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ADRIANO LUALDI

DIARIO VIII

RICORDO DI LUIGI MANCINELLI

TUTTI VIVI

Firenze, febbraio 1948. - Lontano ricordo, il mio primo incontro spirituale con Luigi Mancinelli. Incontro a distanza, come quelli che avvengono a una sessantina di metri fra uno spettatore del loggione e il direttore d'orchestra seduto sul suo scanno a livello della platea e tutta la massa degli orchestrali in vista del pubblico, perché allora non usava né la voragine del golfo mistico, né il parapetto-schermo intorno alla fossa dei leoni.
Erano i primissimi del '900 e io, ragazzo, a Roma da pochi anni, venuto a Roma da Patti in Sicilia - dove mio padre era stato per tre anni Sottoprefetto e adesso lo avevano chiamato al Ministero, e dove si era svegliata in me la passione per l'arte - aspiravo ardentemente alla Musica, ma non mi ci ero ancora compromesso perché il papà non voleva e bisogna prima finire il liceo classico, poi si vedrà. Ma la cerchia delle mie amicizie era tutta musicale, e Musica era già mia croce e delizia, e giorni «belli» della settimana la domenica, per i pomeriggi a casa di Ersilia Tosi Giglioli, dove si cantavano non soltanto le Rornanze di Tosti e di Rotoli e di Denza, ma anche i Duetti di Mendelssohn e le Liriche di Brahms e i Lieder di Schamann; e il venerdí, per quelli in casa di Alberto Parisotti dove spesso conveniva il fratello Alfredo, e ci mandava in visibilio con le Arie antiche da lui raccolte e pubblicate, che in quegli anni costituivano una novità; e sere bellissime erano quelle che potevo passare al Teatro Costanzi (ma erano un po' rare), a sentir l'opera in loggione, si sa.
E ricordo che la prima volta che vi andai si rappresentava L'amico Fritz, e cantavano Amelia Karola e Fernando De Lucia, e dirigeva l'autore; e quando arrivai trafelato al mio posto di piccionaia, e vidi quel grandioso teatro, e poi quegli artisti famosi sulla scena, e quel compositore celebre sul podio, con tutti quei capelli, con tutti quei gesti pittoreschi e perentori che affascinavano l'orchestra (e anche il pubblico) e che tiravan fuori dai tromboni certi squilli da Apocalisse, mi vennero le vertigini, e quasi andavo a finir di sotto, in platea, al solo confuso embrionale pensiero di potere, un giorno, essere anche io su quel podio, con tanti bravi artisti sulla scena, a dirigervi un'opera mia.
Fra le persone importanti che incontravo a casa Giglioli, l'autorità maggiore era Zaira Cortini Falchi, grandissima maestra di canto, moglie del direttore del Liceo Musicale di Santa Cecilia, Stanislao, che ebbi poi maestro di Contrappunto e Fuga in quel Liceo. La chiamavano, la signora, Zairo per il volto l'aspetto lo stile energici e un po' mascolini; ed era buonissima, oltre che bravissima donna.
Conosceva le mie aspirazioni, le incoraggiava; e fu essa a dirmi un giorno: - Il maestro Mancinelli, lo hai visto dirigere qualche volta? Quello è un direttore! Domani dà Tristano e Isotta.
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Roma e i romani, anche quelli di recente importazione, come me, facevano allora il tifo, quanto a bacchette, per Lorenzo Mascheroni e per Pietro Mascagni.
Luigi Mancinelli era celebre, tutti lo conoscevano e ne parlavano, ma lavorava molto all'estero e non lo si vedeva da qualche tempo sui podi cittadini. La ripresa del Tristano e Isotta con la sua «concertazione e direzione» e con protagonisti - se non mi inganna la memoria - Amelia Pinto (allieva della Zaira Cortini Falchi) e il tenore Giraud, era un grande avvenimento. Dell'opera, io sapevo soltanto che era di Wagner, estremamente complicata ed astrusa e, sentivo dire intorno, di difficilissima comprensione. Per capirne «qualche cosa», bisognava sentirla almeno tre volte.
Allora il giovanetto che per quattro ore aveva aspettato che si aprisse il teatro, e poi era arrivato ansimante a conquistarsi, primo fra i primi, un bellissimo posto di balconata prima fila, proprio nel centro del loggione, e che adesso sfogliava, ripassandoselo, il libretto, era non soltanto impaziente, ma anche un po' in ansia, e perplesso. Il Wagner del preludio dei Maestri Cantori, del Mormorio della foresta, della Marcia funebre di Sigfrido, che erano i pezzi intorno ai quali si accendevano le battaglie di fischi e di applausi a Piazza Colonna - quando Vessella il pioniere e il traduttore ad usum delphini li dirigeva con la famosa sua banda, e il pennacchio bianco della feluca da ammiraglio segnava sempre il controtempo esattissimo rispetto al braccio - quelli erano facili, tutto bene, tutto chiaro, entusiasmante, magnifico. Ma la musica di questo Tristano e Isotta, che tanti definivano incomprensibile e pesante come un macigno? E se, del rebus che stava per essermi proposto, non avessi capito nulla?
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Ma Zaira Cortini Falchi era rimasta, pur nella sua ammirazione, sotto il vero affermando: «Quello è un direttore!» Essa, che lo conosceva da molti anni ormai, perché nel 1884 era stata a Bologna fra gli interpreti minori della prima opera del Mancinelli, Isora di Provenza, avrebbe potuto dir meglio: «è un rivelatore, è un iniziatore».
Nato ad Orvieto nel 1848, figlio di un musicista, Luigi Mancinelli si era affermato giovanissimo, racconterà piú tardi un suo discepolo che (guarda caso) gli rimase affezionato e fedele anche quando non aveva piú bisogno di lui: Giacomo Orefice [1].
Aveva imparato da solo a suonare il pianoforte, a 14 anni era scappato di casa dalla nativa Orvieto e si era recato a Firenze e, dopo alcune lezioni di violoncello, riuscito ad entrare nell'orchestra della Pergola, si era con bene ingegnato da trovare, nel 1874, una scrittura per il Teatro Morlacchi di Perugia, nella triplice qualità di primo violoncello, maestro al piano, e sostituto del direttore d'orchestra, il celebre Emilio Usiglio.
Una sera l'Usiglio prende la piú fruttifera e fatale delle sue sbornie, lo trovano sotto il letto della sua camera d'albergo, russa e rutta clamorosamente. - Maestro, animo, fra un'ora deve dirigere l'Aida - «Ma che Aida - risponde - io sono Radames morto; lasciatemi nel mio sotterraneo». - Come doveva avvenire una dozzina di anni piú tardi al Toscanini in Rio de Janeiro, Luigi Mancinelli è, di punto in bianco, incaricato di «salvare» la recita, assumendosi la direzione dello spettacolo, e per la prima volta in vita sua impugna la bacchetta. A questa recita di Aida assistono Giulio Ricordi, l'editore onnipotente, e l'impresario del Teatro Apollo di Roma, che proprio a Perugia, e in quel giorno, si erano dati convegno per fissare una ripresa romana del recentissimo melodramma verdiano.
Lo spettacolo del Morlacchi procede in modo eccellente, Giulio Ricordi riconosce nel giovanissimo Mancinelli una nuova autentica forza dell'arte: lo «impone» all'Apollo di Roma; in questo teatro Mancinelli ha occasione di dirigere nella stagione invernale, Guglielmo Tell e Ugonotti con Niccolini e la Stolz. La sua fortuna di direttore è fatta; la sua fama, in breve giro di anni, solidamente stabilita; nel 1886, dopo essere rimasto per sei anni all'Apollo di Roma, e per altri cinque al Comunale di Bologna, esce per la prima volta dai confini della patria ed è scritturato al Teatro Reale di Madrid, dove rimane fino al 1893; fra il 1887 e il 1915 dirige, al Covent Garden di Londra, diciannove stagioni di primavera; fra il 1893 e il 1901 è, per la stagione d'inverno, al Metropolitan di New York; fra il 1907 e il 1911, è al Colon di Buenos Aires. Del Metropolitan e del Colon, è Luigi Mancinelli a dirigere la stagione e la recita inaugurale.
Vita trionfale dunque. Ma l'attività e le ambizioni del Maestro non rimanevano circoscritte nell'ambito della direzione d'orchestra; anche la composizione lo appassionava, e ad essa Mancinelli consacrava tutto il tempo che gli rimaneva libero da impegni contrattuali, sì che il catalogo delle sue opere sinfoniche, corali e di teatro raggiunge i venticinque numeri; e fra questi sono da ricordare gli Intermezzi per la Cleopatra di Pietro Cossa e le Scene veneziane che qualche volta vengono eseguite ancor oggi (Fuga degli amanti a Chioggia); la Cantata sacra Isaia, che forse è la sua cosa migliore; i melodrammi Isora di Provenza, Paolo e Francesca, Ero e Leandro, su libretto, questo, di Arrigo Boito.
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Fra tutte, questa Ero e Leandro, è l'opera alla quale arrise maggior fortuna e che ebbe maggior numero di esecuzioni. Composta nel 1895, di essa Arrigo Boito scrivieva al Mancinelli come si legge nella lettera della quale si riproduce l'autografo alle pagine 286-289 di questo libro. Per difendere l'opera sua dall'accusa di wagnerismo cui era stata fatta oggetto, e per rivendicarle l'appartenenza alla più schietta tradizione italiana e verdiana, Luigi Mancinelli stesso dettava una pagina che è interessantissimo riesumare e ricordare oggi, anche perché, nelle sue quaranta righe, comprende, si può dire, tutta t'essenza del pensiero artistico del Maestro:
«Qua e là, scrive il Mancinelli nel 1898, un critico in Italia o in Spagna ha dichiarato che Ero e Leandro ha una forma wagneriana: altri, e in maggior numero, l'hanno giudicata eminentemente personale e di moderna scuola italiana. In fatto, nel comporla io decisi di seguire le tracce segnate da Verdi, specialmente nelle sue due ultime opere, Otello e Falstaff: e sono convinto che i miei compaesani gioveranno al progresso dell'arte nazionale seguendo questa via. Verdi è un vero capo e fondatore di nuova scuola. Non esiste esempio di altro compositore che abbia attraversato una evoluzione così completa quale quella del grande Maestro che cominciò con Oberto conte di San Bonifacio, per giungere a Falstaff..., e aspettiamo altro ancora!
Wagner, nel mio concetto, non è il fondatore di una scuola, ma un genio isolato che non è dato seguire, o imitare, senza grave danno. A quei pochi che hanno dichiarato avere Ero e Leandro una forma wagneriana, cercherò di dimostrare che s'ingannano. Per forma wagneriana intendo naturalmente quella tracciata da Wagner nelle sue ultime opere. Maestri Cantori, Tristano e Isotta, Nibelungi, Parsifal... Maestri Cantori, Nibelungi e Parsifal rappresentano la vera forma operistica inventata da Wagner e che, a mio avviso, non dovrebbe essere imitata. Quali punti di somiglianza possono riscontrarsi fra queste opere ed Ero e Leandro? Nell'ultima forma del sistema wagneriano i pezzi separati, arie duetti ecc. sono esclusi e la parte inventiva, ossia la melodia, è sempre affidata all'orchestra, mentre le voci eseguiscono in massima parte una specie di melopea o recitativo, in forma di dialogo e praticamente indipendente. Piú tardi, nei Nibelungi, Wagner ha quasi escluso la combinazione delle voci.
D'altra parte, seguendo l'esempio tracciato da Verdi, io ho sempre affidato alle voci la interpretazione della melodia, studiandomi di appoggiarla ed arricchirla con tutte le risorse dello strumentale moderno; e malgrado la continuità e unità della musica, dal principio alla fine di ogni atto la mia opera può essere facilmente divisa in separati brani, arie, duetti, concertati, corali ecc. Questo dovrebbe provare come, per ciò che ha riguardo al sistema, Ero e Leandro appartiene alla ultima forma verdiana.
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Questa pagina cosí chiara, equilibrata e fervida insieme, dà la misura del temperamento di Luigi Mancinelli. Di lui Berlioz non avrebbe potuto dire, come
aveva detto di un altro musicista famoso: «Sa tutto, ma manca di inesperienza», perché in ogni sua attività musicale, fosse di direttore o di compositore o, come in questo caso, di autocritica, sempre entravano l'imponderabile e l'imprevedibile portati dall'animo fondamentalmente ingenuo di puer aeternus, proprio di ogni artista, e il giuoco dell'istinto, della impulsività e delle súbite accensioni.
Tali caratteri dovevano riflettersi, inevitabilmente, nelle interpretazioni del direttore d'orchestra. Io, quando lo ascoltai la prima volta in quella lontana prima del Tristano e Isotta ero troppo giovane e inesperto per poter giudicare, e poche altre volte assistetti, piú tardi, ad esecuzioni dirette da lui per poter oggi scriver con sicurezza della sua arte. Ma se raccolgo le memorie sparse che, a proposito delle interpretazioni del Mancinelli, mi richiamano meglio l'immagine di grandi affreschi che non di miniature, dò piena fede a quello che dice Giacomo Orefice rifacendosi al detto di Berlioz:
Giudizio profondo nel suo aspetto paradossale; perché soltanto l'inesperienza può dare alla creazione quel sapore di verginità, di istintività, di non voluto, che ci avvince e soggioga, piú di ogni calcolo perfettamente riuscito. Ora, qualche cosa di simile si verifica anche in tutte le forme di interpretazione. Vi è una profonda diversità di interesse emotivo, tra quello che l'interprete rende come risultato dello studio il piú coscienzioso e delle ricerche piú intelligenti, e quello che risulta invece dalla sua emozione estemporanea. Ed ascoltando esecuzioni orchestrali di direttori celebrati, a me accadde spesso di pensare che erano troppo perfette; che la certezza di questa perfezione era troppo diffusa tra gli esecutori, sicché mancava loro quel pathos di sospensione e di attesa, che li obbligasse a dipendere dal pathos del direttore, e a confondersi con lui nella mutevole e imprevedibile suggestione del momento. A invece su questo pathos che ha sempre contato Luigi Mancinelli, e da esso si sprigionò il fascino delle sue interpretazioni.
Di tale fascino, e del pittoresco e del vivo e vibrante che caratterizzavano le esecuzioni del Mancinelli, molte testimonianze ci sono rimaste; ma fra tutte merita di esserne ricordata una, di alta autorità, dovuta ad un altro grande direttore d'orchestra e uomo di cultura, Felix Weingartner che, dopo aver assistito a Londra ad una rappresentazione de I Maestri Cantori diretta nel 1898 da Mancinelli, scriveva, in un suo articolo pubblicato dall'Allgemeine Musik Zeitung, di essere rimasto meravigliato che «un'opera cosi tedesca come I Maestri Cantori cantata in italiano, avesse potuto commuoverlo cosi profondamente. Il Mancinelli», continua il Weingartner, «diresse con si forte temperamento ed energia; con così esatta concezione dello stile e della dinamica istrumentale, da augurarsi che molti direttori tedeschi prendessero lezioni da lui.»
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L'intelligente e assiduo controllo di qualità tanto ricche e diverse, che non toglievano freschezza né spontaneità allo stile del gesto e della azione, era alla base dell'arte direttoriale di Mancinelli. È alla inesausta freschezza della sua sensibilità, all'insaziato bisogno di chiarezza, alla istintiva e sempre rinnovantesi capacità di abbandono e di ardore che l'intero uditorio del Teatro Costanzi dovette in quella memorabile prima di Tristano e Isotta, se il monumentale dramma wagneriano apparve dalla sua prima all'ultima nota chiaro come acqua limpida, e commovente e suggestivo come l'alto poema d'amore di cui è la sublimazione musicale. Tutto, in quella edizione del Tristano, era fermento ed esuberanza e ardenza interiore; tutto era ricchezza e gagliardia di espressioni e di colore; tutto il giuoco delle polifonie e il risalto dei motivi conduttori era esposto con tanta pienezza di carattere e con cosi prepotente evidenza, che solo un sordo avrebbe potuto «non capire»; e anche il meno iniziato e il piú impreparato degli ascoltatori, come il giovanetto che si schiacciava il petto contro la balaustra del loggione, doveva commuoversi ed esaltarsi di entusiasmo.
Il tema del destino, nel primo atto!
Da quella volta, da quella, per me prima audizione e rivelazione di Tristano e Isotta, io non ho mai piú sentito rendere la forchetta di crescendo degli ottoni con tanta potenza, con così imperativa volontà, con sì tragico senso del Fato.
Ma come, nell'attimo stesso della impressione folgorante, intuivo che tale potenza di effetto era dovuta alla vittoria dello spirito e della volontà dell'artista, del Mancinelli, che aveva saputo scuotere e innalzare fino al Verbo geniale dell'Autore e fino al proprio sogno di interprete l'indifferenza e la pigrizia professionali di alcuni esecutori d'orchestra trascendere la lettera, raggiungere lo spirito - così accadde che, precisamente da quella lontanissima sera romana in cui fui tanto profondamente scosso dalla perentoria conclusione del tema del destino, io non credo piú né al Destino, né al Fato, né alla Fatalità.
Della vanità di queste parole tutta la vita laboriosa e ardente di Luigi Mancinelli - come di tanti altri eroici artisti la cui biografia è tutta un atto di volontà prima ancora che di ingegno o di genio - è la riprova. Romain Rolland troverà, nel 1917, la parola giusta: «La fatalité, c'est ce que nous voulons».
[1] Adesso che la fedeltà la gratitudine l'affetto per il Maestro è - altro sintomo del clima morale di questi anni - giú di moda anche nel campo dell'arte (fenomeno, rispetto alla onesta tradizione secolare, oltre che nuovo, mostruoso), e si nòverano casi da dar la nausea, mi piace riprodurre testualmente la pagina che Giacomo Orefice scriveva nel 1921, ad introduzione della biografia critica da lui dedicata al suo Maestro e pubblicata dalla Casa Editrice Ausonia di Roma, nello stesso anno:
A Luigi Mancinelli io devo più che lo scolaro al Maestro. Oltre che i frutti di un insegnamento fatto di genialità e di esperienza, gli devo la coscienza delle mie forze, quali fin d'allora si fossero: l'incitamento all'ardua ascesa verso una meta, che, mentre ci illudiamo di raggiungerla, sempre piú si allontana; il dono di un'amicizia che, attraverso gli anni e le vicende, non venne mai meno. È possibile che qualche cosa di ciò si senta in queste pagine. Mi dorrebbe anzi che non si sentisse. Non per questo credo che esse siano riuscite meno sincere. Ché, pur lasciando al tempo di correggere il mio giudizio, là dove esso risultasse incerto o fallace, ogni rinunzia ad esprimerlo mi sarebbe parsa non rispettosa dell'artista stesso che ho inteso di onorare, e della sua opera nobilissima.