è uno dei portati del clima spirituale che si è formato. Ce lo spiega uno che non è certo un parruccone: Alberto Savinio: «I tipi dell'estetismo, egli scrive, sono vari. Dicendo 'Estetismo» si pensa di solito all'estetismo di tipo Dannunziano, ossia ad una superficie di bellezza cristallizzata (un «candito » di bellezza), molto in uso nel tempo (D'Annunzio) in cui il Bello aveva ancora valore (e un potere) assoluto. Ma di poi il Bello ha perduto il suo valore assoluto, e oggi, a comporre una superficie estetica ossia una superfici, che ferma lo sguardo e vieta di scoprire il vacuo e il volgare che stanno sotto, possono servire, secondo i casi, le varie forme di Arte in uso: deformazione della forma, astrattismo, o quel che genericamente si può chiamare il Brutto. Anche il Brutto e materia di estetismo, e presso molti il Brutto ha acquistato un valore assoluto, sostituendosi al Bello assoluto di una volta.»
Ritornando alla testimonianza, quella che ora ti porto è del piú illustre dei nostri nuovi Accademici: è di Giovanni Papini.
Al tema che gli ho proposto: «Soggettivismo ed oggettivismo nella espressione musicale», egli risponde schematicamente (come si legge nei cinque autografi riprodotti alle pagine 244-248 di questo libro).
Giovanni Papini è anche lui non pover uomo che ha il brutto tizio di parlare e scrivere in modo a tutti accessibile; e allora i sei punti del suo discorso non hanno bisogno di commento o di chiarimento alcuno. Merita Però di essere sottolineata l'esattezza della sua osservazione al 4º Punto; che (sempre con relatività s'intende) nella musica da camera e sinfonica predomina il soggettivismo, mentre nell'operistica, l'oggettitismo. Quando Verdi intona «Quand'ero paggio del duca di Norfolk», si mette talmente nei panni, nella pancia, nella testa bislacca del suo personaggio, che non è piú Verdi, è Falstafi. Egli è, nel limite del relativo, e con le modeste possibilità del genio, oggettivo.
(Allora, dirò fra parentesi, qui cade a proposito, a contrasto con l'allegrezza e la levità di Falstaff e con riferimento a quanto prevedevo nel mio Rinnovamento musicale italiano del 1932, una malinconica constatazione. Io credo che la diflicile vita, non voglio dire il fallimento, della nostra generazione di operisti sia dovuta al fatto oggi piú che mai documentabile, che troppi di noi non hanno saputo o non hanno voluto essere né poco né molto oggettivi nella loro musica di teatro: non hanno dato un'atmosfera caratteristica e (nei limiti del possibile) diversa alle loro diverse opere, non hanno abbastanza rinunciato al nativo proprio accento, a propri intercalari, e rime e cifre, a favore dei propri personaggi, per dare ad essi individualmenle, un carattere, un accento, una cifra, personali e sempre diversi uno dall'altro). Chiusa la parentesi, ma il quesito è posto.
Verdi fu dunque nei suoi melodrammi - e certo per istinto, non già per ragionamento o programma - oggettivo. Allora non è vero che l'oggettivismo porti inevitabilmente alla decadenza e alla rovina. Eppure, i giorni scorsi esso è stato denunciato, da molti relatori, come la causa prima di tutti i mali di oggi: e il Voltaire di turno, cioè il grande colpevole e il capro espiatorio, l'abbiamo sentito identificare - specie da alcuni portavoce dell'estrema sinistra - in Igor Strawinski.
Tali accusatori trascuravano però una circostanza molto importante, che si ritorce contro la loro parte e contro la loro tesi. La circostanza è che lo Strawinski cominciò a parlare di oggettivismo e a predicarlo, non piú di una ventina di anni or sono, quando cioè il suo genio aveva già dato all'arte le sue opere maggiori e definitive, dall'Uccello di Fuoco a Edipo Re; e - perduto il mordente - incominciava a trovarsi a corto di idee. Ecco dunque un'altra prova, se occorresse, che non è questione di «soggetto» e di «oggetto»; ma che tutti indistintamente gli «ismi» come sono intesi nei nostri giorni con spirito settario e assolutista, sono ilrifugio del peccato, il sinonimo della povertà, il mantello della miseria.
Ho nominato lo spirito settario e assolutista - e dovrei aggiungere dittatoriale - che è il triste privilegio e l'umiliante marchio del momento artistico di questo dopoguerra, e che si rispecchia nell'intolleranza e nell'esclusivismo fanatico degli estremisti. Ma debbo aggiungere che se lo stile di costoro danneggia e isterilisce l'arte, conducendola all'isolamento, e se costituisce un grave attentato alla sua libertà e al suo spontaneo evolversi, danno e violenza ben maggiori sono inferti all'arte da coloro che - dissentendo da quelli e potendo e dovendo farlo - non si oppongono, non accettano battaglia, ma assistono invece passivamente, quando non collaborano per interessi personali, allo scempio.
Vi sono giornalisti, critici, studiosi anche di bell'equilibrio in quanto a gusto, e di non ottusa sensibilità, che quando parlano o scrivono della musica contemporanea ne considerano soltanto i due poli opposti: della estrema sgradevolezza e antisocialità, e della piú sbracata, saccarinacea, nauseante banalità: e concludono, come è logico: «Siamo a terra, la musica è morta».
Vi sono grandi Enti musicali, sovvenzionati dallo Stato, vi sono grandi Enti lirici, anche questi largamente sovvenzionati con denaro pubblico che - non si sa se per distrazione o per ignoranza, o per preconcetto disfattismo, o perché súccubi delle manovre oscure di qualche quinta colonna - seguono in sostanza la medesima politica nefasta e partigiana e presentano ai loro pubblici quadri grandemente lacunosi, quando non siano tendenziosi, della nostra produzione contemporanca; anche qui: o la infernale paprica, o la ripugnante gialappa. Quelli che pescano nel torbido e che magati hanno fatto da suggeritori, pensano intanto: la gente, piuttosto di sentirsi rivoltare lo stomaco con il troppo dolce e pacifico, può anche darsi che preferisca la paprica; fa piú chic, e c'è, se non altro, l'ernozione del bruciore e delle bolle sulla lingua.
Ma fra la paprica e la gialappa v'è tutta una scala di cose saporose e sane e nutrienti, che sono poi quelle che tengono in vita l'umanità intera; cosí come - per uscir di metafora - in arte, fra l'estremo del brutto e dell'antisociale e dell'aggressivo, e l'altro estremo dell'oleografia o dell'opera verista in ritardo, v'è tutta una scala di compositori di musica e di opere sane e ricche di ingegno e di spiriti vitali, che sono poi quelle che tengono in piedi l'arte e la fanno camminare per le sue giuste e fatidiche vie, e la difendono dagli assalti dell'estrema destra e dell'estrema sinistra e ne attestano l'esistenza e il non disprezzabile vigore.
Nella produzione contemporanea italiana dovuta a compositori delle generazioni dal 1876 in poi, vi sono una quindicina di opere di teatro, una ventina di' opere sinfoniche, una quarantina di opere di musica da camera che dovrebbero essere sempre presenti nei programmi dei nostri grandi Enti sovvenzionati di Teatro e di Concerto, a rappresentare le svariatissime tendenze e le correnti mediane - le piú sane, le più serie, le sole vitali - della nostra musica; quelle che, cessato che sia il ciclone che sconvolge il nostro mondo artistico, morale e spirituale - resteranno a testimoniare la continuità e l'italiana coerenza evolutiva della nostra musica, che oggi - a causa del quadro disonestamente mutilo che se ne offre sembrano spezzate e rinnegate.
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Anche qui - per chiudere - possiamo ritornare al tema iniziale.
Un po' - un po' molto meno - di soggettivismo da parte degli alfieri e delle fazioni di punta, e la rinuncia, se possibile, allo spirito di intolleranza e di esclusività; e un po' piú onesto rispetto per ciò che fanno gli altri: questo non nuocerebbe.
E molto più oggettivismo e una maggiore e più scrupolosa cura dei superiori interessi generali dell'arte da parte dei critici. degli studiosi, dei giornalisti che ho nominati e soprattutto da parte dei gestori dei grandi Enti lirici e concertistici sovvenzionati dallo Stato; e un piú attento autocontrollo e minore quietisino e maggior peso alle ragioni dell'arte; e piú viva resistenza alle spurie influenze extra-artistiche: questo, ne sono sicuro, gioverebbe molto.
[1] È il discorso pronunciato nella sala della Leonardo da Vinci, Firenze, in occasione del VI Congresso internazionale di musica, il 21 maggio 1949.