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Direttori
Giuseppe Bottai
Giorgio Vecchietti

Anno primo: 1940
Mese primo: marzo
Anno ultimo: 1943
Mese ultimo: agosto
Periodicità: varia
N. fascicoli: 82
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La rivista Primato (sottotitolo Lettere e arti d'Italia) inizia le pubblicazioni il 1 marzo 1940, con la direzione congiunta di Giuseppe Bottai e Giorgio Vecchietti, capo della redazione è Giorgio Cabella.
La direzione e la redazione hanno sede in piazza Adriana 5 a Roma Il periodico è stampato dalla società Anonima Periodici Italiani della Mondadori con una tiratura intorno alle diecimila copie.
Il formato è di cm. 36,5 X 24,5; i fascicoli constano di un numero di pagine oscillante tra le 24 e le 32. La rivista viene pubblicata con periodicità quindicinale fino all'agosto 1943; fanno eccezione i numeri doppi 9-10 del 15 maggio 1943 ed il n. 15-16 dell' 1-15 agosto 1943, a. IV.
Con quest'ultimo numero Primato termina le pubblicazioni essendo già avvenuta, con il 25 luglio di quell'anno, la crisi del fascismo.
Nell'ultimo numero non compare più l'indicazione dei due direttori ma figura solo, nella quarta di copertina, Vecchietti come direttore responsabile.




RITRATTO DI G. BOTTAI


ARTE E REGIME

TESTO INTEGRALE

Due articoli apparsi in questi giorni in due quotidiani romani: «Il bosco sacro» (Tevere), «Problema organico di Regime » (Tribuna), prendono lo spunto dalla voce corsa, ma fino ad oggi non confermata ufficialmente, delle dimissioni di Arduino Colasanti da Direttore Generale delle Antichità e Belle Arti, per discutere e del probabile successore, e delle condizioni nelle quali si trovano attualmente le Belle Arti in Italia.
Questi argomenti interessano non soltanto Roma, interessano anche Milano. Discutiamone noi pure.
Scrive il Tevere che, per metter fine all'attuale stato di disordine e di abbandono non c'è che una via di uscita: 1º Lasciare alla Minerva una Direzione generale delle Antichità, Musei e Gallerie del Regno, la quale avrebbe la funzione di curare i lavori di scavo, di ripristino e di restauro d'ogni monumento dall'età classica sino al termine del Settecento; 2º Creare ex novo, presso il Ministero dell'Interno o degli Esteri (a meglio ribadire l'importanza squisitamente politica dell'arte nella vita del regime e di fronte agli stranieri) uno speciale organo, non burocratico, per l'arte moderna e contemporanea, organo diretto da un vero e proprio dittatore, con poteri assoluti, o, almeno, da un ristrettissimo gruppo di competenti.
A tale organo dovrebbe essere riservata la piena, intera responsabilità di tutte le manifestazioni artistiche e musicali d'oggi, nel più lato senso dell'espressione. Quanto alle funzioni e ai compiti dei Sindacati il Tevere riconosce, bensì, che questi rappresentano una garanzia sufficiente se non altro contro il tante volte lamentato infiltramento dei «politici» nelle faccende dell'arte; ma non crede che essi possano efficacemente dirigere e scernere criticamente le varie tendenze dell'arte contemporanea, dato che la loro funzione è quella di tutelare imparzialmente gli interessi professionali degli artisti sindacati.
Risponde, ne La Tribuna, Roberto Forges Davanzati, che - pur consentendo nell'opportunità di distinguere tra i due còmpiti attualmente affidati alla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti (platonicamente affidati, posta l'impossibilità di assolverli, per difetto di mezzi): il còmpito di tutela e di avvaloramento, cioè, del patrimonio artistico; e la funzione regolatrice dell'arte contemporanea - si oppone, però, a che questa distinzione porti «ad una separazione tale da lasciare la tutela patrimoniale (Antichità, Musei, Gallerie e Sovraintendenze) alla Minerva, e passare l'organo non burocratico per l'arte contemporanea agli Interni o agli Esteri».
Se uno dei malanni della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti, dice il Forges Davanzati, è stato proprio questo essere considerata, nel vecchio Regime e anche in Regime Fascista una istituzione marginale della Minerva, e un fastidio improvviso e ricorrente per Ministri i quali, provveduti di altre virtù e capacità, hanno considerato sempre le questioni d'arte, del passato e più del presente, come problemi estranei ed ingombranti; questo malanno sarebbe niente altro che duplicato, passando l'arte contemporanea agli Interni o agli Esteri i quali, come Ministeri sono organicamente estranei a questo còmpito suscitatore di stili.
Quanto ai Sindacati e loro funzioni, il Forges Davanzati afferma che non solo la loro azione non dev'essere contenuta; ma che essi debbono essere emancipati dallo stato di minorità in cui oggi si trovano, e posti nella condizione di agire, ciò che oggi non è. «Una delle colpe della Direzione di Antichità e Belle Arti è stata proprio di non aver inteso la funzione dei Sindacati artistici. E infine non si può ammettere che, anche e soprattutto quando ci sia da amministrare danaro pubblico, o da decidere per l'insegnamento artistico, o da proteggere e tutelare, si vedano investiti di autorità alcuni valentuomini, dilettanti indispensabili, dal Consiglio Superiore di Belle Arti fino ai posti di controllo e di comando in istituzioni particolari di esposizioni o di teatro, proprio nel momento in cui si opera, come si è operato, per tener distanti i rappresentanti dei Sindacati».
Pronti a riconoscere che il Tevere mostra, nel formulare le sue proposte, non meno dell'altro foglio romano, una viva sollecitudine per il bene delle arti e per il loro migliore assetto, dobbiamo subito dichiarare che è con le idee espresse dalla Tribuna che noi siamo, se non in tutto in gran parte, consenzienti.
E, per non ripetere o parafrasare le cose dette dal Forges Davanzati, e per incominciare dal primo punto della discussione, la asserita crisi nella Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti, osserveremo soltanto che, comunque essa si risolva - in modo conservativo, col mantenimento cioè dell'attuale organismo burocratico e relativi suoi còmpiti; o in modo rivoluzionario, scindendo tali còmpiti e creando nuovi organismi - è necessario che non si cada in errori dei quali par già di avvertire negli scritti che compaiono e nelle voci che corrono - qualche pericolo, e che non farebbero che rendere anche più precaria la condizione delle arti e, degli artisti italiani, che sono già, più che disagiate, durissime.
Se dunque la crisi di Palazzo Venezia sarà risolta in senso conservativo, è da augurarsi che l'uomo chiamato a succedere ad Arduino Colasanti non sia nè un archeologo, nè un eritico, nè un artista, come vorrebbero alcune notizie raccolte dai giornali romani. Fino a che la Direzione Generale in questione avrà tanti e così diversi còmnpiti, riguardanti l'antico come il moderno, le Esposizioni come le Accademie ei Conservatori, la pittura come la scultura come la musica, non è possibile e non è giusto che alla sua più alta carica sia chiamato uno «specialista». Se sarà archeologo, non avrà occhi e mente che per gli scavi; se critico, avrà il suo «sistema» e i suoi autori preferiti da far trionfare, senza coniare che le arti di cui il detto critico non si interessa, saranno trascurate anche più di ora; se sarà un pittore, uno scultore, un musicista, ancòra ci troveremo dinanzi ad incomprensioni e a squilibri dei più gravi.
Di più, siccome la Direzione Generale delle Belle Arti è attualmente paralizzata dalla assoluta indigenza in cui si trova, al mutameuto d'uomini nel senso accennato non potrà corrispondere nessun mutamento e nessun ravvivamento di politica artistica: perchè senza fondi non si può far nulla: neanche della partigianeria, neanche del clientismo. Se le cose debbono, in quanto organismo, rimanere, a Palazzo Venezia, come sono, il migliore partito sarà di nominare al posto di Direttore Generale un funzionario che conosca uomini e cose, che sia vissuto in mezzo ad artisti, ne sappia gli spiriti e i bisogni, che abbia già dimestichezza con i meccanismi delle Esposizioni e delle Accademie, e che sia già allenato alla improba fatica di celebrar nozze e nozze con fichi sempre più secchi e sempre più pochi. Quest'uomo, lo dice anche il Tevere, a Palazzo Venezia c'è.
Se invece la soluzione della crisi ha da essere rivoluzionaria, e produrre una scissione di còmpiti e creare un nuovo organismo, rivoluzionaria sia, in senso anche più completo di quello prospettato dal Tevere e perfezionato dalla Tribuna, che propone un Commissario o un Sottosegretario. E si crei addirittura un Ministero per le Antichità e Belle Arti, che non sarà certo di troppo in Italia, con due sottosegretariati, per l'arte antica e per l'arte contemporanea, le quali non possono essere seriamente assistite e tutelate e indirizzate da una stessa mente, dati i loro fini diametralmente opposti: l'uno, studio, ricupero, conservazione, chiarificazione del passato; l'altro, studio, chiarificazione, indirizzo, conquista del presente e dell'avvenire; l'uno, gelosa tutela e severissima vigilanza perchè il patrimonio nostro d'arte antica rimanga entro i confini; l'altro, energica e vivace e coraggiosa azione perchè il patrimonio nostro d'arte contemporanea si espanda quanto più è possibile oltre i confini, e riconquisti i mercati che ha perduti e che va perdendo. E accanto a questi sottosegretariati - ma specialmente accanto a quello per l'arte contemporanea - siano accolti organi consultivi, emanazioni dirette delle varie Categorie di artisti: quello che sono oggi i Direttorii Nazionali dei Sindacati Artisti. I quali però, sino ad ora, non dirigono nulla: perchè non assistiti da chi dovrebbe assisterli, ed avversati da chi dovrebbe sostenerli e valorizzarli.
Quello che è avvenuto in quest'ultimo anno nel campo della musica - i pittori, gli scultori, i letterati diranno le loro; noi intanto diciamo le nostre - è sintomatico, e basta a dimostrare quanto bisogno abbiano, questi Sindacati intellettuali, di passare dalla funzione puramente platonica a quella pratica e fattiva. Darò, per oggi, solo due campioni.
Il Direttorio dei Musicisti esprime a Benito Mussolini - che di questioni musicali sembra interessarsi particolarmente - il parere che i teatri sovvenzionati direttamente o indirettamente dallo Stato debbano essere sottratti alla speculazione privata e comunque regolati da uno statuto: il Duce approva; e il massimo teatro lirico della capitale è affidato alla gestione di un impresario di mestiere senza condizioni di sorta, riguardo alla politica artistica da seguire. Il Direttorio dei musicisti chiede al Duce che sia fatto obbligo, a tutte le più importanti organizzazioni teatrali e concertistiche, di accogliere nei loro Consigli una congrua rappresentanza dei vari Sindacati Musicali (è noto, e lo dice assai bene anche il Forges Davanzati, che i musicisti sono quasi completamente esclusi dai Consigli Direttivi di tutte le Società di Concerti ed Enti teatrali. Ingegneri, avvocati, notai, ragionieri, ve n'è a bizzeffe; ma gli artisti son tenuti alla larga).
Il Duce trova giustissima la domanda, e concede. Ma il sottosegretariato per le Corporazioni compila in tal modo la relativa circolare ai Prefetti, che un Ente, quello del Teatro San Carlo di Napoli, per non far nomi, si crede in diritto di non tener conto dell'invito.
Questa è l'ultima, e la si è saputa a Roma nei giorni scorsi, ed è stata di gran conforto pei membri del Direttorio Nazionale dei Musicisti. Poi, ve ne sono delle altre, non meno eloquenti e significative e confortanti, che dirò in altra occasione, se Benito Mussolini lo vorrà.
Per oggi basta. Basta, se non erro, a dimostrare che Direzione generale, Ministero o Sottosegretariato per le Belle Arti, Sindacati Artistici, efficienza dei varii Direttorii, sono altrettante faccie di un unico problema, che interessa quanto ha di meglio l'Italia intellettuale, e che è desiderabile divenga al più presto uno dei grandi problemi del Regime.

II

6 NOVEMBRE
L'On. Franco Ciarlantini mi scrive:
«Leggo con molto ritardo, a causa del mio continuo viaggiare, il suo articolo Arte e Regime; le risposte della Tribuna, del Tevere e del Giornale d'Italia; la sua replica. Ella conosce le mie idee al riguardo, e sa come io sia convinto che, nel nostro Paese, l'Arte è Politica e Finanza; e specialmente Politica Estera, vale a dire mezzo di propaganda e di imperio spirituale; e - in quanto a produzione contemporanea - specialmente «genere di esportazione»: cespite di entrate, cioè, per la nostra nazione, che possono grandemente influire su quella che si chiama «bilancia commerciale». Io, che amo le soluzioni profonde e definitive, sono più d'accordo con lei che con i suoi interlocutori, e preferirei - a sanare la crisi delle Belle Arti e Antichità - la creazione di un Ministero, secondo la sua proposta; tanto più che a questo Ministero io credo si dovrà prima o poi, arrivare. Ma se per ora non si vuol fare un passo troppo lungo, venga pure il Commissariato. Purchè il Commissario abbia libero ingresso a Palazzo Chigi, e riesca a far intendere al Ministro delle Finanze che l'Arte è in Italia una delle poche «voci» che possano rendere, decuplicati, imilioni intelligentemente spesi a suo vantaggio ».
Questa lettera, che reca la data del 2 novembre u. s., una breve nota del Giornale d'Italia, apparsa negli ultimi giorni di ottobre, e un lungo importante articolo della Tribuna del 3 u. s., mi inducono a riprendere l'argomento intorno al quale l'interesse di quanti hanno a cuore la sistemazione della nostra vita artistica è più che mai vivo e giustificato oggi, che è in ballo la successione del dimissionario Arduino Colasanti, o una totale riforma degli organismi ministeriali sovrastanti alle Antichità e Belle Arti.
Il problema non interessa soltanto gli artisti e i letterati; bensì anche i politici e gli uomini di finanza. La cosa è stata detta e ripetuta molte volte, ma non è inutile riaffermarla. A ribadire - e sotto un solo aspetto, per non andar tanto per le, lunghe - la verità con parole non mie, citerò - il passo di un libro, Imperialismo spirituale, dell'on. Ciarlantini, che la lettera dello stesso mi ha indotto a ripercorrere:
«L'opera compiuta, quadro o statua, commedia o opera musicale, una volta, licenziata dall'Artista, si deve considerare come un prodotto commerciale da valutare, da valorizzare, da collocare col massimo rendimento morale e finanziario. Noi italiani non ci siamo mai curati di creare un mercato europeo e mondiale alla nostra arte e ai nostri artisti. Il poco che è stato fatto lo si deve ai privati. In tutti i trattati di commercio che l'Italia ha stipulato con i vari paesi del mondo è stata convenientemente sfruttata l'opera di molteplici esperti dell'industria, dell'agricoltura, del commercio, ecc.; ma ho il vago sospetto che nessun artista sia stato mai interrogato per stabilire delle intese con gli altri paesi per il dovuto collocamento dell'arte nostra... Per il traffico, che so io, degli erbaggi, sono stati creati concorsi e sindacati, e si sono invogliati fior di capitalisti ad assumere imprese di esportazione: per l'Arte, nulla di tutto ciò ».
Qui si tratta, come ognun vede, non tanto di fantasie imperialistiche, quanto di un semplice e modestissimo sistema di scambi e di compensi da creare a favore dell'arte nostra, come è stato creato a favore della più modesta partita di ortaglie; non della pretenziosa richiesta di un utopistico «assoluto», quanto dell'umile domanda di un «relativo» raggiungibilissimo.
Oggi non solo un tale sistema di scambi e di compensi non esiste neppure in embrione nel campo dell'arte; ma le cose procedono in tal modo, che anche disposizioni emanate a fin di bene e sotto certi riguardi encomiabili, sono vôlte ai nostri danni; come sono vôlti ai nostri danni certi catenacci che da alcuni si vorrebbero imposti - per un male inteso nazionalismo - ad opere d'arte straniere. Catenacci, o anche soltanto resistenze, che, mentre non giovano affatto alla nostra coltura, sono poi abilmente sfruttati da chi ha interessi contrari ai nostri.
Non deve essere permesso, ad esempio, che la errata e tendenziosa interpretazione di una circolare del Ministro Fedele (riguardo alla proporzione che deve essere mantenuta, nei programmi dei concerti tenuti in Italia - da virtuosi stranieri, fra musiche italiane e musiche foresticre) faccia credere, come ora accade in Germania, ad una specie di «serrata» nostra contro l'arte straniera, e sollevi malcontenti, e provochi minacce di rappresaglie. Bisogna chiarire lo spirito del disposto ministeriale, che non è affatto xenofobo, come si vuol far eredere oltr'Alpe; e riaffermare che noi siamo disposti ad accogliete tutta la musica forestiera che ci si vorrà far sentire, a condizione che con pltrettanta larghezza sia accolta, nei paesi esteri la musica nostra.
Altro esempio, ove occorra: l'anno scorso a Vienna, parlando col Direttore amministrativo dell'Operntheater, ebbi a chiedergli perchè, nel repertorio di quell'importantissima scena, non figurasse nessun saggio della nuova produzione operistica italiana (all'infuori di Madonna Imperia di F. Alfano, che appartiene ad un editore viennese). «Bisognerebbe che l'Italia fosse un po' più ospitale - mi fu risposto press'a poco - verso la nostra produzione melodrammatica; e anche noi lo saremmo, allora, verso l'italiana». Ecco dunque, da un'altra voce, riaffermato il principio dello scambio e dei compensi.
Permettere l'importazione, e promuovere, facendosi anche di quella un'arma, l'esportazione. Mettere a contatto e contrasto la nostra nuova, con la nuova arte straniera (ho l'impressione che non avremmo da perderci). E chi avrà armi migliori vincerà.
Perchè, naturalmente, non bisogna dimenticare che nelle faccende dell'arte, come in ogni altra faccenda, non bastano nè i Ministeri, nè le circolari, nè le convenzioni internazionali: e che la qualità della merce esportata ha, al di sopra di tutto, la sua buona e bella e decisiva importanza.
Mentre il Giornale d’Italia liquida con due brevi parole, dopo avere largamente citato l'articolo del Secolo-Sera, la proposta da noi avanzata come la più adeguata al momento e ai bisogni, della creazione di un Ministero per le Antichità, e Belle Arti, senza per altro dimostrare perchè mai la creazione di questo nuovo organo statale dovrebbe «portare ancora maggior confusione e maggior ristagno alle sorti dell'arte in genere e della musica in ispecie» e senza, neppure, chiarire come mai si potrebbe attingere un ancor più alto grado di confusione e di ristagno dell'attuale, che a noi sembra già insuperabile, la Tribuna riprende ad esaminare la questione dalle sue basi, con copia di notizie e di argomenti d'alto interesse.
E, con un senso di libertà spirituale e di realtà contingente che molto la onora, mentre ribadisce la necessità, da lei prima prospettata, di staccare le Antichità e Belle Arti dal Ministero dell'Istruzione, ora sembra accogliere anche la nostra idea - dalla quale prima dissentiva - di creare addirittura un Ministero; ed è pienamente d'accordo con noi nel sostenere la necessità di scindere, in esso Ministero o Commissariato (in ogni caso alle dirette dipendenze del Capo del Governo), le due grandi sezioni: quella riguardante l'arte antica e l'archeologia, e quella riguardante l'arte contemporanea. Accanto agli uomini eletti a questi importanti uffici, poi, essa vorrebbe - e anche in questo caso le nostre idee collimano perfettamente - alcune minime, ma attivissime giunte di tecnici, emanazioni dirette dei vari Sindacati, i quali sarebbero emancipati dalla loro attuale funzione, che i puramente (e neppur tanto) decorativa.
Ma ecco quello che scrive la Tribuna: «L'ufficio centraledelle Belle Arti non deve essere una Direzione generale alle dipendenze d'un Ministro il quale non se ne occupi (e difatto, per più di vent'anni, è vissuta anche materialmente separata dalla Minerva, in altro edificio). Dev'essere - e si chiami Ministero, si chiami Commissariato o altrimenti: il nome non c'interessa - un dicastero a sè. Chè se questo in altri Stati europei non s'è fatto, per noi vuol dir pochissimo: le Belle Arti in Italia hanno un'importanza che non hanno in nessun altro paese del mondo. «Che le dimensioni materiali di questo dicastero siano minime, e che il suo bilancio resti esiguo in confronto degli altri, sono cose di poco conto. Quel che preme è che il suo capo tratti senza interposta persona col Primo Ministro, Capo del Governo, con responsabilità dirette e precise.
«Scelto a un tale ufficio un uomo di coltura eclettica e di vivace attività, animato da interesse vero verso tutte le questioni vive del tempo suo, capace di scegliere e di assimilare, abbia costui alle sue dipendenze non uno ma due Direttori generali (esistono altri Ministeri, per esempio quello delle Corporazioni, con due sole Direzioni generali). Una di esse sarà per la conservazione del Patrimonio artistico (per intenderci, quella che sopraintenda a tutta l'arte sino alla fine del secolo scorso): l'altra, per l'Arte contemporanea. E anche questi due Direttori generali siano scelti fra i tecnici; o, se proprio s'abbia a prenderli dalla carriera amministrativa (dove non manca, e l'ha notato già altri, qualche elemento di prim'ordine) bisogna che ciascuno dei due sia assistito da vicino, quotidianamente, da una minima ma attivissima giunta di tecnici; per esempio, di tre studiosi per la Direzione generale del Patrimonio artistico, e di tre artisti o critici per quella dell'Arte contemporanea».
Anche a proposito dell'attività dei Sindacati artisti, e della loro pratica valorizzazione, è molto importante quel che scrive la Tribuna, e ci trova pienamente d'accordo: «Nemici come siamo stati sempre, in passato, dell'attività sindacale in materia d'arte, quando i capi dei sindacati erano socialisticamente eletti dalle maggioranze, e cioè dai mediocri o cattivi artisti, siamo prontissimi ad accedere ad una concezione radicalmente opposta dacchè quei capi siano, come oggi, scelti dall'alto; ossia, senza patti e compromessi demagogici, fra i migliori: l'autentica aristocrazia dell’arte. «Qui dunque s'apre un campo di attività. nuova. Qui la Rivoluzione può dar saggio di sè. E noi la attendiamo con fiducia, a quest'altra prova».
Prima di dir questo, però il giornale romano dedica largo spazio all'esame dell'attuale organismo burocratico e delle attuali condizioni di bilancio della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti. A proposito di ciò, bisognerà riprendere in. mano anche il già citato libro dell'on. Ciarlantini, per mettere a raffronto, ed integrare, occorrendo, dati e cifre. E poi, si dovrà concludere, da parte nostra, questa discussione che non ha alcuna pretesa di precipitare avvenimenti e di provocare innanzi tempo radicali mutazioni che forse nella mente del Capo del Governo vanno maturando per un avvenire meno immediato; ma che - cosi in noi come nei nostri interlocutori, crediamo - è ispirata soltanto dal desiderio (che dovrebb'essere comune a quanti si appassionano delle fortune dell'arte) di chiarire i vari punti delle questioni e di offrire il maggior numero possibile di elementi di giudizio a chi dovrà, un giorno, decidere. Ma a discutere ancora ea concludere occorrerebbero, oggi, troppo altro tempo e spazio. Ne riparleremo.

III

1º DICEMBRE
La nomina del Prof. Roberto Paribeni a Direttore Generale delle Antichità e Belle Arti, che vuol dire il mantenimento dello statu quo, dopo il molto discutere che s'è fatto intorno al migliore assetto da dare alle Belle Arti in Italia, sollevandole dallo stato di miseria, di abbandono e di disordine in cui (su questo punto tutti sono d'accordo) si trovano, non dimostra affatto, come vorrebbero alcuni, nè che tali discussioni fossero oziose, vale a dire senza sufficiente motivo, nè che siano rimaste inascoltate e neppur prese in considerazione dal Capo del Governo. Dimostra, tutt'al più, che Benito Mussolini non crede sia ancora giunto, per il Regime, il momento di affrontare i problemi dell'arte. Vuol dire che le «battaglie» ingaggiate sino ad oggi dal Fascismo, e che sono tuttora in corso, hanno agli occhi del Duce maggior carattere di urgenza e necessità di esser vinte - e non vi è idealista, spiritualista, acchiappanuvole che possa non convenire, mettiamo, della necessità prima del pane - e che la battaglia che noi invochiamo e attendiamo, per la restaurazione della nostra vita artistica, non è ancora matura, non ha ancora veduto giungere il suo tempo, nè scoccare la sua ora.
A dire il vero, seguendo le fasi della discussione, e leggendo tanti pareri diversi, e vedendo tante deviazioni da quello che è il punto centrale, mi è venuto il dubbio che questa battaglia, per la quale tanti artisti fremono d'impazienza, pronti a menar le mani, trovi un pochino impreparati anche noi, che saremmo i fanti della buona causa. Mi par di vedere i segni di questa impreparazione in una certa confusione di lingue, in un certo disordine di obiettivi ed eccesso di speranze che sono, sì, di prammatica nella strategia da caffè; ma che, fin quando dureranno, non potranno certo indurre o incoraggiare il Duce a dar il segnale d'attacco per una lotta che potrebbe diventare - orribile dictu - fratricida, a causa dei gridi di guerra sui quali non si è ancora raggiunto il perfetto accordo. - «Io la voglio cruda!» - «Io la voglio cotta!». Ma l'arte, secondo me, non si deve volerla nè cruda nè cotta; si tratta di volerla, possibilmente, viva.
Per procedere con ordine, e per placare le ansie di coloro che vedrebbero volentieri il Fascismo disinteressarsi della vita dell'arte e degli artisti, e che credono di trovare nella soluzione - che per il momento non risolve nulla - della crisi a Palazzo Venezia un conforto alle loro poco oneste speranze, ricorderò quello che ha scritto poco tempo fa Arnaldo Mussolini, il quale è probabilmente bene informato sui disegni del Duce: «Una ragione di giustizia politica consiglia di porre in valore l'arte e gli artisti, i quali potranno dalla nuova forma disciplinata della loro attività, trarre motivi di forza e di orgoglio... Solo una forza politica dominante può disciplinare, ai fini supremi dell'Arte e della vita nazionale, l'opera degli artisti. E stia ciascuno al proprio lavoro, secondo le sue tendenze e le sue aspirazioni. Create all'Arte una base di partenza fatta di mezzi, di stima, di un alone caldo di simpatia che esalti, e l'Arte fiorirà nel nostro tempo per noi e per i figli dei nostri figli... Oggi il Fascismo ammira e tutela lo sforzo e l'assillo nobilmente operoso degli artisti italiani».
Creare all'arte una base di partenza fatta di mezzi, di stima, di un alone di simpatia, suggerisce Arnaldo Mussolini; e dice bene. Ma si può aggiungere: assestarla in un ordine: che è quello che più di tutto ora le manca, e che prima di tutto le occorre. Ad ottenere questo non sarà male, però, che un po' d'ordine si faccia anche nelle idee di alcuni che partecipano alla discussione. Anche distinguere, tra le varie provvidenze, le più e le meno urgenti; e le proposte che possono trovare pratica attuazione da quelle che sono utopia; e ciò che può giovare da ciò che non può che nuocere: anche questo è ordine.
Quando, per esempio, nelle condizioni in cui ci troviamo, con tutto da fare nel campo pratico e abbordabile dell'organizzazione, della disciplina e valorizzazione delle gerarchie, dell'allacciamento dei rapporti fra artisti e Stato, dell'impianto del telefono - ma di un telefono che funzioni - fra i vari Direttorii e chi può ascoltarne i pareri ed esaudirne i voti: quando, davanti a questo a, b, c, che siamo ancora in troppo pochi a reclamare, sento parlar di arte «di Stato» e di stile «ufficiale», che sono l'x, y, z, a me pare che si pecchi proprio contro quell'ordine che si invoca. Se s’ha da montare in cattedra, procuriamoci prima una pedana, un tavolo, una sedia, e il bastoncino per far rigar dritto gli indisciplinati, e il campanello del Marchese Colombi; e poi se ne riparlerà.
Dell'a, b, c, che ho detto, hanno parlato con molta chiarezza e praticità, dopo il Forges Davanzati, E. C. Oppo e S. D'Amico nell'articolo Gli elementi del problema, comparso nella Tribuna; il Pavolini in Conclusioni dopo una nomina, nel Tevere; il Soffici in una lettera all'on. Bottai, in Critica fascista; il Resto del Carlino, il quale però sostiene che, prima che di ordinamenti, di Ministeri, Sottosegretariati e Commissariati, c'è necessità di diffondere il culto dell'arte tra il popolo, e di dotare l'arte di mezzi materiali che oggi non ha.
La Tribuna, a proposito di questa penuria di denari, mette il dito sulla piaga. E racconta che su un bilancio di un miliardo e trecento milioni rappresentanti la spesa complessiva del Ministero della Pubblica Istruzione, sono assegnati all'arte, a tutte le arti prese insieme, antiche e moderne, quarantacinque milioni. Nello Stato di previsione della spesa del Ministero della P. I., questa somma apparisce ancora più esigua, superando di poco i trentotto milioni.
Se si confrontano le voci del bilancio di quest'anno con quelle pubblicate nel 1925 dal Ciarlantini, nel suo Imperialismo spirituale, viene il dubbio che, ad onta di un lieve aumento globale di spesa, a vero beneficio delle antichità e dell'arte moderna vada, nelle attuali gestioni, ancor meno che non negli anni passati. Ad ogni modo, cosa sono in una spesa per la P. I. di milletrecento milioni, trentotto milioni per le antichità e Belle Arti? Cosa sono nel bilancio di una Nazione che solo dalla esportazione di musica e di musicisti ricava ogni anno duecentocinquanta milioni, e che deve alle arti tanta parte delle sue glorie più antiche e durature, e della sua posizione nel mondo? Sono meno che nulla, sono peggio che nulla.
Un rilievo importantissimo fa la Tribuna, quando parla del grottesco capovolgimento cui si assiste oggi, in ciò che riguarda la nomina di commissioni tecniche, attuazione o rigetto di proposte emanate da consessi tecnici.
È sempre l'incompetente - sia esso Ministro, o Direttore Generale o Capo Divisione - che sceglie e che decide; sono sempre i tecnici che di fronte al burocrate, si trovano in grado d’inferiorità è nell'impossibilità di guidare e di sistemare le faccende dell'arte loro. Il Resto del Carlino si preoccupa dei danni delle complicazioni che potrebbero sorgere lasciando una piccola Direzione per le Antichità al Ministero della P. I., e istituendo un Commissariato o un Sottosegretariato alle dipendenze dirette del Capo del Governo, per l'arte moderna. Certo che una separazione di tal genere sarebbe non solo ingiusta perchè verrebbe implicitamente a diminuire l'importanza e il posto che spetta, nel nostro paese, alle antichità; ma segnerebbe l'apertura di una guerriglia accanita fra Ministero della P. I. e il nuovo Sottosegretariato o Ministero per l'arte moderna, per ogni cartello «È vietata l'affissione» da mettere sul più modesto monumento nazionale, e per ogni mozzicone di colonna da spostare sull'area di un nuovo palazzo. Queste obbiezioni del Resto del Carlino non fanno dunque che suffragare di nuove prove l'opportunità sostenuta dalla Tribuna, da noi, dallo stesso Tevere in articoli successivi, di sottrarre anche le Antichità alla amministrazione della Minerva, e di farne invece oggetto di una separata Direzione Generale nel nuovo Sottosegretariato o Commissariato da istituire.
Ardengo Soffici, in fine, è in tutto e per tutto d'accordo con noi, quando si dichiara «per la netta separazione tra Direzione delle Antichità Direzione delle Belle Arti, o arti moderne»; quando ritiene «necessario che la Direzione di tutto quanto concerne queste ultime sia affidata all'organismo sindacale artistico, per tutto quanto concerne la attività artistica dei singoli o dei gruppi nei loro rapporti con lo Stato, non intervenendo perciò in alcun modo in quel che è fatto personale dell'artista e cioè: ricerca, tentativo, invenzione di forme inusitate eccetera... Niente arte di Stato». Alla buon'ora; è un artista che parla così.

IV

3 DICEMBRE
«NIENTE arte di Stato.» Alla buon'ora (riprendiamo, con le parole di Ardengo Soffici, il discorso, dove lo abbiamo lasciato), alla buon'ora, è un artista che parla. Eppure, a sentire alcuni, questo dell'arte ufficiale o di Stato, sarebbe il primo e più importante problema. Per me, questo è l'ultimo fra tutti, perchè appartiene al regno dell'utopia. C'è ben altro da fare, l'ho già detto, prima di avventurarci in questo vicolo senza uscita. E poi, cosa vuol dire arte ufficiale o di Stato? Vuol dire che tutti i pittori, scultori, architetti, musicisti, hanno da dipingere, scolpire, disegnare, scrivere allo stesso modo? Sarebbe - dato che da noi si potesse, con lo spirito individualista che ci distingue e che ci salva (neppure abbastanza) da tante epidemie che fanno strage oltr'Alpe - sarebbe un bel divertimento, in verità.
Io credo che sarà sufficiente guardarsi dallo scimmiottare le pitture, le sculture, le architetture, le musiche straniere. Resistere alle correnti mutevolissime della moda e dello snobismo; combattere l'internazionale dell'arte, che è in atto e imperversa nella pittura come nella scultura, nella architettura come nella musica europee; ma per accontentarci d'essere italiani: vale a dire di lavorare secondo lo spirito e il sentimento istintivo e vario della nostra razza; e non per copiarci, fra italiani, l'un l'altro. Stile fascista? Ma si formerà (bene inteso non in un anno, nè in due) spontaneo, quando il Regime - compiendo un altro gesto veramente rivoluzionario rispetto alla politica dei governi passati - chiamerà a sè gli artisti, si interesserà alle arti, e se ne farà alto patrono.
E non sarà affatto necessario che ogni quadro abbia, in un angolo, il fascio littorio, nè che in ogni musica riecheggi il ritornello di Giovinezza; perchè il segno della vita e della storia che ora si attraversa, sarà nel risorto spirito nazionale che è la più bell'opera del fascismo, e che si può manifestare in mille modi e rimanere sempre - come spirito appunto, non come cifra, o segno, o scrittura - riconoscibile. «Essere un'epoca» come domanda il Forges Davanzati e sottolinea l'Ojetti? Ma lo siamo già, senza accorgercene, anche nel campo dell'arte, e più lo saremo. Se non possiamo avvedercene noi, che ci siamo dentro, lo vedranno bensì, fra cento o duecento anni, quelli che verranno dopo di noi, se ci crederanno degni di studio.
Ugo Ojetti, mi aveva scritto, appunto, prima di pubblicare il suo Dialogo tra Bene e Meglio nel Corriere della Sera: «Non si va d'accordo. Sulla diagnosi del male, sì; sui rimedi no. Non credo all'efficacia d'una Direzione generale separata per l'arte contemporanea; non credo alla resurrezione del Sottosegretariato di Stato che o sarà un servitore del Ministro dell'Istruzione, o, indipendente, sarà in perpetuo conflitto con tutti: col Ministro delle Comunicazioni pei francobolli o per le facciate delle stazioni, con quello del Tesoro per le monete, con quello degli Esteri per gli arredi delle Ambasciate, col Provveditorato generale dello Stato, magari, per la carta da lettere». Ma l'ironia, qui come nell'articolo pubblicato sul Corriere, è segno di profondo e doloroso amore: di un animo che non vuol più sperare per non patire, dopo tante altre, nuove delusioni. Il riso, nel romano trapiantato a Firenze, come nel fiorentino Machiavelli, nasce dalla malinconia.
Non è, io credo, che l'Ojetti sia scettico sulla efficacia di un Sottosegretariato o di una separata Direzione Generale perchè non trovi, a questi istituti, motivi di necessità e opere feconde da compiere; ma perchè, appoggiandosi sull'esperienza passata (e qui non ha torto), non può immaginarli che o perpetui servitori, o attaccabrighe perpetui.
Ma noi non domandiamo la ricostruzione perchè sian ripetuti gli errori del passato. Anche in questo campo, si tratta in fine di un ordine da fissare e da imporre; di una specie di protocollo da stabilire, - se tanta continua ad essere la suscettibilità e la... gelosia burocratica - nei rapporti fra i vari Ministeri. Il problema ha cento faccie; per questo è di così grande interesse.
Nel Giornale d'Italia, Raffaello de Renzis, mantenendosi tenacemente avverso al distacco delle Antichità e Belle Arti dal Ministero della P. I. e alla creazione di un nuovo Ministero o Sottosegretariato, pone tra le ragioni della sua resistenza la difficoltà di trovare un personale adatto.
Ma non si è detto che questo nuovo Ministero o Sottosegretariato dovrebbe esistere solo in quanto dipendesse dal Capo dei Governo e fosse appoggiato sui varii Sindacati che dovrebbero fornirlo dei varii organi non soltanto consultivi, ma deliberativi, rappresentanti gli elementi tecnici, vale a dire competenti del nuovo organismo? Io arrivo a dire che gli stessi Direttori Generali delle sezioni antichità e arte moderna, dovrebbero essere designati dai Direttorii dei varii Sindacati artistici, riuniti. Facendo così, uno spirito di leale collaborazione e di fiducia prenderebbe il posto dello spirito di ostruzionismo e di meneinfischio che fino ad ora ha distinto la politica della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti nei riguardi dei Sindacati artistici. Dice ancora il De Renzis: «Soprattutto nel campo dell'intelletto e dell'arte, il più intelligente e il più artista è, per sua natura, il meno sindacalista. Quindi avviene lo scavalcamento degli ottimi a vantaggio dei mediocri». L'affermazione è abbastanza grave, e mi meraviglio che fino ad oggi nessuno a Roma, dove pure vivono parecchi membri di Direttorii dei Sindacati artistici, abbia pensato a ribatterla.
Io, per conto mio, dirò che sentire il sindacalismo - specie come preludio alla Corporazione, tanto più bel nome, tanto più gloriosa istoria e tradizione italiana - non vuol dire essere, per un intellettuale, più o meno artista o più o meno intelligente; vuol dire semplicemente sentire o no i tempi nuovi. Essere nella Rivoluzione, o fuori della Rivoluzione. Collaborare alla nuova Storia che si svolge, o rimanersene alla finestra a guardar quel che fanno gli altri e a rimpiangere, nel segreto del cuore, quel che, prima, nessuno faceva. Sperare, volere, esigere che l'arte entri come una ruota necessaria nell'ingranaggio della vita nazionale, e non rimanga, come prima, semplice decorazione o isolatissimo Tempio cui tutti profittano, cui tutti sfruttano, su cui tutti, spiritualmente o materialmente, guadagnano; ma cui nessuno vuol riconoscere, nella scala dei valori nazionali, il posto che merita.
Accanto al Legislatore e accanto alla Religione - come voleva Mazzini; questo è il posto dell'Arte in Italia, caro De Renzis. E in tal caso, stia pur sicuro, l'Arte non avrà niente da perdere se, distaccandosi dal poco sollecito e meno ancor amoroso seno del Ministero della P. I., perderà la compagnia delle scuole elementari e secondarie. «Occorre non distaccare l'arte dalla scuola?» Ma occorre, prima di tutto inserirla, farla entrare come cosa necessaria, come pane di tutti i giorni, nella vita, che vuol dire, sì, scuola; ma sopra tutto dopo scuola: un dopo scuola che dura quaranta, cinquanta, sessant'anni: e che è quello delle «opere», in cui ogni generazione dà prova di sè.
Dov'è poi, nell'ordinamento sindacale, che domani sarà corporativo, questo «Scavalcamento degli ottimi a vantaggio dei mediocri»
che il De Renzis deplora? Nel campo della musica non lo vedo. Le posizioni sono rimaste quelle che erano. Nessuno che appartenga ai vari Direttorii regionali che dovrebbero essere, a quanto pare, i posti delle «torte», ha avuto qualche vantaggio della sua posizione... di privilegio. Ha speso dei gran denari in viaggi, questo sì. Se mai, qualche vantaggio l'hanno avuto e lo hanno quelli che son fuori; perchè pare dello spirito fascista avere qualche speciale riguardo, se mai, per gli avversari, o per i supposti avversari del Regime. E poi - sempre restando alla musica - son proprio i «mediocri» che essendo stati chiamati a far parte del Direttorio Nazionale, tengono in mano la barra (simbolica) del timone (più simbolico ancora)? Ricordiamo solo alcuni nomi: Alfano, Mascagni, Molinari, Pizzetti, Respighi, Zandonai. Se questi sono, oggi, i mediocri, mi vuol dire l'amico De Renzis i nomi e i cognomi degli ottimi lasciati fuori? Certo, è tutta gente, meno il Mascagni, nata dopo il 1870. Ma a ricordarsi di quelli nati prima del 1870 ci pensa, non ne dubiti, la Direzione Generale delle Belle Arti, ogni volta che c'è da nominare una Commissione Governativa, o da giudicare un concorso, o da erogare dei denari, o da aprire in altro modo una qualunque finestrella che... dia un po' d'aria nuova ai vecchi magazzini della musica italiana.
Conclusione. Sia il benvenuto il prof. Roberto Paribeni, nuovo Direttore Generale delle Antichità e Belle Arti. E gli sia lieve la fatica che lo attende, e gli sia facile l'eloquenza e propizio il Ministro delle Finanze, quando chiederà qualche soldarello che renda meno striminzito e fidevole l'attuale bilancio del suo ufficio. Ma si ricordi, ogni tanto, che esistono alcuni Direttorii Nazionali dei Sindacati artisti che potranno, in caso di bisogno, molto bene illuminarlo su questioni che esso non può conoscere a fondo; che potranno aiutarlo, e che almeno per ciò che riguarda i musicisti saranno certo felici di dargli la loro collaborazione.
Tanto più lieta e sollecita, quanto meno richiesta e apprezzata, fino ad ora; sebbene si sia visto - in una seduta assai importante e proficua, tenuta a Roma, al Ministero delle Corporazioni, sotto la presidenza dell'on. Bottai - quanto possa essere utile e chiarificatrice - anche nei rapporti con gli industriali - se tempestivamente domandata, e seriamente considerata.
Perchè, lo sappia il Prof. Paribeni, ma non per essere incoraggiato a fare altrettanto, la tendenza generale, a Roma, è di ignorare l'esistenza di questi Direttorii. E pare che - come non tutti i burocratici hanno potuto ascoltare le belle e franche dichiarazioni del Bottai, nella seduta che ho detto - si voglia continuare in questo sistema. Ne vuole un esempio?
Nelle settimane scorse è stato manipolato in qualche ufficio della capitale un emendamento alla nuova Legge sui Diritti d'autore, il quale (oltre al pochissimo che se ne conosce per essere stato pubblicato solo ieri) si dice che, cambiando una parolina di qua, aggiungendo una frasicciuola di là, dimenticando qualche piccolo particolare nella tal pagina, modificando lievemente la lettera del tal'altro articolo, rappresenterebbe, se approvato alla Camera dei Deputati o applicato come Decreto-Legge, un vero disastro per gli auguri di musica. Vi è qualche cosa che, più di questa, possa interessare il Direttorio Nazionale del Sindacato Musicisti, composto tutto di autori di musica? Non v'è.
Ne sanno nulla i membri del Direttorio? Qui a Milano, ufficialmente, non ne sanno nulla. Ne sa qualcosa il maestro Mulè, segretario generale del Sindacato Musicisti, che vive a Roma? Bisogna credere di no, poichè nessun allarme è partito da lui, e nessun avviso di convocazione è, da lui, giunto.
Ciò non toglie però, se si pensa all'esperienza passata, che la cosa possa esser vera. E in tal caso, prof. Paribeni, ecco l'esempio che Le avevo promesso, perchè Lei non se ne edifichi.

PREFAZIONE DI GIUSEPPE BOTTAI

INCREDIBILE, ma vero: questa prefazione, s'io non la tengo d'occhio, mi diventa, sotto mano, una polemica; una scrittura, cioè, di tono bellicoso, e non pacato, accomodante e familiare, com'è d'uso per componimenti di siffatta natura. Guardate un po' in che maniera, di pagina in pagina, mi punzecchia l'Autore, assillante e cortese: sindacati e corporazioni, corporazioni e sindacati; fintantochè mi prende proprio di petto e mi inchioda al muro: ah! quel Sottosegretario alle Corporazioni di quanto mal fu reo!
Ebbene, domando la parola. Una parola alla buona, tra amici disposti a ragionar seriamente - epperciò, senza pose - di problemi importanti.
Intorno al sindacalismo nei cosidetti intellettuali - professionisti e artisti - corrono dei dubbi. La gente dice: transeat per i professionisti, lavoratori con tanto di regolamenti, di albi e di tariffe; ma per gli artisti, ohibò!, dove sono gli interessi da tutelare sindacalmente? Questa gente, anche, se rivestita a nuovo, è gente vecchia, che scambia l'arte con la bohème e il sindacalismo col salario. Tra bohème e salario non v'è unione possibile. Dunque, fatica sprecata: questo matrimonio non si farà.
Ci dobbiamo proprio rinunziare? Non credo; anzi, il pateracchio è già combinato, avendo gli sposi, arte e sindacalismo, trovato nel sistema corporativo un terreno di fecondo e saldo connubio. Dichiarazione VI della Carta del Lavoro: «Le corporazioni costituiscono l'organizzazione unitaria della forza della produzione e ne rappresentano integralmente gli interessi». Dichiarazione VIII: «Le rappresentanze di coloro che esercitano una libera professione o un'arte concorrono alla tutela degli interessi dell'arte, della scienza e delle lettere, al perfezionamento della produzione e al conseguimento dei fini morali dell'ordinamento corporativo».
O che discorsi son questi? Gente mia, discorsi nuovi, ma chiari. La corporazione non è una macchina per fissare automaticamente il salario o la tariffa; è un organismo, in cui tutti gli aspetti della produzione si accolgono in unità, da quelli materiali a quelli ideali, da quelli di quantità a quelli di qualità, da quelli del lavoro manuale a quelli del lavoro intellettuale, da quelli dell'esecuzione in serie a quelli della creazione; un organismo, insomma, dove investitori di capitale, gestori d'azienda, produttori, tecnici, lavoratori, professionisti e artisti si ritrovano a regolare, insieme, solidalmente, l'opera complessa della produzione moderna. Non bailamme di interessi, ma interessi distinti e coincidenti. Ogni interesse, finchè deve, chiaro e preciso, per suo conto; ma, quando deve, pronto ad integrare gli altri, nell'unica impresa. Ecco, il libro, con i suoi editori, stampatori, cartai, legatori, librai; perchè dallo studio dei suoi problemi, che non sono tutti di natura industriale e commerciale, dovrebbero essere banditi gli scrittori e i disegnatori?
Il teatro: impresari, attori, orchestrali, operai; e gli scrittori, i pittori, i musicisti, perchè rimarrebbero lontani dalla sua organizzazione? E, ancora, la casa, la sartoria, la scuola, l'artigianato; infinite sono le opere dell'uomo, cui l'artista dà un contributo concreto, essenziale e fondamentale di lavoro. Necessaria è, quindi, e non arbitraria e ipotetica, la sua funzione corporativa.
Su questa idea, mio caro Lualdi, poggia salda la nostra fede nel sistema. Con questa idea, unicamente con questa idea, e non con più o meno graziose e paternalistiche concessioni, si giungerà a risolvere il più vasto problema, i cui termini sono in questo libro lucidamente impostati: quello dei rapporti tra l'Arte e il Regime.
Ora incomincian le dolenti note: incomprensioni burocratiche, ufficiali o ufficiose resistenze passive, punti morti, rifiuti tra il lusco e il brusco, si, perfino, nell'ambito di alcuni organi e uffici di quello Stato, che ama definirsi corporativo. Ma, allora, questa corporazione, che entra per la parta maestra della legge e vien gettata dalla finestra, che cosa è, uno scherzo o una cosa seria, un sogno o una realtà? Qui ti voglio, mio caro Sottosegretario, grida vittorioso e sardonico Lualdi.
Già, ma qui ti volevo anch'io. Per dire questo: che sette anni ci sono voluti perchè la Rivoluzione Fascista disegnasse intiera la struttura del nuovo Regime. Sette anni, lunghi, faticosi, di marcie e di contromarcie, di avanzate e di soste, per avere uno Stato nostro, originale, nei suoi istituti, nelle sue leggi, nei suoi ordinamenti. Ma istituti, leggi e ordinamenti non basta che, creature meccaniche, nascano, per entrare nella coscienza della gente; ma, creature vive, hanno da crescere e rafforzarsi negli anni, perchè l'ossequio e l'osservanza, che loro si debbono, vigoreggino si da vincere abitudini redicate negli animi e nei costumi. L'ordinamento corporativo è alla sua prima fase, a quella che il Duce ha definita sindacale; non gli si chieda di dare tutti i suoi frutti prima che i suoi organi sien formati o, se la frase accontenta di più i desideri di battaglia, prima che le sue armi sien del tutto affilate.
Ogni cosa a suo tempo. Quel che importa si è, che ognuno lavori, con onestà e con fede, per questo tempo, che, ormai, è prossimo; ognuno, come può e come deve; l'artista, partecipando, con sempre maggiore consapevolezza, fuori della sua eburnea torre, all'opera di ricostruzione e di rieducazione politica; il politico, sempre più rinunziando ai compromessi del giorno per giorno, per l'impostazione e la risoluzione di quei sommi problemi dello spirito, che danno alle Nazioni un primato durevole.

Roma, 20 gennaio VII [1929]
GIUSEPPE BOTTAI