ELVIO GIUDICI

WOLF-FERRARI IN ITALIA OGGI

 

Qui da noi, oggi, Wolf-Ferrari è poco più di uno sconosciuto: eppure, attraversò un periodo di grande fortuna negli anni antecedenti la prima guerra mondiale. Figlio di August Wolf, rinomato pittore bavarese, e di Emilia Ferrari, gentildonna veneziana, Ermanno fu un bambino prodigio che divideva i propri talenti tra pittura e musica benché, a tredici anni, la fatidica visita a Bayreuth sconvolse puntualmente anche lui, al pari di tanti altri giovani di quei tempi. Si volse dunque alla musica, prima frequentando il severo conservatorio di Monaco e poi diventando amico e discepolo di Lorenzo Perosi: e fu la musica sacra a introdurlo nel novero dei compositori, con l'oratorio «La Sulamite» - tratto dal «Cantico dei Cantici» - cui fecero seguito diversi altri lavori del genere, tutti salutati con crescente ammirazione. Ammirazione e stima che gli valsero la nomina a direttore del conservatorio Benedetto Marcello di Venezia.
All'opera si era già awicinato nel 1900 con una «Cenerentola» che ebbe esito incerto a Venezia ma riscosse poi grande successo a Monaco, città destinata a diventare il suo palcoscenico d'elezione, quello dove le sue opere buffe - composte nell'arco di trent'anni - non uscirono mai completamente dal repertorio. Nell'orchestra di Wolf-Ferrari circolano evidenti richiami a Wagner, spesso filtrati attraverso la fiabesca sensibilità del suo epigono Humperdinck, così come certe evocazioni atmosferiche hanno un tangibile profumo debussysta: e questo, ovviamente, era ed è tuttora molto gradlto alla cultura musicale bavarese.
Però è altrettanto indubbio come l'umorismo sottile e frizzante di certe pagine, la generale patina di leggerezza e ariosità che nella sua musica scintilla luminosa per ogni dove, evidenzino - una personalità autonoma e compiuta, così come perfettamente riconoscibile è l'atmosfera disincantata, ironica e affettuosa a un tempo, evocante con prepotenza l'aria di Vienna, le cui folate non potevano mancare di giungere in quel e grande crocevia culturale che era Venezia, dove andavano a mescolarsi - ma non ad annullarsi - con la vocalità più distesa e solare propria dell'opera italiana: e forse è per questo che, una volta tramontata la stella asburgica, nel profondo mutare di quella civiltà e soprattutto nel complelo svanire della sua particolare atmosfera anche l'ironica e gentile musica di Wolf-Ferrari sembrò irrimediabilmente fuori moda.
Le sue deliziose opere buffe, difatti - che costituiscono l'essenza del suo teatro, visto che la momentanea adesione al verismo col trucibaldo «I Gioielli della Madonna» rappresentò una caduta del tutto isolata ed episodica - sono purtroppo da tempo sparite dai cartelloni italiani, salvo sporadiche presenze a Venezia e a Trieste. Ed è un peccato, perché oltre a essere d'ascolto piacevolissimo, rappresenterebbero - non appartenendo al repertorio temibile delle opere di largo consumo - una stimolante scuola di civiltà vocale per giovani interpreti, costruite come sono attraverso il garbo di un fraseggio sottile, fatto d'arguzia e di allusioni, di dolci abbandoni, di slanci giovanili e di aristocratiche melanconie.
Tutte cose esprimibili solo attraverso un canto d'alta scuola: la loro apparente semplicità richiede bella voce interpretazione attenta, disinvoltura scenica e di fraseggio, ma soprattutto ottima tecnica, giacché sono parecchie le pagine che mettono impietosamente alle corde uno sprovveduto. Tutte cose inoltre, che insegnano in modo insostituibile le astuzie e le infinite possibilità del palcoscenico: qualità che vanno rare facendosi a velocità sempre più preoccupante.