ERMANNO WOLF-FERRARI

LA REGOLA, L'ANTIREGOLA
(E IL DIABOLUS IN MUSICA)

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Una regola che si riferisca a un caso solo è inconcepibile.
Essa vuole regolare classi intere di casi. Ma due casi uguali non si ripetono mai. Non vi sono mai due accordi di do maggiore identici; perchè, in musiche diverse, si troveranno in contesti diversi e quindi in virtù delle relazioni diverse avranno diverse funzioni.
Rigorosamente, dunque, una regola non si può mai seguire. Nei secoli passati, in tutti i campi, si credeva assai alle regole. Su tutto si escogitavano e pubblicavano precettistiche. Dopo la rivoluzione francese la cosa cambiò. Il discredito delle regole divenne man mano generale e di moda, ossia si considerava «moderno» chi si vantava di screditarle. Nacque così il sanculotto dell'arte. Positivamente espresso, cio significa che nei tempi nuovi divenne sempre più viva la coscienza dell'impossibilità di adeguare il bello a precetti o regole. Da ciò la sempre maggiore indipendenza dei compositori verso le stesse e la libera ricerca da parte dei pensatori sulla natura genuina del bello in sè, ricerca che portò a studiare le musiche di tutti i tempi e paesi, suscitando così una critica storica quale prima non esisteva. Questi sono beni. Potranno, col tempo, affinarsi e venir posseduti sempre più: ma non più andar perduti. Non è certo ammissibile che prima d'allora il rapporto vero tra bellezza e regola fosse affatto sconosciuto; ma era più sentito che pensato.Non si ha, p. e., in Bach l'impressione che egli si ribelli alle regole, tanto è semplice e onesto il modo con cui lo fa, quando lo fa.
Si sente che viveva in tempi nei quali alle regole ancora si credeva; tanto che si confondevano regole e princìpi eterni. Si osservi come egli, nell'Aria del tenore della Cantata N. 97 canti con effusione dolcissima la gioia dell'obbedire ai precetti di Dio; poi, come la stessa gioia egli provi nel consenso all'idea di autorità terrena nella Ratswahlkantate N. 119 (anno 1723) dove scioglie un inno ai nuovi reggenti della città di Lipsia, inno che sembra acclamare non un consesso di consiglieri comunali, ma di dei! Tanto era il suo amore dell'ordine, sentito come simbolo di perfezionamento morale! Anche in Mozart, nel quale pure, come uomo che sentiva avvicinarsi i tempi della rivoluzione, covava la ribellione, si trova bensì il musicista libero, ma non mai una nota che sembri volutamente rivoluzionaria. Ciò non si trova prima di Beethoven, dell'uomo che visse, idealmente, da repubblicano, e sofferse per Napoleone Imperatore e non più Console.
Haydn muore nel 1809; nel 1829, attraverso gli ultimi Quartetti e la Nona sinfonia di Beethoven, siamo già alla Fantastica di Berlioz. Vent'anni soltanto! Il salto è enorme. E sedici anni dopo (1845) siamo al Tannhäuser! Quattordici anni ancora (1859) e siamo al Tristano, cinquant'anni dopo la morte di Haydn! Addio regole!
Il dramma di questa crociata contro le regole si rispecchia nei Maestri Cantori, dove già se ne fa oggetto di riflessione. Il rappresentante della regola senza genio, Beckmesser, vi è messo in ridicolo nel modo più crudo; quello della genialità ignara di regole, Walter, su un piedistallo di gloria. Ma perche sarebbe stato troppo contradittorio il concetto di un genio senza studio affatto, e sovrumano o preumano un artista raffinatissimo, come Walter che sapesse la musica così come la sanno gli uccelli, Wagner gli fa dare una lezione da Hans Sachs, presentendo il pericolo che dal fanatismo della rivoluzione per la rivoluzione potesse sorgere una nuova sorta di pedante a sventolare la bandiera anarchica di chi si crede genio solo perchè non ha mai voluto studiare. Per cui Hans Sachs, ad impedire l'avvento di questo nuovo Beckmesser dalla posa genialoide, è costretto a parlar di regole von Walter e, quando questi gli chiede «come debba cominciare secondo le regole», a rispondergli così: «Stabilitele voi stesso e poi seguitele». Questo, dunque, il risultato teorico, secondo Wagner, di cinquant'anni di lotta contro le regole. Avremo occasione di riparlarne.
Questa lotta, che prese il nome di romanticismo, si svolse in Francia e in Germania. Nell'Italia musicale le ripercussioni vennero tardi. Ma, per compenso, furono violente e come improvvise. Leggendo le lettere di Verdi, si ha l'impressione che si tratti di una inondazione irresistibile. In effetto troppa musica, frutto di sviluppi altrui, ebbra ed inebriante si scaraventò sull'Italia musicale semplice e casalinga, ignara persino se dovesse resistere o no. Fu un cataclisma. Il disordine fu anche maggiore per il fatto che l'Italia venne a conoscere questa musica non nell'ordine in cui storicamente, era nata, ma a rovescio. Era il caos che Verdi constatava. La sua amarezza derivava anche dal fatto che egli aveva una coscienza chiarissima del valore puramente relativo delle regole, per cui non sentiva il bisogno di ribellarvisi, non essendo egli un pedante e tenendo in fondo riguardo ad esse il contegno prerivoluzionario: sapeva, insomma, troppo bene «che cosa si può insegnare e che cosa no». E come lui pensavano gli italiani non più giovani di allora. Rivoluzionari alla straniera erano invece i giovani, i quali non trovarono di meglio, per il momento, che dir male della musica italiana. Verdi non è stato mai rivoluzionario. Se usò nuove «forme» dall'Aida in poi, non fu lui ad «innovarle», appunto perchè sapeva che la vera Forma è frutto di ispirazione, e nessuna «forma», o meglio «formula» può esserle d'impedimento. Un sonetto non e geniale perchè è di quattordici versi. Nè un poeta è geniale per il solo fatto di non sapere scrivere un sonetto! Verdi aveva buon senso e ciò gli bastava. E perchè lo aveva, non poteva soffrire gli impotenti complicati: i «critici che la fanno da apostoli», come diceva lui. E per la stessa ragione riconosceva quel tanto di valore che pur hanno le regole. Come Wagner-Hans Sachs. Anche in linea morale sappiamo benissimo, che uno può essere una gran canaglia pur restando nei limiti delle leggi (regole), e non incappando mai nel codice penale. Ma si potrebbe perciò forse vivere un'ora sola senza le leggi?
Se l'uomo ne produce sempre e necessariamente, vuol dire per lo meno che l'anarchia non pare sia garanzia di moralità. E se è così nel campo delle azioni umane, l'analogia con quello dell'arte deve esistere. Le regole non garantiscono la bellezza, ma devono avere certamente la loro utilità.
Tanto la produzione di regole è inevitabile perchè necessaria, che errori veri, nati dalla mischia antiregolistica, furono innalzati a regole proprio da quei Beckmesser alla rovescia, pedanti camuffati da geni, scamiciati vitrioleggiatori della musica per amor della musica, che furono tanto odiati da Verdi e irrisi da Wagner!
Prima dell'ottocento le regole della musica erano semplici regole del «mestiere»: le parti devono condursi così e così; la fuga è così e così ecc. ecc.; aiuti pratici, derivati dalla pratica dei compositori insegnanti oralmente, raramente fissati in trattati scritti.
Nascevano, si svolgevano, mutavano come mutano le leggi, secondo necessità.
Prima il tentativo, poi poco a poco la regola derivata da quello, per aiutare la produzione futura. Si veda come, per es., il melodramma, da prima quasi amorfo a Firenze, acquisti man mano delle «forme» a Venezia, per venir poi «regolato» del tutto a Napoli. Prima la vita, poi la legge; e quando questa minacciasse di uccidere la vita, la legge si evolveva senza necessità di «rivoluzioni». Quando venne l'invasione, che spiaceva a Verdi, in Italia il rapporto tra le «leggi» e l'ispirazione musicale era ancora di questa sorta, patriarcale, ingenuo. Ma una volta urtatasi colla musica antiregolistica era impossibile che questa ingenuità durasse.
Bisogna decidersi; e Verdi si decise. Non così gli altri italiani, che seguirono la corrente impetuosa; perchè non erano più i musicisti a creare semplici regole del mestiere, ma tutto il mondo dei dilettanti e dei critici a dettare degli ucase che proclamavano «estetici».
La ricerca filosofica seria sul concetto dell'arte in sè continuava intanto; i musicisti stessi erano sedotti da questo bisogno di rendersi conto anch'essi di ciò che fosse l'arte nel tutto della filosofia, e scrivevano i loro pensieri o tentativi di pensieri in proposito. Anche Wagner aveva scritto, più per chiarire le proprie idee che per comunicarle agli altri.
Ma occorreva sapere che questo era lavoro filosofico e non da artista, e ciò non sempre era avvertito da lui stesso che scriveva, e da chi leggeva. Tutti, incoscientemente, benchè nemici giurati della regola, cercavano la regola e, peggio, la ricetta, trasformando le scoperte estetiche, se c'erano, in «precetti» con cui comandare all'avvenire, non più quali semplici maestri di musica, ma come profeti. Le regole nate dalla confusione di arte e filosofia non erano più una specie di culinaria musicale, ma atti di verità indubitabile, ispirazione essi stessi: tirannia completa. Altro che regole!
Quale confusione! La teoria della musica deve necessariamente seguire la musica, come ripensamento di questa: ne si può riflettere su ciò che ancora non c'è. Successe così la perversione, per cui il raziocinio volle dettar legge alla musica ancora da nascere. Il raziocinio voleva comandare all'arte.
Si capisce bene che i meno sofferenti di questo strazio, anzi i più petulanti, fossero quelli che non erano musicisti nati.
Wagner non vinse per le sue teorie, ma perchè, quando scriveva musica, le dimenticava amorosamente e s'abbandonava all'ispirazione che la sua natura gli dettava. Si pensi al Quintetto dei Maestri Cantori e ai Cori del Parsifal, che secondo le sue stesse teorie egli avrebbe dovuto proibire. Ma il Wagner che riflette sull'arte non è il Wagner che compone: questi un immenso artista, quello un artista che filosofeggia. Non basta: anche dal pensamento storico questi nemici della regola traevano regole per tiranneggiare l'avvenire.
Dal passato, visto naturalisticamente, secondo il momento positivistico che si andava passando, si traevano «leggi», e queste venivano, per analogia, proiettate verso il futuro, per tiranneggiarlo ancora. Inoltre: procedimenti armonici e strumentali nati per ispirazione di grandi artisti (Wagner specialmente) diventavano modelli, recipe, regole insomma, obbligatori per tutti, massime per quelli ignari affatto dell'ispirazione, per non essersi mai incontrati con essa. Oggi, a distanza di tempo, vediamo che nessuno, allora, si è salvato. Tutti scomparsi, meno Verdi che aveva capito cosa succedeva.
E dopo la morte di Wagner e di Verdi ci furono ancora dei suicidi? Pare di sì. Ci si suicidò alla Strauss; poi alla Debussy. Ora ci si suicida alla Strawinskj. Come mai anticamente, un Gabrielli andava a imparare da un Willaert,un Orlando di Lasso in Italia, uno Schütz da Monteverdi, un Bach un po' da tutti, e nessuno ne moriva, ma anzi vi si ritemprava? Perchè allora dai Maestri si imparava ed ora ci si avvelena? Da che la differenza?
Che sia proprio Hans Sachs a darci la risposta? «Stabilite voi stesso le regole e poi seguitele». Sarebbe forse il caso che le regole stabilite da un singolo artista non possano servire che per lui solo, e siano veleno per altri che si mettano a seguirle? Anche anticamente i maestri, oltre alle regole riconosciute da tutti, ne avranno certamente avute, più o meno saputamente, delle altre, derivate dalla propria pratica, personali; ma avevano anche quelle. Quale ne era l'utilità? Se ora non ce n'è più, se la produzione naturale, spontanea, ingenua, direi, di regole create un po' da tutti, valide per comune consenso, semplici, francamente soltanto utili, del mestiere, senza pretese di essere valori estetici non avviene più, che cosa abbiamo perduto?
Abbiamo perduto la lingua musicale, da tutti intesa, nella quale ciascuno possa dire quello che ha da dire, per essere inteso, non per non farsi capire creando una lingua a modo suo. Abbiamo perduto la grammatica musicale, confondendo la verità che la grammatica non è la poesia, coll'assurdo che basti essere sgrammaticati per essere poeti. Perciò si va a tentoni, pur gridando parole gonfie di vento. Il Caos di Verdi si chiamerà oggi «Torre di Babele», ma sarà la stessa cosa. E perché ciò potè accadere in arte e non accadde anche nella vita pratica? Anzi tutto bisogna riconoscere che accadde. Se non fosse venuto il Fascismo a far rivivere il senso della disciplina, la Torre di Babele ci sarebbe stata anche nel campo e pratico. Ma il male è che in arte i danni non sono mortali. Se un ingegnere fa un ponte che, cadendo, uccide delle persone, lo si mette in prigione; un gangster musicale può commettere dei delitti molto peggiori senza che nessuno lo castighi; anzi, dato il caos, troverà sempre qualcuno che lo dichiarerà «innovatore» o genio, non comprendendo nulla di musica. Nella vita pratica ad un disordine segue sempre il nuovo ordine, perchè senza leggi l'uomo non può vivere. Il castigamatti non può mancare. In arte il disordine pare che possa durare assai lungamente. Ma non sarà eterno neppure qui; e questo sia detto, quantunque non possediamo esperienze in proposito; poichè oggi è la prima volta che, in arte, lo sfrenato e malinteso individualismo arriva alle sue vere orgie, rumorose e sciocche.
L'individuo che conta in arte è quello ideale, quello dell'uomo in quanto cantore dell'io profondo, universale, che non gli appartiene, ma a cui egli anzi appartiene; non l'individuo privato, il signor «tal dei tali» col suo odorino personale e i suoi capricci che non interessano nessuno. E come nella pratica, appunto perchè vita, si creano necessariamente e non per capriccio leggi scritte e costumanze da tutti osservate, cosi è probabile che sia anche in arte, in tempi di salute. Se osserviamo l'arte antica, sentiamo che è così. Palestrina, Marcello, Händel, Bach, Pergolesi, Cimarosa, Mozart non si esprimono come il signor tal dei tali, di cui tu senti l'alito, perchè, attaccandoti un bottone, ti parla troppo da vicino. Quel maestri sono tutti differenti tra loro, perchè individui; ma sono più del tale che ti parla sono individui dai quali parla l'umanità; tu li ascolti col cappello in mano. Forse perchè seguono delle regole? No certamente: ma quelle regole li hanno tuttavia abituati, quando ancora studiavano, alla disciplina; e chi è abituato ad obbedire a una disciplina esteriore è sulla buona strada per obbedire, più tardi, a ciò che «detta dentro», che è una disciplina interiore assai più severa.
Forse che le regole della buona creanza insegnano la gentilezza vera, quella del cuore? Direttamente no; ma, infrenando la base bruta dell'uomo, lo mettono sulla buona strada. Non si sentirà libero mentre sta ancora imparando? Meglio! Vuol dire che comincerà a distinguere la libertà, che è umana, dalla natura, che, nell'uomo, è bestiale. Verrà il giorno della liberta' vera, e allora non rinnegherà la «creanza», ma la assorbirà nella gentilezza del cuore. In musica, oramai, per mancanza di disciplina, siamo arrivati al punto che vi sono degli «artisti» i quali si comportano, in arte, in modo così sconcio, pur non dicendo nulla, che se si comportassero nella stessa maniera fra persone civili, verrebbero messi alla porta. Chi mai, per dimostrare di essere persona libera, sente in società il bisogno di levarsi i calzoni?
L'uomo in puris naturalibus non è mai esistito. Anche i cannibali hanno delle regole sul modo di comportarsi. L'uomo «naturale» - che sarebbe l'uomo anarchico - e un astrazione morta, come tutte le astrazioni, e nasce dalla confusione di questa con l'idea dell'uomo ideale. L'uomo veramente naturale è regolato.
Dunque?
Dunque vi sono i Conservatori e i maestri che vi insegnano.
Distinguano questi in se stessi l'uomo che riflette sulla musica dal musicista. Quest'ultimo soltanto insegni la vera musica; l'altro, se mai, si limiti a insegnare la riflessione sulla musica, che si chiamerà estetica, e distingua sempre le due cose, onde evitare il diabolus. Se rinuncerà affatto all'estetica, nulla di male: l'artista ha bisogno del raziocinio solo per allontanare dall'arte tutto ciò che non ha a che fare con essa. Il raziocinio, in musica, è sterile. La musica la insegni soltanto il musicista. E, anche come musicista, l'insegnante distingua l'arte dalle sue regole. Si insegnino queste: applicandole praticamente, l'allievo si avvierà già verso l'arte. Quella che conta, intanto, è la disciplina in se. Oggi chi insegna (lo so) si vergogna quasi delle regole che insegna; gli pare di non essere artista facendo questo; ci tiene a dimostrare all'allievo (che non chiede di meglio, per svagarsi e credersi artista prima di aver imparato qualche cosa) che la pedanteria gli dispiace, che è artista vivo e moderno. Ha torto. Dimostrerà di essere artista vivo, se lo è, colle sue composizioni musicali. Più l'allievo è nato artista, e più gli sarà grato un giorno se lo avrà fatto soffrire colle sue «pedanterie». Quando un giorno sarà divenuto artista completo, vedrà che «ciò che detta dentro» è un maestro ben più inesorabile, di chi gli insegnava le antipaticissime regole di conservatorio.
Quelli che dicono male del maestro, se l'hanno avuto severo, sono i mancati, i Beckmesser alla rovescia, gli epilettoidi della pseudolibertà. Verdi scriveva: «Ho ragione di credere esservi nei nostri istituti musicali studi che dovrebbero essere severissimi e sono mal fatti, che si perde un tempo, che riesce alfin fatale, ad insegnare quello che non si può insegnare, a ridurre l'arte a sistema, e collo scopo (scopo che conoscono meglio gli uomini che creano) di cacciare mali che veramente esistono, ma creandone dei nuovi che sono peggiori e più perniciosi. È una cosa strana la lotta che esiste fra gli uomini cosidetti di scienza, e quelli che fanno (lotta senza frutto per l'indifferenza dei secondi, e per la petulante ostinazione dei primi); ed è ancora più strano il vedere che tutte le nostre grandi sommità del secolo non sono quasi mai figlie di Conservatorii». In un'altra celebre lettera al Florimo dice, riguardo al come avrebbe desiderato che fosse il nuovo Direttore del Conservatorio di Napoli: «Auguro troviate un uomo dotto sopratutto e severo negli studj. Le licenze e gli errori di contrappunto si possono ammettere son belli talvolta in teatro: in Conservatorio, no. Torniamo all'antito e sarà un progresso ». Chi non conosce questa frase?
Ma chi l'ha seguita? In un'altra lettera a Giulio Ricordi del 26 Dic. 1883 scrive: «È vero che io ho detto: torniamo all'antico, ma io intendo quell'antico che è base, fondamento, solidità: io intendo quell'antico che è stato messo da parte dalle esuberanze moderne, ed a cui si dovrà ritornare presto o tardi infallibilmente. Per ora, lasciamo che il torrente straripi. Gli argini si faranno dopo».
Non sarebbe ora di farli? Il diabolus in musica può essere più petulante di quanto si è dimostrato fino ad oggi?
E chi è, in definitiva, il diabolus in musica attuale? È quel molteplice povero diavolo (povero, ma perniciosissimo) che, piena la testa di astrazioni come: modernismo, avvenirismo, progressismo o altro «ismo» che si voglia, con le quali si è baloccato per non darsi la pena di studiare, di disciplinarsi, ha disseccato la fonte (se c'era in lui) di ciò che detta dentro; e fabbrica, invece di crear musica, dei clangori senza senso, per stordire gli altri e se stesso, sperando nei fischi, che gli diano l'apparente diritto di atteggiarsi a vittima dell'incomprensione, e di vituperare qualsiasi musica bella, come cosa «passatista» e risibile: lui, il nuovo Beckmesser, il pedante dell'antiregolistica. E ciò che lo rende diabolus, è che egli sa tutto questo e finge di non saperlo.