SERGIO SABLICH

BUSONI PIANISTA E TRASCRITTORE

[Busoni, EDT, pp. 74-108]

Sergio Sablich fu sempre molto cordiale e generoso nei confronti del curatore di questo sito. Mai pose un veto alla pubblicazioni di parti del suo volume imprescindibile su Busoni, perché esaurito e sicuramente mai più ripubblicato. Per questo motivo, alla sua memoria, verranno proposte a chi non ha mai avuto la possibilità di conoscere questo straordinario volume pagine ricche di informazioni, riflessioni, interpretazioni sulla figura di Ferruccio Busoni. E di tanta passione per la ricerca.

A Londra, un critico chiese a Busoni quale fosse la sua professione. «Io sono un musicista, come certo saprà», ribatté Busoni. «Oh sì, naturalmente; ma, voglio dire, quale strumento suona in particolare?». Questo accadeva nell'autunno 1897, durante la prima tournée in Inghilterra. Busoni confidò alla moglie di sentirsi «un po' depresso da questa sensazione di dover ricominciare sempre dal principio, un Sisifo dei debutti» [1]: aveva passato i trent'anni, vantava una lunga carriera di concertista militante, ma ogni nuova apparizione pubblica, ogni nuova tappa in paesi o città sconosciute seguiva un rituale penoso, poco importa se immancabilmente concluso da successi trionfali, e indimenticabili. Quando Busoni ritornò a Londra l'anno dopo nessun critico, anzi nessuno che l'avesse udito suonare, avrebbe più osato chiedere quale fosse la sua professione.
Ma Busoni non si considerò mai, di professione, soltanto un pianista: «I am a musician!», aveva infatti risposto in quella occasione. E in altre ancor più spiacevoli situazioni aveva reagito con amarezza, talvolta con sarcasmo, talaltra con fine ironia [2] su quella «existence de saltimbanque» che lo costringeva a far mostra di sé in pubblico, a dare agli altri un'immagine che corrispondeva solo in parte a quello che sentiva di essere e che realmente era: un musicista completo e impegnato su fronti distinti ma complementari. Per lunga parte della sua vita soffrì, ora in silenzio ora protestando con veemenza, dell'esser considerato solo un fenomenale virtuoso, e non per esempio un interprete altrettanto grande, o un compositore attivo. Eppure al concertismo non rinunciò finché poté, e non solo per ambizione o per il guadagno materiale, che pur gli era indispensabile; e quando fu costretto a farlo non ebbe pace, arrivando perfino a rimpiangerne i riti («Dopo tutto, sono un cavallo da circo!»). Anche qui lacerazioni e contrasti, contraddizioni e paradossi, affiorano come punte di un iceberg che nasconda la verità insondabile di una figura umana e artistica eccezionale. Ma quale verità?
Quando Stuckenschmidt dà il titolo di «Virtuoso suo malgrado» [3] alla sua stimolante ricognizione di Busoni pianista, enfatizza un luogo comune che rischia di alterare una prima verità elementare. Poiché se è vero che il pianismo in Busoni fu soltanto una faccia della poetica del comporre e del creare (comporre musiche di, da e sopra altri autori in veste di revisore, trascrittore e rielaboratore di opere pianistiche; creare egli stesso opere per il pianoforte, come ultimo erede di una lunga tradizione e allo stesso tempo convinto assertore di nuove possibilità tecniche ed espressive dello strumento), non va dimenticato che quella poetica, e i suoi molteplici effetti, sarebbero stati impensabili senza l'impulso incessante di un'aspirazione concertistica mai appagata, vissuta come necessaria via, lastricata di fatica e sudore, alla verifica e alla perfezione. Busoni fu anzitutto un pianista e un virtuoso per vocazione, nato per suonare il pianoforte, e che si realizzò in una quasi completa incarnazione, spirituale e fisica, nello strumento «malfamato ma unico». Seguendo il paradosso di Shaw, si potrebbe addirittura affermare che il resto fu soltanto un di più.

Busoni sommo pianista, principe del pianoforte. Dallapiccola ha narrato un aneddoto bellissimo a questo riguardo:

Non dimenticherò mai il vecchio accordatore della Casa Steinway di Amburgo che, venuto ad accordare il mio pianoforte, anni or sono, mi raccontò di aver fatto quattro tournées in Russia con Paderewski e non so quante con Emil Sauer, e con Moritz Rosenthal, e con mille altri. Gli domandai se, per caso, avesse lavorato anche per Busoni. Al che mi rispose: «Ma noi stavamo parlando di pianisti, di grandi pianisti. Busoni era un principe» [4].

Su ciò, tutte le testimonianze di chi ascoltò Busoni concordano, come concordano nel tentare di restituirci almeno in parte il fascino immenso che lo circondava quando sedeva al pianoforte. Gisella Selden Goth ricorda la «calda ebbrezza che emanava dalla alta, snella, incanutita figura davanti al pianoforte. Seduto come inchiodato sulla sua panca, la sua faccia sembrava trasfigurata nella beata immobilità di chi sa di aver raggiunto la perfezione. Indimenticabili le mani elastiche e nervose che scorrevano, volavano, cantavano sulla tastiera, indimenticabile il fluido estatico che dal podio si diffondeva sopra le moltitudini affascinante» [5]. E Bruno Götz:

Quelle che udivo non erano più le stesse opere, erano eteree visioni sonore che trasparivano da queste opere, così come i Maestri che le avevano create potevano averle concepite dentro di sé, prima di mettere su carta quel che avevano percepito nel loro intimo... Sia dal punto di vista tecnico che da quello musicale, egli le rendeva con fedeltà assoluta. Pure, senza curarsi affatto di tutte le usuali tradizioni esecutive, le ricreava come se provenissero nuovamente dalla sorgente originale; ed esse apparivano nuove e sconosciute, quasi che risuonassero per la prima volta [6].

E ancora Zweig:

Fin dalla giovinezza lo avevo amato più di ogni altro virtuoso del pianoforte. Quando suonava, i suoi occhi assumevano una meravigliosa luce di sogno. In basso le mani creavano senza fatica la musica perfetta, ma su in alto la bella testa spirituale, lievemente gettata all'indietro, ascoltava ed assorbiva la musica creata. Sembrava si operasse in lui una specie di trasfigurazione. Quante volte durante i concerti avevo fissato quel suo volto luminoso, mentre le note mi penetravano nel sangue con molle turbamento ed insieme con argentea limpidezza! [7]

Il fiume delle testimonianze potrebbe scorrere all'infinito, anche per regioni poeticamente meno fonte. Ad Alfredo Casella destiniamo in questo volume uno spazio privilegiato, riproponendo in appendice quell'acuto saggio su Busoni pianista da lui pubblicato nel 1940 sulla rivista «La Rassegna musicale»: quadro affascinante e insuperato, dipinto da chi di Busoni fu fervente ammiratore e amico, e poi ideale continuatore in campo didattico [8].
Abbandonato così il regno delle memorie e dei ricordi, nell'impossibilità di seguire le tracce dirette della lezione di Busoni oggi che i suoi allievi sono morti, ricercheremo altrove le ragioni di un mito che trascende l'epoca stessa in cui nacque, un'epoca che pur produsse pianisti come Alfred Reisenauer, Emil Sauer, Eugen d'Albert, Moritz Rosenthal (tutti allievi di Liszt) e Ignacy Jan Paderewski. E incominceremo perciò da molto lontano.

Fra i numerosi scritti di Busoni sul pianoforte, non sono molti quelli che si occupino di problemi tecnici in senso stretto. Busoni si mantiene fedele alla affermazione con cui si apre la recensione al trattato 'Die natürliche Klaviertechnik' (La tecnica naturale del pianoforte) del didatta Rudolf M. Breithaupt: «chi possiede il talento necessario a produrre qualcosa di eminente nel campo di un'arte raggiunge questo scopo foggiandosi una teoria sua propria: una teoria tale da mettere in valore le proprie capacità ed eliminare i propri congeniti difetti.» [9]
A questo riguardo, il suo pensiero appare in tutta chiarezza in uno scritto del 1910, Ciò che si richiede dal pianista: «No, la tecnica non è e non sarà mai l'alfa e l'omega dell'arte pianistica, e nemmeno di qualunque altra. Tuttavia, com'è naturale, ai miei scolari prèdico: fatevi una tecnica, e di fondamenta solide. Per formare un grande artista si devono realizzare molteplici condizioni, e appunto perché questo è dato solo a pochi un vero genio costituisce una tale rarità» [10] . Così, la tecnica «non sta solo nelle dita e nei polsi, oppure nella forza e nella resistenza: la più grande tecnica risiede nel cervello, si compone di geometria, valutazione delle distanze e disposizione sapiente. Ma anche con ciò siamo appena al principio, perché alla vera tecnica appartiene anche il tocco e soprattutto l'uso del pedale» [11]. Fra le qualità necessarie per formare il grande artista Busoni enumera, in crescendo, «intelligenza non comune, cultura, vasta educazione in tutte le discipline musicali e letterarie e nelle questioni della vita umana, carattere, sentimento, temperamento, fantasia, poesia, magnetismo personale, presenza di spirito e autocontrollo». Solo per concludere: «Dovremo ancora aggiungere il senso della forma, dello stile, la virtù del buon gusto e l'originalità? Come elencare tutto ciò che si può richiedere? Ma prima di tutto si tenga presente una qualità essenziale: Colui per la cui anima non è passata una vita non dominerà mai il linguaggio dell'arte» [12]. Come si intuisce, Busoni sta parlando di sé.
Più istruttive e concrete sono quelle Regole per gli esercizi del pianista che Busoni sottopose all'attenzione della moglie in una lettera da Berlino datata 20 luglio 1898 [13]. In dodici punti Busoni fissa sulla base della propria esperienza le leggi fondamentali dello studio del pianoforte, sotto un profilo sia tecnico sia psicologico e interpretativo. Partendo dal presupposto che «sul pianoforte tutto è possibile, anche quel che ti sembra impossibile o che lo è realmente», Busoni suggerisce: «Studia il passaggio con la diteggiatura più difficile; quando sei arrivato a dominarlo, allora suona con quella più facile». E subito dopo: «Non ti irrigidire a voler vincere dei pezzi che hai studiato male in altri tempi e che perciò non ti riescono; per lo più è lavoro buttato. Ma se nel frattempo hai cambiato completamente il tuo modo di studiare, riprendi a studiarli dal principio, come se tu non li conoscessi affatto». Queste massime di Busoni denotano un radicalismo fondato anzitutto sulla massima semplicità.
Un principio teorico universalmente valido alla base del problema tecnico però esiste, e Busoni lo individua, prima ancora che nella facoltà ordinatrice e assimilatrice della mente, nella «obbedienza infallibile a due leggi di natura: quella delle funzioni musicali e quella dell'inerzia e della gravità» [14]. Particolarmente interessanti suonano due altre affermazioni: «che la mano debba formulare già in sé il disegno del passaggio (come il razzo l'arabesco pirotecnico che sta per produrre); - che suonare il pianoforte è complessivamente caduta e non sollevamento di pesi» [15]: ossia razionale applicazione della forza muscolare e delle sue leggi fisiche allo strumento, più in funzione della distensione, che permette il controllo sulla qualità del suono, che della tensione. In altre parole, forza e resistenza, velocità e brillantezza dipendono esclusivamente dalla corretta posizione di fronte allo strumento; e quest'ultima, a sua volta, dall'aver coscienza in ogni momento dell'impiego dei muscoli e degli arti e dal controllo, guidato dal cervello, delle loro funzioni di estensione e flessione. Un recente e singolare studio di Heinrich Kosnick, già allievo di Busoni, quasi un trattato della tecnica pianistica alla luce dell'esperienza busoniana, si sbilancia anche troppo in questa direzione: ma anche a non volerne condividere le drastiche conclusioni, è illuminante leggere che la grandezza «moderna» di Busoni risiede proprio nell'aver disciplinato la ricerca psico-fisiologico-anatomica relativa alla pratica e all'esercizio del pianoforte [16].

Ciò chiarisce naturalmente solo in parte la fisionomia di Busoni pianista, e vale per così dire come preambolo: ma la acuta modernità di Busoni si rivela già nella concretezza sistematica con cui affrontò questi problemi basilari dello studio e dell'apprendimento del pianoforte. Del resto, una carriera lunga e intensa come la sua sarebbe stata altrimenti impensabile, a meno di non volerla spiegare come un miracolo. Non fu un miracolo, ma una lenta, continua ascesa costruita solidamente passo dopo passo. Nel 1907, richiesto di dire la sua opinione sulla questione del suonare a memoria, affermò con risolutezza:

Vecchio concertista militante, sono arrivato alla persuasione che suonare a memoria permette una libertà d'esecuzione incomparabilmente maggiore [17].

Ed ecco poche righe dopo la spiegazione:

Ci sono degli artisti che apprendono lo strumento e gli elementi musicali come un tutto; e artisti che s'impadroniscono di singoli passaggi e di singoli pezzi, isolatamente.
Per questi ultimi ogni pezzo è un nuovo problema, che deve venir risolto faticosamente volta per volta; essi devono fabbricarsi per ogni serratura una nuova chiave.
I primi invece sono fabbri che con un mazzo di grimaldelli e di chiavi false penetrano e vincono in breve il segreto di ogni serratura. Questo si riferisce tanto alla tecnica quanto al contenuto musicale e alla memoria. Se si possiede, per esempio, la chiave della tecnica dei passaggi di Liszt, del suo sistema di modulazione, del suo sistema armonico, della sua costruzione formale (dove sta il crescendo? dove il punto culminante?) e della sua maniera espressiva, suonare tre o trenta dei suoi pezzi è lo stesso. E che questa non sia una frase, credo di averlo dimostrato [18].

Si arriva così alla conclusione:

Per chi ha la vocazione di suonare in pubblico, la memoria non è d'intralcio come non lo è, per esempio, il pubblico stesso. Ma colui per il quale suonare a memoria costituisce una barriera sarà esitante anche in tutto il resto. Il primo presenta la letteratura musicale agli altri, il secondo sceglie alcuni pezzi per presentare se stesso. Così la questione deve venir impostata in modo del tutto diverso: «dov'è il limite da cui comincia il diritto di suonare in pubblico?» [19]

Busoni si dimostra qui precursore del perfezionismo moderno, del metodo razionale applicato allo studio del pianoforte, senza tuttavia incorrere in quelli che sono i difetti del perfezionismo quando non sia posto al servizio degli scopi superiori della musica.
Detto questo, tutto il resto pertiene ad altre sfere: anzitutto alla sfera dell'interpretazione. Ai suoi tempi Busoni fu considerato uno straordinario, formidabile pianista, un fascinatore demoniaco, ma non altrettanto incondizionatamente un interprete sommo. Per lungo tempo il riconoscimento della critica rimase inversamente proporzionale al successo di pubblico, e ciò significa pur sempre qualcosa. Solo con la maturità, intorno ai quarant'anni, apparve chiaro quanto il suo modo di suonare fosse coerente con la poetica che via via si era venuta ampliando su più vasti piani di ricerca. Ciononostante le interpretazioni di Busoni, persino all'apice della sua evoluzione, ossia negli anni immediatamente precedenti la grande guerra, conservarono sempre un che di problematico, di ambiguo, di inappagante.
Storicamente egli visse in un'età in cui il concetto di interpretazione era ancor più nebuloso di come lo intendiamo noi oggi. Per noi, oggi, interpretazione è fedeltà al testo scritto, rigore critico e filologico, rispetto del verbo del compositore in un atto di libertà vigilata; ai tempi dell'infanzia di Busoni, per i romantici interpretazione significava anzitutto fedeltà sentimentale alle indicazioni poetiche e letterarie dell'opera o dell'autore, imitazione della maniera in cui gli autori stessi eseguivano la loro musica (Chopin e Brahms erano stati grandi pianisti, per non parlare di Liszt, che aveva creato una vera e propria falange di adepti e seguaci, tutti grandi virtuosi); insomma, ideale immedesimazione nell'ambiente e nel clima per cui la musica romantica era nata. Anche la musica dell'età classica doveva uniformarsi a quei criteri estetici: di qui lo stile cosiddetto monumentale, esempio massimo Anton Rubintein, che gonfiava in forza e dimensioni quella musica, soprattutto Beethoven, anche a costo di violentare la pagina scritta. Quando Busoni nel pieno della sua giovinezza si trovò a riflettere su questi problemi, dovette accorgersi di quanto il concetto di interpretazione fosse lato, e quanto per coglierlo intero si dovesse trascendere l'aspetto meramente esecutivo. Anche in questo caso egli fu il primo pianista della sua generazione a porsi criticamente di fronte al problema dell'interpretazione, e a tentare di risolverlo anche concettualmente.
Ciò avvenne naturalmente solo col tempo. All'inizio, Busoni cercò di uniformarsi all'immagine che da lui si richiedeva. Pur detestando profondamente la posa del divo, tipica in special modo degli allievi di Liszt (nel 1884, sull'«Indipendente», tracciò un ritratto memorabile delle stravaganze di Friedheim [20]), si affermò come il prototipo del pianista romantico, sia nel modo di presentarsi al pubblico, sia nel modo di suonare. Predilesse i programmi mastodontici, affrontati col piglio del dominatore, del virtuoso fenomenale cui tutto doveva riuscire meglio che agli altri, il passaggio acrobatico come il rubato di sicuro effetto. La libertà nella ricreazione della musica doveva essere totale: la pagina scritta era solo un indizio, l'esecuzione svincolata da ogni e qualsiasi costrizione letterale, in un'estrema variabilità di umori, da sera a sera, quasi che Busoni fosse stato mosso ogni volta dall'estro dell'improvvisazione (anche questo era un principio molto in voga nella seconda metà del secolo scorso, e doveva riuscire particolarmente fascinoso in un mostro dell'improvvisazione quale appunto egli fu). Solo a poco a poco egli si rese conto che interpretazione è anche altro, soprattutto altro, e che la vera libertà consiste nel superamento cosciente della costrizione: da allora, il suo modo di suonare cambiò alla radice. Il punto critico fu rappresentato da Beethoven, il cui arco creativo smisuratamente ampio (dal cuore dello stile classico alle soglie di una nuova era della musica) sfuggiva a ogni unilaterale definizione. Se l'inizio del cambiamento avvenne sotto il segno della grande arte di Bach, la conclusione fu una nuova maniera di accostarsi ai romantici, soprattutto a Chopin, e una fedeltà devota, assoluta, a Liszt.
Bach fu per Busoni maestro di arte e di vita. Fu Bach che rivelò a Busoni una verità fondamentale: nell'identità dello spirito, che oltrepassa i confini di passato, presente e futuro, la musica, qualsiasi musica, non è attingibile nella sua sostanza se non attraverso una ricreazione fatta di immedesimazione e distacco. Ogni creazione musicale è perciò ricreazione, è essa stessa «trascrizione»: come la notazione «è già trascrizione di un'idea astratta» [21], così anche l'esecuzione di un lavoro è una trascrizione, «e anche questa non potrà mai far sì che l'originale non esista - per quanto libera ne sia l'esecuzione. Perché l'opera d'arte musicale sussiste intera e immutabile prima di risuonare e dopo che ha finito di risuonare. È insieme dentro e fuori del tempo» [22].
Busoni dette forma a questi concetti nel 1910, con lo scopo precipuo di legittimare anche teoricamente il valore della trascrizione, delle sue trascrizioni. Ma, per quanto concerne l'interpretazione, essi sono fissati già nell''Abbozzo di una nuova estetica della musica', che è di tre anni prima:

L'esecuzione della musica proviene da quelle libere altezze dalle quali la musica stessa è discesa. Quando essa corre il rischio di divenire terrena, all'esecuzione spetta di risollevarla, aiutandola a ritrovare il suo originale «librarsi».
La notazione, la scrittura di pezzi musicali, è in primo luogo un ingegnoso espediente per fissare un'improvvisazione, si da poterla far rivivere in un secondo tempo. Ma tra quella e questa corre lo stesso rapporto che tra il ritratto e il modello vivo. L'esecuzione deve sciogliere la rigidità dei segni e rimetterli in movimento.
Invece i legislatori pretendono che l'esecutore riproduca la rigidità dei segni e considerano la riproduzione tanto più perfetta quanto più si attiene ai segni.
Quello che il compositore necessariamente perde della sua ispirazione attraverso i segni, l'esecutore deve ricrearlo attraverso la sua propria intuizione [23].

La terminologia non tragga in inganno. Ispirazione e intuizione non sono per Busoni parole vaghe e astratte, ma le leve concrete e coscienti in mano al vero artista per aprire le porte del misterioso regno dell'«eterna armonia», ove tutto risuona «intero e immutabile», e ricercarne così i rapporti più interni e più segreti. Tutto il passato esiste solo in quanto virtualità aperta al futuro: è la prima definizione di una catena eterna di definizioni; di conseguenza, interpretare significa estrarre, in un processo allo stesso tempo analitico e sintetico, e rendere con i mezzi del proprio tempo le virtualità nascoste nella pagina scritta; ricreare la realtà viva dell'opera musicale, consegnandola a una delle sue molte, infinite vite.
Non sorprende dunque che Busoni, scoprendo nuove possibilità espressive nel pianoforte sia come interprete che come trascrittore e compositore, rifiutasse energicamente l'etichetta di virtuoso. Non perché quell'etichetta gli ripugnasse (scrisse infatti nel 1910 in polemica col pianista e didatta austriaco Gottfried Galston: «Per elevarsi sul virtuoso bisogna prima essere un virtuoso: ciò a cui si mira è un di più, non qualche cosa di diverso. Si dice: 'A Dio piacendo, non è un virtuoso'. Si dovrebbe dire: 'Non è soltanto, è più che un virtuoso'.» [24]); ma perché appunto quell'etichetta gli andava stretta, e non rendeva che in minima parte il senso delle sue esecuzioni, delle sue «interpretazioni». Lo si era accusato sovente di voler «modernizzare» gli autori che suonava. Quando nel 1902, nella recensione a un suo concerto berlinese, Marcel Rémy lo attaccò pubblicamente sul «Courrier musical» di Bruxelles, di cui era corrispondente, Busoni ribatté:

Se crede ch'io abbia intenzione di «modernizzare» le opere che io suono, Ella parte da un presupposto falso. È il contrario. Nel ripulirle dalla polvere della tradizione, io cerco di farle «giovani» - tali, quali furono sentite nel momento in cui uscirono dalla testa e dalla penna dell'autore.
La 'Patetica', Sonata ai suoi tempi quasi rivoluzionaria, deve suonare «rivoluzionaria» - né si può mettere passione bastante nell'Appassionata, vetta dell'espressione passionale della sua epoca. Nel mio modo di suonare Beethoven io cerco di avvicinarmi alla libertà, alla nervosità umana, che distinguono le composizioni del Maestro in opposizione ai suoi predecessori. Mi faccio presente il carattere dell'uomo Beethoven, ho riflettuto a quello che ci si riferisce del suo modo di suonare; per questa via mi sono fatto un ideale, che erroneamente si definisce «moderno», e che in realtà non è se non «vivente» [25].

Vero è che il nodo della polemica (Rémy peraltro aveva apprezzato molto il pianismo di Busoni, con osservazioni assai limpide [26]) verteva sull'interpretazione del Preludio, Corale e Fuga di César Franck, che. Busoni aveva eseguito con qualche licenza. Quelle licenze non erano affatto rare nelle sue esecuzioni, e costituivano un altro ricorrente capo d'accusa. Busoni rispose che non si trattava di arbitrii gratuiti, ma della strenua ricerca dello stile personale proprio di un autore, fuori delle nozioni tradizionali di progresso o di età:

Io non posso convenire che Franck sia più moderno di Beethoven. E questo qualcosa che chiamiamo «moderno» esiste poi davvero? Per me ci sono soltanto spiriti grandi e piccoli, opere buone e cattive [27].

Lo studio del significato psicologico, oltre che formale, di un pezzo, si fondava sulla questione dei «mezzi necessari ad esprimerlo». Busoni aveva riscontrato inadeguatezze di scrittura perfino in Liszt, e ancor di più in Chopin, durante la sua opera di revisione su questi autori. Sul pianoforte moderno era necessario disporre la musica sotto le dita in modo adeguato, usando armonie ora strette ora piene e larghe, sfruttando tutte le possibilità di registro e di sonorità. In ciò Busoni, coerentemente con la sua poetica, vedeva un campo aperto alla sperimentazione. Nel caso di Franck, il suo lavoro era stato di rendere più concreto il senso dell'orchestrazione già implicita in quella particolare scrittura strumentale:

Una frase strumentata «fortissimo» si può suonare con dolcezza, ma non con molta forza un pezzo orchestrato «pianissimo». Si possono mettere le sordine alle trombe, ma non eroicizzare i flauti. Ne abbiamo un esempio nel Corale di Franck, dove si richiedono tre diversi livelli di sonorità senza che la realizzazione pianistica muti; credo di aver corrisposto all'intenzione del Maestro mutando io la «strumentazione» [28].

Ancora una volta Busoni si manteneva fedele al principio delle «virtualità da svelare nella continuità assoluta con la storia». Per suonare un pezzo nuovo, avrebbe scritto nel 1910 sempre a proposito di Franck, occorre «fabbricare la chiave che permette di entrare in questo nuovo compartimento. E tutto quello che vi appartiene diventa accessibile a sua volta» [29]. Ciò che prima valeva per la tecnica, è ora appannaggio dell'interpretazione.
Negli anni della maturità, Busoni accentuò fino all'estremo i caratteri propri di un pianismo teso a fare dello strumento un mezzo di espressione assoluto, vivente, portatore dell'idea compositiva sotto una luce parzialmente nuova. Da una interpretazione intellettualmente analitica, oggettiva, passò a una specie di impressionismo avvolto nel mistero, che richiedeva si percepisse la musica come una visione diretta in cui ogni dettaglio fosse interamente trasceso. Il progetto di un nuovo stile pianistico si affacciò prepotentemente nel periodo della maggiore fertilità creativa (1910-12), e ne accompagnò lo studio per il resto dei suoi giorni. Chi lo poté udire prima e dopo quegli anni ricavò l'impressione di un virtuosismo smaterializzato, alla ricerca di un suono orchestrale ora imponente ora dolcissimo, non più pianistico in senso stretto, come se si fosse trattato della trascrizione di musica pura per il pianoforte. I musicisti poterono ammirare sbalorditi la sua capacità di rendere i diversi piani sonori come una polifonia di voci o di registri, il cesello dei particolari che faceva risaltare ancor più l'insieme, il fraseggio delle unità musicali come l'ampio arco sotteso a tutto il discorso musicale. Hugo Leichtentritt, per esempio, indica nelle componenti architettonica e pittorica i connotati inconfondibili dello stile pianistico di Busoni:

Due direttrici apparentemente inconciliabili segnano questo miracolo di pianismo. Da una parte, esso scaturisce dal senso della monumentalità dello stile architettonico gotico, dei ritmi lineari nella loro compagine sottile, così come essi si scaricano sui singoli elementi architettonici, dai possenti, massicci pilastri fino alle figure ornamentali più graziose e fantastiche. Dall'altra, esso si nutre del sentimento per la raffinatezza di colori degli impressionisti moderni, in una tavolozza indicibilmente ricca di tonalità e di sfumature [30].

Fra i caratteri specifici di questa tecnica matura, numerose fonti dirette e indirette sottolineano anzitutto l'uso del pedale, a cui Busoni riconosceva possibilità immense:

Gli effetti del pedale sono ancora lungi dall'essere esauriti, perché sono rimasti tuttora schiavi di una teoria armonica gretta e irragionevole: il pedale si tratta come se si volessero ridurre l'aria e l'acqua a forme geometriche [31].

Approvò con entusiasmo, e sperimentò di persona, l'applicazione del pedale tonale, introdotto verso la fine del secolo dalla Casa Steinway, formulandone alcune possibilità d'impiego nella prima appendice alla prima parte del 'Clavicembalo ben temperato' [32]. Del resto, l'interesse per gli aspetti tecnici e costruttivi dei pianoforti della sua epoca rientrava in quell'auspicato arricchimento espressivo di tutti gli strumenti musicali che Busoni aveva invocato già in uno scritto del 1893 [33] (né si dimentichi a questo proposito che Busoni fu legato da stretta amicizia con i maggiori costruttori di pianoforti europei e americani, da Theodor Steinway a Friedrich Wilhelm Carl Bechstein a Ludwig Bösendorfer [34]).
Nonostante l'inesauribile varietà di sfumature nel tocco, che sovente riusciva a ottenere effetti timbrici di tipo orchestrale assai speciali (un dato, questo, evidente anche nelle trascrizioni e nelle opere originali, non ultimo nelle indicazioni dinamiche, agogiche ed espressive di cui son così ricche), nelle critiche dell'epoca, soprattutto per le sue interpretazioni dei romantici, incontriamo ripetutamente l'accusa che il pianoforte di Busoni non «cantava». Nello scritto Apprezzare il pianoforte [35] (1910), Busoni vide proprio nella «impossibilità di sostenere il suono» uno dei difetti più «evidenti, gravi e irrimediabili» del pianoforte (difetti ampiamente ricompensati dai suoi meravigliosi pregi e privilegi rispetto agli altri strumenti). La Selden-Goth, sulla base di colloqui avuti con lo stesso Busoni, ci aiuta a intendere come anche quell'impressione di apparente freddezza fosse il risultato di una scelta ben precisa e motivata:

Aveva anche riconosciuto che il concetto di un vero «legato» era contrario all'essenza degli strumenti a tastiera e quindi rinunziò a volerlo ottenere; invece scolpiva ogni suono singolarmente, basando il legato della cantilena esclusivamente sopra l'uso accuratamente escogitato del pedale. Questo suonare «non legato» impregnava i temi delle grandi fughe «Allegro» di Bach di una plasticità ferrea; allo stesso «non legato» Busoni attribuiva il segreto del cosiddetto «perlato», dovuto ad assoluta uguaglianza, precisione e distacco [36].

La stessa Selden-Goth afferma che Busoni possedeva mani «non specialmente grandi ma oltremodo elastiche che gli permettevano di prendere accordi a cinque parti nella estensione di una decima senza arpeggiare e di raggiungere l'indipendenza completa fra di loro dei gruppi di dita più alti e più bassi» [37]. In realtà le mani di Busoni erano molto grandi e di muscolatura robusta, oltre che flessibile [38]. Certo però l'indicazione della Selden-Goth è preziosa per spiegare, accanto alla forza e alla potenza delle ottave e dei fortissimo per cui Busoni andava tanto famoso, la leggerezza da cui nasceva quel già ricordato virtuosismo smaterializzato, l'indipendenza nel graduare le sonorità dei più complessi orditi polifonici e la capacità di produrre effetti di tipo organistico, capacità, questa, esemplificata al massimo grado dalle trascrizioni di musiche per organo di Bach.
Solo una pallida idea di questo suono - a detta di chi l'ascoltò dal vivo - inconfondibile e unico, è resa dalle poche incisioni e «rulli di pianola» che ci sono rimasti di Busoni. I limiti tecnici dell'epoca e in parte la scelta stessa dei brani, tendente a ridurre Busoni a campione di virtuosismo, non offrono un'immagine complessivamente rappresentativa del suo pianismo. Abbiamo visto che la poetica dell'interpretazione, quale Busoni maturò nel corso degli anni, mal si adattava a vivere fuori dalla realtà della sala da concerto, del pubblico, del programma e perfino dell'umore della serata. Così, nonostante il valore di queste preziose documentazioni storiche, prendere per oro colato quel che esce da incisioni oltretutto sperimentali, rischia di portare fuori strada, o, che è lo stesso, nel regno dell'opinabile. Ciò non è detto per scusare le parziali perplessità che nascono all'ascolto di questi dischi, peraltro compensate da favolose illuminazioni, soprattutto nella calcolata evidenziazione di alcuni particolari - un ritmo, un giro armonico, una sequenza di piani sonori - che da soli svelano il significato più riposto di un'opera, di un autore, di uno stile (si ascolti, ad esempio, il fantastico alternarsi di tensioni e distensioni nel personalissimo fraseggio del Preludio n. 7 di Chopin). Non soltanto la qualità del suono, ma anche le licenze, le eccentricità e le esuberanze di cui abbondano, che pur essendo coerenti con l'impostazione intellettuale e critica di Busoni fanno sembrare a noi di un altro mondo certe sue scelte interpretative, appaiono per natura refrattarie al disco, per così dire impoverite e raffreddate, e non è detto che corrispondano interamente alla verità delle interpretazioni busoniane, al loro senso ultimo e definitivo.

Già nel 1905-06 Busoni aveva effettuato una serie di registrazioni su rulli di pianoforte meccanico (la cosiddetta «pianola», che permetteva la riproduzione automatica dell'esecuzione) per la Welte Mignon di Friburgo. Esse comprendevano alcuni pezzi di Liszt ('Réminiscences de Don Juan da Mozart', 'Parafrasi dal Rigoletto' da Verdi, 'Die Ruinen von Athen - Fantasie' da Beethoven, 'Polacca' n. 2 in mi maggiore, 'Feux follets' dagli 'Studi trascendentali', 'La caccia' e 'La campanella' dagli 'Studi' da Paganini, e la 'Valse Caprice' in la maggiore), di Chopin (i 'Preludi' n. 1, 2, 3, 7, 8, 15, 23 e 24 e il 'Notturno' op. 15 n. 2) e la 'Ciaccona' di Bach nella versione dello stesso Busoni [39]. Nemmeno quando, attorno agli anni Venti, con le più moderne tecniche di incisione su disco la resa migliorò sensibilmente, Busoni ripose soverchia fiducia nell'incisione: il disco rimase per lui un'allettante fonte di guadagno, e insieme causa di forti contrasti interiori, insomma un'avventura che non affrontò mai con piena convinzione. Ne è prova la lettera alla moglie del 15 novembre 1919 da Londra, dove si era recato appunto per alcune incisioni:

Lunedì incomincia il lavoro di incisione dei dischi. Anche questa è una cosa che faccio solo con mezza convinzione: questo dissidio in me - quando si tratta di cose di interesse economico - fa sì che le realizzo solo a metà. Non voglio guastar del tutto l'affare, e non voglio mentire del tutto: - e così è impossibile che la cosa riesca [40].

Nel 1919 e nel 1922, sempre a Londra, Busoni registrò per la Columbia inglese una serie di pezzi in massima parte nuovi e assai più interessanti sia per la superiore qualità dell'incisione sia per la migliore riuscita dell'interpretazione. Evidentemente, con l'esperienza Busoni aveva imparato a mantenere in sala d'incisione quella concentrazione fatta di abbandono e di precisione che prima, per sua stessa ammissione, gli era mancata. Questi pezzi sono il 'Preludio e Fuga' n. 1 dal primo volume del 'Clavicembalo ben temperato di Bach'; il 'Preludio-Corale 'Nun freute Euch, liebe Christen' di Bach trascritto da Busoni; le 'Ecossaises' di Beethoven sempre nella rielaborazione da concerto di Busoni; il 'Preludio' n. 7, gli 'Studi' op. 10 n. 5, op. 25 n. 5, op. 10 n. 5 (per la seconda volta) e il 'Notturno' op. 15 n. 2 di Chopin; la 'Rapsodia Ungherese' n. 13 (in una versione abbreviata) di Liszt [41]. Ci pare che soprattutto l'interpretazione magistrale della tredicesima 'Rapsodia' rispecchi le qualità peculiari del pianismo di Busoni: esatta gradazione di tocco anche nei momenti di massima sonorità, uguaglianza e brillantezza nei passaggi virtuosistici, bellezza e potenza dei fortissimo, pienezza di suono anche nei piano, dominio sovrano dell'architettura formale del pezzo. Si faccia attenzione, a questo proposito, alla capacità somma in Busoni di unire la massima libertà fantastica con la coerenza di sviluppo degli elementi compositivi: così, per esempio, lo scintillio delle scale e degli arpeggi rimane uno sfondo nitido, contro il quale i temi, accordi poderosi o melodie cantabili, si stagliano in plastica evidenza, creando un rispecchiarsi continuo di ombre e di luci dal portentoso effetto spaziale e coloristico.

Il repertorio pianistico di Busoni, ricostruito e pubblicato da Dent in appendice alla sua biografia [42], costituisce una ulteriore e preziosissima fonte di studio per seguire le tappe dell'evoluzione del pianista, dalla prima infanzia fino agli ultimi, massimi esiti interpretativi. Ferruccio bruciò le tappe del consueto apprendistato di un pianista in erba con eccezionale rapidità, dovuta certo in primo luogo al talento innato e alla straordinaria capacità di assimilazione, ma andando per gradi, nonostante il pressante condizionamento paterno. Cominciò, come tutti, con Clementi, l'«Album per la gioventù» di Schumann e le Sonate facili di Mozart, i clavicembalisti del Settecento e gli 'Studi' di Czerny e di Cramer. Grazie alla madre ebbe la possibilità di coltivare - accanto alla tecnica - il gusto della musica d'insieme e la sensibilità musicale, con una naturalezza spontanea e intimamente vissuta. La stessa prima apparizione nelle vesti di fanciullo prodigio, avvenuta a undici anni col Concerto in do minore K. 491 di Mozart, appare una prestazione ragguardevole più dal lato musicale che specificamente tecnico. Del resto a Vienna, proprio in qualità di fanciullo prodigio, egli impressionò come improvvisatore ed esecutore di composizioni proprie (si ricordino le critiche di Hanslick e Ambros) più che come virtuoso, anche se i pezzi suonati in quell'occasione furono tutt'altro che cosa da poco. Seguì poi, grazie a una grande intuizione di Ferdinando, il primo contatto con Bach, con la punta impressionante della 'Fantasia cromatica e Fuga' suonata a Baden nel 1878, dunque a dodici anni; e, ancora, l'improvvisa rivelazione della musica romantica: dopo Schumann, Chopin, Mendelssohn e Schubert. Al contrario di Chopin e Mendelssohn, Schubert e Schumann non ebbero in seguito molto posto nei programmi concertistici di Busoni: del primo non rimasero, oltre alle predilette trascrizioni lisztiane, che composizioni «minori», soprattutto i 'Quattro Impromptus' op. 90; del secondo, a parte il 'Concerto in la minore', niente più che una predilezione isolata per i 'Pezzi fantastici', gli 'Studi sinfonici' e le 'Variazioni Abegg' (non i 'Kreisleriana', non 'Carnaval', non i 'Davidsbündlertänze'). Questo fatto non deve stupire: se nell'Ottocento Schubert come autore per pianoforte non era quasi considerato, la sua gloria immortale essendo legata quasi esclusivamente ai Lieder, Schumann divenne ben presto estraneo a Busoni per ragioni, potremmo dire, di incompatibilità fisiologica. Non sopportava, Busoni, i suoi atteggiamenti settari e «da carbonaro», la dichiarata avversione a Liszt, fatta poi propria dal circolo che ruotava intorno a Brahms. Per Busoni, Schumann rimase l'esempio massimo di quell'«impressionismo» soggettivo e limitato, di pretta marca tedesca, che Liszt era riuscito invece a rendere con linguaggio e sentimenti cosmopoliti.
Negli anni di Graz, gli studi con Mayer-Remy fortificarono la preparazione musicale di Busoni e imposero un freno alla massacrante attività dei concerti. Quegli studi furono di grande utilità anche al pianista, inducendolo a vedere nel pianoforte un mezzo espressivo di portata più ampia e meno immediata. Nel 1879 a Bolzano era avvenuto il primo incontro con Beethoven, con la 'Sonata in do maggiore' op. 53; nei due anni successivi, a Graz, egli eseguì per la prima volta la 'Sonata in re minore' op. 31 n. 2 e la 'Sonata in do minore' op. 111. Soprattutto quest'ultima, «così introspettiva e ricca di sonorità» [43] rimase a lungo il suo pezzo preferito, prima di venir soppiantata, nel pieno della splendida maturità artistica, dalla 'Sonata in si bemolle maggiore' op. 106, la 'Hammerkiaviersonate', «la composizione pianistica più possente di tutti i tempi» [44]. Non è un caso che egli l'affrontasse per la prima volta a Boston nel 1892, proprio alla vigilia di quella crisi che doveva portare radicali mutamenti nel suo atteggiamento esecutivo.
Beethoven è una delle tre colonne portanti nel tempio dell'arte pianistica di Busoni (le altre due sono naturalmente Bach e Liszt). Eppure, egli non ebbe mai nel suo repertorio l'intero corpus delle 32 'Sonate'; dei 'Concerti', l'«Imperatore» fu il suo cavallo di battaglia, il 'Quarto' un gioiello che riservava ai momenti di grazia, il 'Terzo' e il 'Primo' una conquista della tarda maturità, allorché gli fu chiara la loro importanza nello sviluppo del genere. Non suonò invece mai il 'Secondo', che considerava una mal riuscita imitazione da Mozart. Amò profondamente tutte le 'Variazioni' composte da Beethoven, le 'Bagatelle' op. 126 e le postume Ecossaises, che eseguì sovente in una propria rielaborazione da concerto [45]. Beethoven lo soggiogò a lungo, poi lo respinse; infine giunse a capirlo e a venerarlo, pur distinguendo, come scrisse una volta, il Beethoven buono da quello meno buono [46]. Toccò alcune tappe obbligate della produzione sonatistica di Beethoven, come la 'Waldstein', la 'Patetica' e l'«Appassionata», eccellendo, talvolta forse eccedendo, nella forza rappresentativa ed espressiva, per volgersi poi decisamente verso le opere dell'ultimo periodo, allora poco eseguite e ancor meno comprese e di cui vide con chiarezza, primo forse fra i pianisti della sua generazione, e secondo solo a Liszt e a Bülow, tutta la carica profetica.
I suoi 'Beethoven-Abende', insieme con i concerti monografici dedicati Bach, Liszt e Chopin, fecero epoca, e Busoni li ripropose ogni qual volta poté contare su un pubblico preparato e spiritualmente partecipe: il primo di cui si abbia ricordo risale ai tempi di Helsinki (1888); i più famosi a quelli di Berlino e Zurigo. Proprio in occasione del concerto beethoveniano tenuto alla Tonhalle di Zurigo il 6 aprile 1916, in cui eseguì la 'Sonata' op. 111, le 'Bagatelle' op. 126 e la 'Sonata' op. 106, Busoni dettò un breve scritto che riassume in sintesi il suo pensiero sul Beethoven pianistico:

Lo stesso passo decisivo e rivoluzionario che Beethoven ha fatto nelle forme sinfoniche, lo ha fatto anche nell'ampliamento delle composizioni per pianoforte. Nella storia del pianoforte non c'è stata una trasformazione maggiore di quella intercorsa tra la sonata di Haydn e Mozart e la Sonata «für das Hammerklavier». Beethoven ha creato il moderno pianoforte a coda nella sua tecnica, nello sfruttamento del registro acuto, di quello basso e dei registri più distanziati, nell'impiego del pedale, nel raffinamento e nell'arricchimento della sonorità.
La sua forma naturale d'espressione per raggiungere tutto questo fu la sonata, come ad altri fini era stata per Bach ovvia forma la fuga.
Nonostante tutte le conquiste strumentali, per Beethoven l'elemento fondamentale è il contenuto musicale: lo stesso «pianoforte» è solo un mezzo adatto a trasmettere, attraverso un'esecuzione, questo contenuto.
Ciò risulta soprattutto nelle opere della sua epoca creativa più matura, nella quale la tecnica pianistica non resta subordinata, ma è posta in rapporto perfetto con l'elemento spirituale, mentre il suo periodo di mezzo propende piuttosto a una accentuazione della brillantezza esteriore [47].

Vienna rappresentò un primo punto di arrivo per il pianista Busoni. La dura lotta per affermarsi, la giovanile esuberanza e la coscienza superba delle proprie forze lo spinsero a imitare i grossi calibri del concertismo, fino ad attingere i vertici di quello stile monumentale che appariva ai suoi occhi mèta necessaria per meritare l'appellativo di virtuoso. A diciott'anni si sentiva sicuro come un dio: offrendosi come solista per la stagione concertistica 1884-85, in una lettera alla Società Filarmonica di Vienna datata 4 agosto 1884 si dichiarava pronto a eseguire qualsiasi pezzo a scelta, all'unica condizione che essa gli fosse comunicata qualche settimana avanti la data del concerto (aveva aggiunto questa postilla solo per farsi garante della sua serietà). Fu quello il periodo del contatto fertile e insieme contrastato con i grandi della musica viennese, così amabilmente e acutamente ritratti nelle corrispondenze sull'«Indipendente», dei dubbi e delle folgoranti scoperte, soprattutto della subitanea passione per Brahms. Di Brahms, nel 1884, Busoni eseguì la 'Sonata in fa minore' op. 5 e le 'Variazioni su un tema di Händel': infatuazione passeggera, almeno per l'esecutore (ché diverso è il caso dell'influenza esercitata da Brahms su Busoni compositore), se è vero che poi nel suo repertorio soltanto il 'Concerto in re minore' op. 15 apparve con una certa frequenza. Questi tre lavori, più le 'Variazioni su un tema di Paganini' op. 35, furono le uniche composizioni di Brahms suonate in concerto da Busoni. Non presentò mai in pubblico il 'Concerto in si bemolle maggiore' op. 83, nemmeno quando si trattò di illustrare la storia dello sviluppo del Concerto per pianoforte: pur apprezzandolo molto e conoscendolo a fondo, lo considerava una Sinfonia con pianoforte obbligato, ossia un lavoro eminentemente sinfonico.
Verso i vent'anni, Busoni cominciò ad approfondire lo studio del repertorio romantico, e soprattutto di Chopin. Chopin fu l'unico romantico ad apparire regolarmente nei suoi programmi anche negli anni berlinesi e zurighesi, e l'unico che egli stimasse degno, al pari di Bach, Beethoven e Liszt, di figurare da solo in un intero concerto. Dovette però lavorare parecchio prima di arrivare a comprendere la vera, autentica statura artistica di Chopin, quella statura che una tradizione esecutiva superficiale e volgare aveva compresso e immiserito nella moda salottiera di un intimismo sentimentale o nella brillantezza esteriore di un virtuosismo a effetto. Ancora nel 1922 Busoni confidava all'amico Phiipp:

Chopin mi ha attratto e respinto per tutta la vita; e troppo spesso ho sentito la sua musica: prostituita, profanata, involgarita. È un'isoletta attorno a cui le acque salgono sempre più, sinché non ne sporgono che due o tre cime: gli 'Studi' e i 'Preludi' e, forse, le 'Ballate' [48].

I 'Preludi' interessarono Busoni più di ogni altra opera di Chopin. Attese fino al 1906 prima di affrontarli in pubblico nella versione integrale, ma lo studio di tutto il ciclo fu per lui una rivelazione entusiasmante:

I «24» di Chopin mi hanno dato molto da fare. Non sembrano difficili quando si sentono, ma in realtà non sono più facili delle 'Variazioni su Paganini'. E tanto diversi nella tecnica. Bisogna sapersi trasformare continuamente! Ma è un magnifico arricchimento... [49].

E il giorno dopo, sempre alla moglie, con malcelato orgoglio:

I 'Préludes' di Chopin mi sono costati giusto 12 ore di studio in 4 giorni! [50]

Il modo in cui Busoni affrontava Chopin parve sempre, soprattutto nei paesi tedeschi, difficilmente accettabile perché troppo poco sentimentale. Afferma a questo proposito Dent:

La sua concezione di Chopin fu sempre di terrificante grandiosità. I passaggi che la maggior parte dei pianisti usavano rendere in modo sognante etenero, lui li eseguiva con energia e dignità, quasi volesse sembrare duro e severo [51].

Per un certo tempo, nella interpretazione della «Marcia funebre» della 'Sonata in si bemolle minore' op. 35, seguì le suggestioni letterarie che avevano reso famoso Rubinstein, per il quale la musica doveva evocare il quadro del passaggio di un corteo funebre. Nei Trio, scandalizzò i critici dando alla melodia un rilievo inconsueto, come fosse quella di un'opera italiana, magari di Bellini, cogliendo così in pieno un aspetto peculiare dello stile di Chopin. L'avvicinamento al cuore dell'arte chopiniana avvenne a poco a poco, con rigore inflessibile, spogliandola via via dei rivestimenti inessenziali. È sintomatico a questo riguardo citare un episodio relativo al primo concerto di Busoni a Varsavia (1902). Per quell'occasione, in omaggio alla città natale del compositore, egli aveva preparato un programma che comprendeva solo musiche di Chopin. L'impresario, memore delle feroci stroncature avute da Busoni come interprete chopiniano, suggerì di modificare il programma con altri autori a lui più congeniali: Busoni rifiutò categoricamente. Il concerto si risolse in un inatteso, grande trionfo. Egli commentò semplicemente che chi conosceva il vero Chopin non poteva non apprezzare il senso delle sue interpretazioni.
Analogamente a quanto aveva fatto per Beethoven, Busoni presentò il suo concerto monografico dedicato a Chopin alla Tonhaile di Zurigo il 13 aprile 1916 (in programma i 12 'Studi' op. 25, i 24 'Preludi' e la 'Ballata' n. 4) con una pagina critica che vai la pena di riportare per intero:

Nella storia della musica Chopin si trova in una posizione particolare in quanto - pur avendo scritto solo per pianoforte e per di più soltanto in forme di minori dimensioni - esercitò un influsso decisivo su contemporanei e successori e arrivò poco per volta a essere il compositore più popolare, il più amato, il più accessibile agli amatori di musica di ogni grado: posizione questa che detiene quasi nella stessa misura tutt'oggi. Ma altrimenti lo vedono i musicisti (uno Schumann e un Liszt in prima linea), altrimenti lo vede il pubblico. Perché l'atteggiamento del pubblico verso l'artista riposa da sempre su un benevolo equivoco, e non è possibile che sia altrimenti, né altrimenti può essere. In questo caso è stato il lato fantasioso e sensibile della natura di Chopin che ha colpito il punto ricettivo di un uditorio estremamente vasto.

«Ah, questi cuori teneri!
Un ciarlatano è capace di commuoverli» [52]

Avuta assicurazione da parte di autorità musicali che stavolta non si trattava di un ciarlatano, tanto più volentieri il pubblico si è abbandonato a quel lato della sensibilità chopiniana che coincideva con la caratteristica principale .sia del ciarlatano che del pubblico. Ma l'apporto più valido di Chopin sta nell'aver espresso il suo mondo soggettivo senza ritegno, nell'aver arricchito l'armonia e sviluppato il pianismo puro. Il suo soggettivismo è collegato con la tendenza all'espressione personale del suo tempo; la sua personalità rappresenta l'ideale del personaggio da romanzo balzacchiano degli anni 1830‑40: lo straniero pallido, interessante, misterioso, distinto, - a Parigi. La coincidenza di tanti elementi spiega l'azione vasta e penetrante esercitata dalla sua personalità, alla quale una forte musicalità conferisce validità duratura [53].

Quanto agli altri autori romantici, un posto di rilievo è occupato nel repertorio pianistico di Busoni da Carl Maria von Weber (soprattutto il Weber dei pezzi brillanti e delle 'Sonate') e da Mendelssohn, che però Busoni probabilmente non contava fra i romantici; e forse proprio in ciò stava la ragione della sua ammirazione eterna per lui, il quale oltretutto era stato uno dei primi paladini della religione di Bach. Altri nomi, come quelli del francese Charles Henri Valentin Alkan (1813-88) e di Anton Rubintein, assai stimato da Busoni anche come compositore, restarono amori per lo più passeggeri, avventure di determinati momenti o stati d'animo della vita di un artista. Per alcuni autori, non ci sarebbe stata neppure una seconda volta: è il caso di Cajkovskij, di cui Busoni fu «costretto» a suonare a Londra il celeberrimo 'Concerto in si bemolle minore'. Ne riferì alla moglie in questi termini:

Il 'Concerto' di Cajkovskij è passato ed è andato in modo eccellente; but once and never again [54]; - mi sentivo come quando indosso un paio di scarpe nuove; hanno un aspetto elegante, ma non vedo l'ora di toglierle [55].

E così fu.
Diverso il caso di compositori come Saint-Saëns e in particolare Franck. Busoni fu solito, fin dalle prime tournées, suonare le musiche dei compositori più affermati del paese che lo ospitava. Per esempio, durante le tournées in Italia del 1882-83 si accostò alla musica di Adolfo Fumagalli (di cui a Empoli nel 1882 suonò l'allora famosa trascrizione del 'Carnevale di Venezia') e Stefano Golinelli; così come a Copenaghen, nel 1896, suonò per la prima volta il 'Concerto in la minore' di Grieg. Quanto a Saint-Saëns, Busoni nutrì per lui una pacata ammirazione, dovuta anche al reciproco legame di stima e di amicizia. Seppe però dar conto di questa ammirazione in modo del tutto obiettivo e convincente in un bello scritto in sua memoria [56]; né ebbe torto a considerare i suoi 'Concerti' in sol minore e fa maggiore degni di figurare fra i piccoli capolavori del genere. Dell'importanza attribuita a Franck per le novità contenute nel 'Preludio, Corale e Fuga' e, in minor misura, nel 'Preludio, Aria e Finale', abbiamo già detto.
Dopo Vienna, una nuova fase iniziatasi con l'affrancamento dalla famiglia e i primi viaggi a Berlino e Lipsia, e culminata nel lungo soggiorno in America, segna la consacrazione, prima europea poi mondiale, di Busoni pianista. E una crescita a vista d'occhio, progressiva conquista non tanto di territori geografici, quanto di orizzonti tecnici e spirituali. Ancora per qualche anno Busoni spazza il campo come virtuoso puro, con programmi farciti di veri pezzi da combattimento. Ne trascriviamo uno, tipico, di un concerto tenuto ad Amburgo nel 1887: «Tarantella» dalla 'Muta di Portici' di Auber nella trascrizione di Liszt, due Valzer di Johann Strauss trascritti da Tausig, il 'Perpetuum mobile' di Weber, il Notturno in re bemolle maggiore op. 27 n. 2 di Chopin, le «Variazioni» dalla 'Sonata in re maggiore' di Haydn, il «Rondò alla Turca» dalla 'Sonata' K. 331 di Mozart e, per finire, la 'Fantasia e Fuga in sol minore' per organo di Bach nella trascrizione di Liszt. A vent'anni, Busoni è uno strabiliante virtuoso che non ha ancora raggiunto quella maturità intellettuale che permette di porre il virtuosismo al servizio dell'interpretazione. Ma già nel 1888, a Lipsia, si annunciano gli inizi di una nuova epoca: Busoni compie il primo passo verso la conquista di Bach, di cui trascrive per pianoforte il 'Preludio e Fuga in re maggiore' per organo. A Helsinki, l'attività di insegnante lo familiarizza con il 'Clavicembalo ben temperato' e con i problemi della corretta trasposizione sul pianoforte moderno della musica bachiana, mentre Wegelius attira la sua attenzione sulle opere pianistiche e sullo stile compositivo di
Liszt. La brusca, profonda crisi che lo coglie al ritorno dall'America, anziché interrompere questa presa di coscienza ancora agli inizi, apre con un salto improvviso la giornata più luminosa dell'arte pianistica di Busoni.
A determinare la grande crisi degli anni 1893-94 furono in buona parte le tournées americane, che oltre ad appagare ogni residuo di ambizione, col ritmo quasi quotidiano delle esibizioni, i viaggi massacranti e i continui spostamenti, provocarono in lui un vero e proprio choc. «Missverständnis», l'avrebbe chiamato più tardi Busoni. Ossia malinteso, equivoco. Si accorse con orrore di esser caduto nella routine (parola che aborriva), di tradire se stesso e la musica, di servirsene più che servirla. I suoi impulsi creativi, da poco risvegliati nel rinnovato incontro con Bach e Mozart e vivificati dal pungolo dei nuovi aspetti della musica europea, cominciarono a stridere con il quadro che il mondo si faceva di lui e che riposava esclusivamente sulla fama del virtuoso. Per la prima volta Busoni si sentì compositore nel suo tempo. Cominciò a dar forma alla sua poetica; come pianista, ebbe il coraggio di ricominciare tutto da capo:

Fu quello il momento della mia vita in cui nel mio modo di suonare mi si fecero palesi tali lacune ed errori, che con decisione energica ripresi lo studio del pianoforte dall'inizio, e su basi completamente nuove. Le opere di Liszt divennero la mia guida e mi dischiusero una conoscenza intimissima della sua scrittura; sul suo specialissimo «periodare» basai la mia «tecnica»: gratitudine e ammirazione mi resero allora Liszt maestro e amico [57].

Proprio in America Busoni aveva potuto conoscere alcuni rari originali di opere lisztiane, che avevano riacceso in lui l'interesse già destato da Wegelius a Helsinki. Fino ad allora, Busoni aveva suonato molto Liszt, prediligendo soprattuto le trascrizioni, i pezzi di bravura e quelli «italiani», verso cui si sentiva attratto irresistibilmente (già nel 1883 a Bologna aveva eseguito la serie completa di «Venezia e Napoli» dalla «Deuxième Année» delle 'Années de pèlerinage'); certo anche perché era in grado di comprenderli meglio. Come pianista, l'unica volta che l'aveva ascoltato, a Vienna, il vecchio Liszt lo aveva deluso, e ancor più lo deludevano, per la loro esteriorità fine a se stessa, i suoi allievi. Così, fino a quel momento, l'approccio a Liszt aveva seguito i binari più consueti dell'epoca, con in più un pizzico di sospetto e di orgoglio (dopo tutto, Busoni era diventato un grande virtuoso da solo, anche senza essere stato allievo di Liszt). Solo quando gli fu chiaro il vero volto di Liszt compositore, Busoni si accostò a lui con entusiasmo e umiltà; e Liszt, come Bach, gli divenne «maestro e amico».
Attraverso Liszt Busoni ampliò i confini del suo pianismo, potenziò la tecnica e affinò lo stile, facendo tesoro degli insegnamenti e delle innovazioni del musicista ungherese. L'entusiasmo iniziale si mutò in studio appassionato, rigoroso, implacabile. Nacque in lui, fortissimo, il desiderio di curare una raccolta completa delle opere pianistiche di Liszt; nel 1900, grazie all'aiuto della Franz-Liszt-Stiftung di Weimar, poté cominciare questo lavoro che lo avrebbe occupato per più di un ventennio. Lo studio critico-bibliografico abbozzato a Berlino nell'estate 1900 come base della progettata edizione completa, intitolato 'Le edizioni delle opere per pianoforte di Liszt', è già il risultato di anni di ricerche e di approfondimenti. Della composizione pianistica, scrive Busoni, Bach è l'alfa, Liszt l'omega: «Se stato d'animo e contenuto sono meno intensi in quest'ultimo, tanto più penetranti ed efficaci sono in compenso il suono e la magia delle figurazioni» [58]. Di Liszt trascrittore, che avrà tanta influenza sulla sua opera di trascrittore, Busoni ammira e assimila fino alle radici il «pensiero pianisticamente trasformatorio» [59], espressione felicissima che coglie in tre sole parole il nocciolo dell'arte pianistica lisztiana, soprattutto delle Fantasie e Parafrasi operistiche.

Qui a tutte le precedenti conquiste del pianoforte lisztiano si aggiunge il momento teatrale e drammatico. Sfruttamento di mezzi fino agli estremi limiti - per esempio dell'estensione della tastiera, della tecnica degli accordi, della più alta virtuosità -, intensificazione dei contrasti e dell'espressione patetica, grandissima libertà e soggettività di interpretazione sono le principali caratteristiche di questo lato della sua creazione [60].

Nel 1910-11 Busoni dette alle stampe presso Breitkopf & Härtel di Lipsia la sua prima grande edizione lisztiana: la raccolta completa degli 'Studi', in tre volumi. Egli considerò sempre gli 'Studi' di Liszt il vertice del pianismo di tutti i tempi; sappiamo che li suonò tutti e 58, più volte e con risultati stupefacenti, se dobbiamo credere alle testimonianze dell'epoca e alle registrazioni in nostro possesso. Qui, paradossalmente, non si può più parlare di virtuosismo puro, poiché esso appare come cosa del tutto naturale e scontata, ma di intima compenetrazione nello spirito e nello stile di una musica che, pur valendosi di accenti diversissimi, mantiene una sua cifra inconfondibile e unica. Busoni vedeva da compositore l'essenza dello stile pianistico di Liszt: quel che lo affascinava era la fantasia inesauribile dell'ornamentazione, la tecnica dell'arabesco sonoro, il rivestimento dei nuclei melodici con figurazioni armoniche sempre cangianti, lo sfruttamento totale delle possibilità espressive del pianoforte. Nessuno, prima di Liszt, aveva ricavato tanto dal pianoforte: Liszt aveva messo «la tecnica al servizio dell'idea» [61]. Il pirotecnico fuoco inventivo della sua fantasia nasceva dal rigore formale e dalla costruttiva sapienza che ne erano alla base: scoperta importantissima, che di colpo innalzava Liszt al rango di «vero creatore». Nelle Avvertenze preliminari agli «Studi» di F. Liszt (settembre 1909), pubblicate nel primo volume della citata edizione, Busoni annotava:

Il segreto dell'ornamentazione lisztiana è la simmetria. In lui si uniscono, inoltre, la sicurezza formale di un classico e la libertà dell'improvvisatore; l'armonistica di un rivoluzionario è nella mano tranquilla di un sovrano; la fiorita melodica del latino si libra sulla pensosa serietà del nordico; e ogni cosa il suo senso del suono compenetra e indora, e sopra ogni cosa domina «il pianoforte», che dà le ali al corso della sua concezione, così come «l'idea» di Liszt dà la parola al pianoforte: lieto gioco reciproco di doni in cui il confine del prevenire e quello del corrispondere insensibilmente si confondono [62].

Il lavoro di revisione dell'opera pianistica di Liszt presentava problemi assai diversi da quelli di un Bach o di un Mozart. Si trattava anzitutto di raccogliere tutte le varianti di uno stesso pezzo, còmpito tutt'altro che facile data la dispersione delle fonti e degli editori; poi di ordinare quell'abbondante materiale, stabilire la lezione corretta e dar conto di concordanze e discordanze. Busoni non tralasciò uno solo di questi aspetti, procedendo con rigore scientifico pari all'acume critico. Ma non si fermò qui. Di alcune opere lisztiane preparò edizioni da studio e da concerto che a loro volta proponevano ampliamenti e modifiche di vario genere, ora limitandosi a problemi di resa strumentale, ora sconfinando in vere e proprie rielaborazioni personali. L'esempio più illuminante è la «grande edizione didattico-critica» della 'Fantasia sul «Don Giovanni»' ('Réminiscences de «Don Juan»'), uscita nel 1918, nella cui prefazione (giugno 1917) Busoni così riassumeva i criteri di un lavoro ormai pluriennale:

In tutto il corso dei suoi studi pianistici è stata costante nel sottoscritto l'aspirazione a semplificare la tecnica e ridurre il movimento e il dispendio delle forze al puro necessario. Egli è giunto alla convinzione che il raggiungimento di una tecnica non è altro che l'adattamento di una difficoltà data alle proprie capacità. Che a ciò con l'esercizio fisico si arrivi in parte minima, in massima invece con l'acquistare una chiara visione spirituale del compito proposto, è una verità che forse non è evidente a tutti i pedagoghi del pianoforte, ma certo ad ogni pianista che è arrivato alla mèta con l'autoeducazione e con la riflessione. Non prendendo di punta la difficoltà ma esaminando attentamente il problema si arriva a risolverlo.
Il principio generale permane lo stesso, ma l'esecuzione richiede volta per volta un nuovo adattamento, una sfumatura individuale [63].

Tale sfumatura individuale, risultato di esperienze personali che procedono organicamente sulla linea tracciata da Liszt e ne continuano idealmente l'esempio, risalta in special modo nelle trascrizioni. Non sono molte, ma tutte altamente significative, fin dalla prima, quella della 'Rapsodia Spagnola' come «pezzo da concerto per pianoforte e orchestra» (1894). Quando Busoni la presentò a Berlino il 3 novembre 1894, insieme con il 'Konzertstück' di Weber (anch'esso con alcune modifiche da lui stesso apportate), il coro delle proteste e delle censure fu pressoché unanime. Solo molti anni dopo, nel 1910, Busoni ritornò sull'argomento:

La 'Rapsodia Spagnola', nella sua forma originale per pianoforte solo, richiede dal pianista uno sforzo enorme senza concedergli la possibilità - anche nel caso della migliore riuscita - di porre i punti salienti in luce sufficientemente brillante. Gli ostacoli si trovano nel fraseggio, nelle deficienze dello strumento, nella resistenza limitata del pianista. Per di più il carattere nazionale del pezzo esige un colorito acceso, quale solo l'orchestra può dare. Inoltre una trascrizione di questo genere dà occasione al pianista di mettere in evidenza il suo stile personale. I virtuosi precedenti alla penultima generazione suonavano in verità soltanto opere proprie o trascritte da loro: suonavano quello che si erano accomodati da sé e per sé, quello che «faceva per loro», e propriamente solo quel che erano in grado di suonare, sia riguardo alla sensibilità che alla tecnica. E il pubblico andava ai concerti di Paganini per sentire Paganini (e non, per esempio, Beethoven). Oggi i virtuosi devono essere dei trasformisti; la tensione spirituale che il «salto mortale» [64] dalla 'Hammerkiaviersonate' di Beethoven a una 'Rapsodia' di Liszt richiede è tutt'altra prestazione che quella pura e semplice di suonare il pianoforte [65].

L'esempio più compiuto, e secondo Busoni assolutamente legittimo, di «trascrizione nel senso virtuosistico», accomodamento di idee altrui alla personalità dell'esecutore, più che nella trascrizione pianistica dalla partitura d'orchestra del 'Mephisto-Waizer' (1906), in ogni caso degna di quella di Liszt stesso, si ha nella libera rielaborazione da concerto della diciannovesima 'Rapsodia Ungherese' (1920): essa muta e arricchisce la scrittura dell'originale senza però alterarne il senso, e testimonia la profonda compenetrazione di Busoni interprete nello spirito di Liszt [66].
Più di ogni altro, Liszt fu il fondamento dei programmi concertistici di Busoni. Per lui Busoni affrontò stroncature memorabili, soprattutto nei primi anni berlinesi, quando insisté nel proporlo in serate monografiche di improbabile popolarità; ma riuscì infine a vincere la sua battaglia, non tanto imponendo Liszt al pubblico e alla critica, quanto facendo capire fino in fondo la sua grandezza nella storia del pianoforte e della musica in genere. Aveva compreso che lo stile pianistico di Liszt si basava su un numero limitato di figure ricorrenti, ogni volta reinventate dalla fantasia, e che bastava aver chiare quelle per averne in mano tutta l'opera. La cura degli effetti coloristici e virtuosistici del pianoforte doveva andare di pari passo con la massima chiarezza strutturale, nitidezza dei particolari e coerenza dell'insieme; la melodia doveva risaltare incontaminata e a piena voce, i piani sonori dovevano essere graduati con estrema sensibilità. Dopo la conversione, Busoni non ripudiò mai la convinzione espressa in forma lapidaria nelle citate 'Regole per gli esercizi del pianista':

Bach è la base del pianoforte, Liszt la cima. Questi due insieme ti renderanno possibile Beethoven [67].

E nel 1916, in occasione del concerto del 27 aprile alla Tonhalle di Zurigo a lui interamente dedicato dove egli eseguì la 'Sonata', i nove pezzi di 'Suisse' e le 'Due Leggende', così riassunse le ragioni del suo intramontabile amore per «quel grande»:

Fu principe e artista, e già in vita, una leggenda. Principeschi erano il suo modo di sentire, il suo aspetto, il suo modo di fare; gli impresse il sigillo di artista la fortunata unione di talento, intelligenza, perseveranza e idealismo. Come artista ebbe tutti i segni distintivi dei grandi: l'universalità della sua arte, i tre periodi creativi, lo spirito di ricerca sino alla fine; e il mistero delle sue capacità, le esibizioni prestigiose, l'efficacia magnetica delle sue arti gli conferirono l'aura di leggenda.
Le sue mete sono: ascendere, nobilitare, liberare. Solo uno spirito elevato aspira a salire, solo uno nobile a nobilitarsi, solo uno libero alla libertà.
È diventato il simbolo del pianoforte, che innalzo al rango principesco perché diventasse degno di lui stesso [68].

La storia futura di Busoni pianista è a questo punto segnata, la parabola del suo stile interpretativo tracciata, e poco resta da aggiungere. Possiamo comprendere soltanto adesso il significato profondo di un passo di una lettera alla moglie del 1909:

Non suono quasi più con le mani. Questo modo di suonare fa lo stesso dappertutto una grande impressione, qualunque musica io suoni [69].

Il 1909 fu un anno importante per Busoni, poiché coincise con l'inizio della sua piena maturità di compositore. Per un certo tempo si sentì tanto più estraneo al pianoforte quanto più era attratto dalla composizione:

Devo fare uno sforzo su me stesso per studiare il pianoforte, eppure non si può farne a meno! È come una bestia, a cui ricrescono le teste, per quante se ne taglino. Il comporre è invece come una strada ora bella ora difficile, di cui si percorrono tratti sempre più lunghi, vi si raggiunge e sorpassa un numero sempre maggiore di tappe, ma la sua mèta resta sconosciuta e irraggiungibile [70].

Ma presto anche questo momentaneo dissidio si ricompose.
A
Mozart, il «divino Maestro» che ebbe più di ogni altro caro, Busoni tornò ad accostarsi negli ultimi anni, prima a Zurigo e poi a Berlino. Nel 1921, a Berlino, suonò in due serate sei 'Concerti' per pianoforte e orchestra, praticamente tutti i maggiori di Mozart. Per nove di essi (per il K. 466 e il K. 488 addirittura in due versioni), scrisse fra il 1916 e il 1922 le cadenze, che sono a tutt'oggi modelli di proprietà stilistica e di reinvenzione potenziata per il pianoforte moderno. A parte i 'Concerti' e la grande 'Sonata in re maggiore' K. 448 per due pianoforti, pezzo favorito delle esibizioni in duo con Egon Petri negli ultimi anni, pochissime altre opere di Mozart figurano però nel repertorio pianistico di Busoni: non le 'Sonate' (così come trascurò quelle di Haydn); fra le trascrizioni, soltanto pochi arrangiamenti per due pianoforti (e qui spicca la singolare rielaborazione della 'Fantasia in la minore' K. 608 per un organo meccanico), anch'essi composti negli ultimi anni, e per o con orchestra. La ragione addotta da Busoni testimonia ancora una volta la sua coerenza in questa disciplina:

I successori di Bach. Haydn e Mozart, ci riescono in realtà più lontani e rientrano completamente nella cornice del loro tempo. Tentativi di trascrizione di qualche loro opera - nel senso delle succitate trascrizioni di Bach sarebbero errori grossolani. Le composizioni per pianoforte di Mozart e di Haydn non possono esser adattate in alcun modo al nostro stile pianistico: al loro contenuto ideale basta e corrisponde soltanto la scrittura originale [71].

Così, l'influenza di Mozart su Busoni va ricercata altrove.
Un cenno a parte merita l'opera intrapresa da Busoni come didatta. Non solo come insegnante di pianoforte - anche se svolse questa attività nel corso di molti anni e con proficui risultati - e poi di composizione all'Accademia di Berlino, ma anche come maestro, come modello di musicista e creatore individuale. Tale opera magistrale si concretò, come sappiamo, nella realtà viva delle revisioni e delle trascrizioni, ma si estese anche a ogni campo dei suoi interessi, e attirò a lui ingegni di varia formazione che avrebbero poi percorso le vie della musica in direzioni anche divergenti: essendo compito del vero maestro, secondo Busoni, portare alla luce i talenti originali di una personalità, non produrre imitatori o epigoni. Come pianista, lasciò un'impronta più durevole che in altri settori: pur definendosi un autodidatta e sostenendo che ogni vero artista dovesse esserlo, almeno fino a un certo punto, Busoni seppe ricreare una scuola pianistica europea quale, dopo la morte di Liszt, non esisteva più. Riuscì nello scopo fondendo il meglio di tradizioni diverse e ormai incapaci di agire autonomamente, quella italiana con quella russa, quella tedesca con quella francese, e così via, di sintesi in sintesi, in un'ansia di perfezionamento che niente lasciava d'intentato, a niente precludeva ulteriori sviluppi. Dal vivaio di Busoni uscirono pianisti illustri che si affermarono come continuatori della sua arte interpretativa (Petri, Zadora e altri); ma anche strumentisti votati alla divulgazione della musica pianistica contemporanea (come Eduard Steuermann, ex allievo di Schoenberg) o promotori di nuovi criteri in fatto di didattica e di educazione musicale (come Leo Kestenberg); per non parlare dei compositori (i già ricordati Kurt Weill, Wladimir Vogel e altri ancora), tutti in modi diversi impegnati nella ricerca musicale contemporanea. Nessuno di loro rinnegò mai la funzione di guida esercitata dall'esempio e dall'insegnamento di Busoni.
A ciò va però aggiunto (e la cosa è quantomeno singolare) che seppure come pensatore e compositore Busoni non mancasse di prender posizione e di lavorare concretamente per il nuovo, come interprete il suo rifiuto della musica pianistica contemporanea fu totale. Prescindendo dalle proprie composizioni, che eseguì con sempre maggior frequenza via via che vennero assumendo il rilievo di creazioni individualmente mature, Busoni non suonò mai in concerto musiche del Novecento: non suonò cioè mai Bartók, Debussy, Ravel, Schoenberg, Berg, Stravinskij, Skrjabin, Reger, Albéniz, Granados, autori che pure avevano tentato con le loro opere di ampliare i confini del pianoforte moderno, come aveva cercato di fare lui; e ciò nonostante la stima, sovente cementata dall'amicizia, e l'affinità spirituale che lo legarono ad alcuni di essi, e l'accoglimento di alcune delle loro musiche nei programmi dei concerti sinfonici berlinesi del primo decennio del secolo. Neppure nell'ultimo periodo, quando volle cercare nuove musiche da includere nel suo repertorio, Busoni prese in considerazione la possibilità di far conoscere questi autori inserendo loro composizioni nei suoi concerti: sappiamo che si incontrò a Parigi con Debussy e che nel fervore di una discussione su come rendere effetti «acquatici» sul pianoforte (un argomento riguardo al quale Debussy poteva vantare non poche credenziali) gli suonò estasiato i 'Giochi d'acqua a Villa d'Este' di Liszt, mettendo così probabilmente fine a quello scambio d'idee con una notevole mancanza di tatto; e che accolse con circospezione i pressanti appelli di Casella in favore della musica di Stravinskij pensando, altrettanto probabilmente, che gli italiani dovevano proprio esser malati di malinteso internazionalismo [72]. Quanto a Schoenberg e alla sua scuola, l'unico contatto diretto risaliva ormai al 1909, allorché Busoni aveva trascritto il secondo dei '3 Klavierstücke' op. 11 in una «interpretazione da concerto» [73] (che egli peraltro in concerto non presentò mai) nella quale intendeva, come ben sintetizza Stuckenschmidt, «distribuire le nuove sonorità, accumulate da Schoenberg in modo brusco e aggressivo, su maggiori superfici, per lasciare loro del tempo e assaporarle pianisticamente» [74]. Busoni si era reso ben conto della grande importanza delle novità linguistiche introdotte da Schoenberg in quegli anni, ma non altrettanto, si direbbe, della necessità della sua scrittura pianistica, volutamente concentrata al massimo, ostica e irriducibile ai normali criteri di comunicabilità. Benché Stuckenschmidt, autore di una magistrale analisi delle due versioni [75], si sforzi di dimostrare quanto Busoni sviluppi l'originale allo scopo di renderlo più pianistico e più accessibile all'ascoltatore, i mutamenti apportati da Busoni (e sia pur da un Busoni, occorre ricordano, allora all'apice della sua ricerca sul linguaggio e sulle concrete possibilità di un nuovo stile pianistico) finiscono per snaturare l'originale, senza molto aggiungere alla sua carica autenticamente rivoluzionaria. Singolare suona poi la nota che Busoni volle premessa al suo lavoro, quasi a premunirsi contro l'astrattezza dell'esecuzione e del contenuto stesso dell'opera:

Questa composizione richiede al pianista la più raffinata padronanza del tocco e del pedale, una interpretazione intima, quasi improvvisata, «fluttuante», una affettuosa immedesimazione nel suo contenuto, poter essere interprete del quale - soltanto come trascrittore [76] - ascrive a suo artistico onore. F. B. [77].

Va detto anche che Schoenberg apprezzò le intenzioni di Busoni (era così raro allora che qualcuno si interessasse di lui, e Busoni lo aveva fatto con grande coscienza e serietà, da pari a pari), e ricambiò il favore appena poté, trascrivendo per piccola orchestra da camera la 'Berceuse élégiaque', con fedeltà assoluta allo spirito dell'originale. Dopo, più nulla, se non l'incomunicabilità più totale [78].
I motivi del netto rifiuto opposto dal pianista alla musica del suo tempo meritano qualche considerazione, tanto più se si pensa quale interprete congeniale e straordinario Busoni avrebbe potuto essere di opere come i 'Preludi', 'Estampes' o 'Images' di Debussy, la 'Sonatina' o 'Gaspard de la Nuit' di Ravel, se non addirittura di 'Petruska' [79]. Il fatto è che per Busoni l'aspirazione al nuovo e all'inespresso non significo mai adesione incondizionata alle tendenze, nazionali e non, che in nome del nuovo e dell'inespresso reclamavano il diritto di considerare momentaneamente chiuso il conto con la tradizione classico-romantica e di fondare su nuove basi linguistiche e formali l'esigenza della creazione, la stessa concreta ricerca artistica. Per Busoni, la nozione di «moderno» era un non senso, esistendo per lui «soltanto spiriti grandi e piccoli, opere buone e cattive» [80]. Dunque Franck non è più moderno di Beethoven per il solo fatto di essere venuto dopo e di avere arricchito il linguaggio musicale, che si evolve necessariamente in assoluta continuità e gradualità; e Bach, che di tutti è il più grande, è anche il più moderno: perché veramente moderno è colui che ponendosi degli scopi trova i mezzi necessari ad esprimerli, lasciando aperte a chi verrà dopo di lui sempre nuove e inesauribili possibilità di interpretazione. Ne consegue allora, nel nostro caso, che gli autori che Busoni rifiuta siano spiriti piccoli, le loro opere cattive? No di certo. Semplicemente, essi non appartenevano all'area spirituale entro cui agiva Busoni, non si legavano alla sua ricerca, erano estranei ai fini che egli si proponeva come continuatore di una tradizione e di un mondo ancora in gran parte da scoprire, ancora da perfezionare. Come pianista, poi, per affrontare quegli autori avrebbe dovuto concepire una dimensione esecutiva affatto nuova. Troppo tardi: alla svolta finale della sua vita, meditò a lungo sulla possibilità del salto. Se fosse stato solo un pianista, forse gli sarebbe riuscito; ma l'occhio vigile del compositore perentoriamente glielo negava, pena la perdita di se stesso.

Ecco dunque, come a concludere un cerchio, la convergenza in Bach, l'onnicomprensiva componente attiva di tutta l'opera svolta da Busoni sul pianoforte sotto specie di interprete, revisore, trascrittore e compositore: di più, ecco il senso di un'intera vita artistica racchiusa «in signo Joannis Sebastiani Magni». Busoni fu sospinto a Bach da quella che a lui stesso parve una «misteriosa disposizione del destino»:

Debbo a mio padre la fortuna d'essere stato molto severamente spinto, nella mia fanciullezza, allo studio di Bach; e questo in un'epoca e in un paese, in cui il maestro non era valutato molto più di un Carl Czerny. Quale sano istinto abbia portato mio padre, semplice virtuoso di clarinetto (a cui piaceva suonare fantasie sul 'Trovatore' e sul 'Carnevale di Venezia'), uomo di educazione musicale insufficiente, italiano e amatore del belcanto - quale istinto abbia portato proprio un uomo simile, animato dall'ambizione che coltivava per suo figlio, a indovinare la sola strada giusta: mi sembra una misteriosa disposizione del destino. Mio padre mi educò così a un musicista «tedesco», mi indicò la strada che non ho mai più abbandonato del tutto; senza che con ciò io mi sia scrollata di dosso la latinità compartitami dalla natura. Così s'impara per tempo che siano costruzione, armonia, logica: le solide fondamenta su cui ognuno, secondo il talento assegnatogli, può costruire in altezza: libero e senza capogiri, sorretto dalla struttura propria [81].

Come pianista, Busoni fu riconosciuto unanimemente, e assai presto, «Ein Bach-Spieler von Gottes Gnaden» [82], «un esecutore di Bach per grazia di Dio»: le sue interpretazioni di Bach fecero epoca, in anni in cui Bach non era ancora considerato un autore da concerto. Lo suonò sovente anche in programmi monografici, fino a che arrivò a imporlo agli altri così come lo vedeva e lo voleva lui; solo da allora Bach scomparve a poco a poco dai suoi concerti. Ma mai come in questo caso la radice di un atteggiamento interpretativo fra i più moderni e fecondi nella storia stessa dell'interpretazione va ricercata al di fuori della mera prassi esecutiva.
Due sono le grandi edizioni che raccolgono l'opera di Busoni sotto diverse forme improntata a Bach. La
Bach-Busoni gesammelte Ausgabe (Edizione Bach-Busoni), vera e propria summa di un lavoro che si estende fino agli ultimi anni della vita di Busoni, consta di sette volumi [83], due comprendenti la revisione del 'Clavicembalo ben temperato', gli altri cinque revisioni, rielaborazioni, trascrizioni, studi e composizioni pianistiche originali di Busoni da Bach; la cosiddetta Busoni-Ausgabe (Edizione Busoni), invece, raccoglie in 25 volumi unicamente opere di Bach per la tastiera, rivedute e trascritte per il pianoforte moderno in parte da Busoni stesso, in parte dai suoi collaboratori Egon Petri e Bruno Mugellini [84]: di questa, la parte compiuta da Busoni fu poi incorporata nell'altra e ben più importante raccolta. La 'Edizione Busoni' fu pubblicata all'inizio del 1916; nella breve prefazione, scritta a Zurigo il 20 ottobre 1915, alla monumentale opera, che è tutta sua nello spirito anche se non nella realizzazione, Busoni riassumeva in una sola frase il suo pensiero su Bach:

Nella produzione musicale l'arte di Bach conserva ancora oggi una posizione centrale tra la preistoria e l'epoca presente [85].

Aveva cominciato a occuparsi di Bach, come revisore, nel 1890, pubblicando l'edizione delle 'Invenzioni a due voci'; era poi vissuto per anni in intima immedesimazione con lo spirito di Bach, al punto di sentirsi quasi una reincarnazione del Kantor; e ancora in questi anni era sempre più forte in lui la convinzione che a quella fonte la musica dovesse attingere le leggi della verità, affinché il passato divenisse presente, il sogno utopico realtà. Ferma rimaneva la convinzione che Bach rappresentasse non soltanto un territorio ancora inesplorato, ma anche il fondamento stesso della musica e il punto di partenza del moderno pianismo; e che anzi solo i mezzi del pianoforte moderno [86] si addicessero pienamente alla musica di lui e potessero renderle giustizia: di qui la legittimità, anzi la necessità di una appropriazione attiva di Bach quale Busoni sentiva a sé congeniale. Tutto ciò non sarebbe probabilmente bastato, o almeno avrebbe condotto verso altri esiti, se Busoni non avesse prima mutuato da Bach e poi ripensato individualmente, estendendoli anche agli altri autori, concetto e prassi della trascrizione come libera forma di ricreazione musicale. Insorgendo contro l'«opinione dei più» che consideravano la trascrizione un genere inferiore, screditato e decaduto, Busoni scriveva nel novembre 1910:

Per rialzare di colpo la natura della trascrizione nella considerazione del lettore a dignità d'arte, basta fare il nome di J. S. Bach. Egli fu uno dei trascrittori più fecondi di lavori propri e altrui, e precisamente nella sua qualità di organista. Da lui imparai a riconoscere una verità: che una musica buona, grande, «universale», resta la stessa qualunque sia il mezzo attraverso cui si faccia sentire. Ma allo stesso tempo imparai anche una seconda verità: che mezzi diversi hanno un linguaggio diverso (loro peculiare) col quale comunicano questa musica in modo sempre un po' differente [87].

Di qui alla conclusione famosissima, uno dei cardini del pensiero estetico di Busoni, il passo è breve:

Ecco quanto ne penso in definitiva: Ogni notazione è già trascrizione di un'idea astratta. Nel momento in cui la penna se ne impadronisce il pensiero perde la sua forma originale. L'intenzione di fissare con la scrittura l'idea impone già la scelta di un ritmo e di una tonalità. Forma e mezzo sonoro che il compositore deve scegliere determinano sempre più la strada e i suoi confini. Per quanto dell'indistruttibile carattere originario dell'idea qualcosa permanga, tuttavia a partire dal momento della scelta questo carattere viene ridotto e costretto a un tipo già classificato. L'idea diventa una sonata, un concerto; e questo è già un adattamento dell'originale. Da questa prima alla seconda trascrizione il passo è relativamente breve e senza importanza. Pure, in generale, si fa un gran caso solo della seconda. E nel far ciò non si avverte che la trascrizione non distrugge la versione originale, e che quindi non si perde questa per colpa di quella. [...]
Perché l'opera d'arte musicale sussiste intera e immutabile prima di risuonare e dopo che ha finito di risuonare. E insieme dentro e fuori del tempo [88].

Se tutto in musica è trascrizione (ossia «riduzione di un pensiero più grande per uno strumento pratico» [89], come egli puntualizzava ancora nel 1913), Busoni distingue nel suo lavoro diversi stadi, e chiama 'Bearbeitungen' (ossia rielaborazioni) tutte quelle revisioni che adattano alla «lingua del moderno pianoforte» opere genericamente destinate alla tastiera, e si esplicano nella realizzazione di problemi interpretativi (tempo, dinamica, agogica, diteggiatura, fraseggio, attacco del suono e così via) e in indicazioni sullo stile e sulla forma, senza tralasciare di illustrare con esempi pratici i significati espressivi, costruttivi o musicali di ogni pezzo, considerato per sé e nella economia dell'opera intera. La necessità di una versione il più possibile completa e stilisticamente attendibile, anche se personale, delle opere «clavicembalistiche» di Bach, si connette a quella di riplasmare quel copioso materiale sulle esigenze di un'alta scuola pianistica dagli ampi orizzonti, e decisamente proiettata nel futuro. Riserva invece il termine specifico di trascrizione (in tedesco 'Ubertragung', in senso proprio «trasposizione»; ma anche «traduzione») ai lavori che riproducono sul pianoforte opere organistiche (con la sola celeberrima eccezione della 'Ciaccona' per violino solo) di Bach, e che sono quindi vere e proprie traduzioni da altri strumenti al pianoforte.
Dal revisore, che ha lasciato la sua più compiuta testimonianza nei due volumi del 'Clavicembalo ben temperato' («quest'opera tanto importante dal punto di vista pianistico e onnicomprensiva da quello musicale», ceppo originario da cui derivano «le molteplici ramificazioni della tecnica pianistica odierna» [90]), al trascrittore propriamente detto, nulla muta nello spirito dell'indagine busoniana: essa semplicemente si radicalizza, e diviene ancor più conseguente nella ricerca di una realizzazione pianistica specifica, e nell'indagine dei principi costitutivi della «dottrina del comporre». Fu anzi l'individuazione di tali principi attraverso Bach a mettere in moto, quasi per generazione spontanea, la linfa vitale dell'esperienza creativa del musicista moderno.
Un esempio assai particolare di come la frequentazione di Bach potesse stimolare, quasi con una funzione catalizzatrice, le più ardite speculazioni del pensiero busoniano, è dato da quella futuristica 'Proposta di una notazione pianistica organica esemplificata sulla «Fantasia cromatica in re minore» di J. S. Bach' (1910), posta in appendice al settimo volume della 'Bach-Busoni Ausgabe'. Suo scopo dichiarato è proporre un nuovo sistema di notazione basato sulla rappresentazione grafica della disposizione dei dodici intervalli di cui è composta l'ottava sulla tastiera del pianoforte; e ciò perché «mi si è fatto definitivamente chiaro che la nostra ottava odierna non consta più di sette intervalli, ma di dodici; e che ognuno di questi dodici intervalli dovrebbe avere sul rigo musicale il suo proprio posto» [91]. Quantunque Busoni affermi di esser stato spinto a tentare l'impresa dalla difficoltà di sbrogliare il gran numero di accidenti, incontrati a ogni pie' sospinto «provando a leggere al pianoforte qualche impetuosa pagina della popolare 'Salome' e alcuni anarchici pezzi per pianoforte del tutt'altro che popolare compositore viennese Arnold Schoenberg» [92] , è significativo che egli, come esemplificazione del sistema proposto, faccia seguire la «trascrizione» della 'Fantasia cromatica' di Bach: quasi che la bizzarra idea balenatagli in testa (e subito abbandonata, ma degna di attenzione se non altro perché rispecchia l'aspirazione a più idonei mezzi di scrittura musicale, tipicissima di Busoni) potesse ricevere pratica realizzazione, e dunque validità anche teorica, nel nome e nel segno di Bach, come perfezionamento moderno di un antico e raffinato organismo. Anche in questo caso, dunque, Bach è il modello su cui si esercita l'esplorazione di un problema particolare dell'evoluzione del linguaggio musicale.
A trascrivere la musica organistica di Bach Busoni fu mosso «per caso» ascoltando nella Thomaskirche, all'epoca del suo soggiorno a Lipsia, un organista che eseguiva il 'Preludio e Fuga' in re maggiore BWV 532: fu quella la sua prima trascrizione, nel 1888, cui seguirono, nell'arco di quasi vent'anni, quelle dei 'Preludi e Fughe' in mi bemolle maggiore BWV 552 e in mi minore BWV 533, delle 'Toccate' in re minore BWV 565 e in do maggiore BWV 564, e di nove 'Preludi Corali' fra i più belli di Bach [93], queste ultime pubblicate separatamente in due volumi nel 1907 e nel 1909 e poi rifuse, insieme con le altre trascrizioni, nel terzo volume della 'Bach-Busoni Ausgabe'. Senza dubbio, nell'approfondimento dei problemi e delle possibilità di trascrivere Bach dall'organo sul pianoforte, Busoni fu aiutato dagli esempi lasciati in questo campo da Liszt e da Tausig; ma quanto la sua analisi e il suo studio, ancora una volta sistematici e totalizzanti, superassero i modelli che lo avevano preceduto, lo prova fra l'altro quel volumetto, scritto già nel 1894, intitolato 'Sulla trascrizione per pianoforte delle opere per organo di Bach', che Busoni volle significativamente pubblicato in appendice al I volume del 'Clavicembalo ben temperato' come organica conclusione dei suoi studi bachiani. È un trattato completo sull'argomento, fitto di esempi e di indicazioni pratiche, e corredato, a mo' di dimostrazione, dalla trascrizione integrale del 'Preludio e Fuga' in mi minore di Bach con l'originale per organo a fronte; esso ci illumina efficacemente sui criteri seguiti da Busoni in questo lavoro, fra i più straordinari e compiuti della sua attività di trascrittore.
Partì da una duplice convinzione: la riproduzione sul pianoforte delle opere organistiche di Bach era didatticamente necessaria per completare lo studio di Bach, non solo pianistico, ma anche musicale, l'altezza del pensiero musicale di lui essendo rispecchiata al massimo grado nelle opere per organo; inoltre, a prescindere dalla differente natura degli strumenti, la scrittura e la tecnica bachiane erano alla radice le stesse, trattandosi in entrambi i casi di strumenti a tastiera «ben temperati» [94]: così che l'opera di trascrizione dall'organo al pianoforte era non soltanto legittima, ma offriva anche, salvi i debiti accorgimenti, impensati arricchimenti al pianoforte moderno e alla stessa realizzazione organistica (il pianoforte, infatti, dispone di prerogative maggiori rispetto all'organo, come la precisione ritmica, l'esatta differenziazione degli attacchi del suono, la potenza e la chiarezza nei passaggi, la possibilità di modulare il tocco, la trasparenza e la rapidità d'esecuzione; mentre l'organo può suggerire effetti sonori più pieni grazie ai registri e alle loro combinazioni). Sono ovviamente affermazioni assai discutibili, e discusse già alloro apparire. Resta però il fatto che Busoni ha lasciato in queste trascrizioni altissima testimonianza della sua comprensione dello stile di Bach. Si obietterà che l'ambito di Bach è immensamente più ampio di quello di Busoni, e che Busoni non aggiunge nulla al modello. Se nulla aggiunse alla sostanza musicale, è però vero che egli creò una nuova tecnica pianistica e arricchì la letteratura dello strumento di opere di straordinaria coerenza poetica: il che non è merito da poco.
A ciò pervenne inventando una scrittura rigorosa e insieme libera, tesa a rendere sul pianoforte la forza, la pienezza e le cangianti sfumature dei multicolori registri dell'organo, a fornire le basi di uno stile interpretativo corretto e razionale, passibile di ulteriori perfezionamenti. Libertà e rigore furono i termini di paragone con cui Busoni affrontò i problemi più spinosi, da quello dei raddoppi (risolto vietando tassativamente l'arpeggio ed elaborando invece una disposizione polifonica che ricreasse almeno l'idea dei «ripieni» e delle «misture»), a quelli degli effetti di «registrazione» e dell'impiego del pedale destro, ritenuto indispensabile, contro l'opinione dei puristi, ogniqualvolta si suoni Bach al pianoforte [95]. Aggiunte di vario tipo, omissioni e licenze (ossia libere elaborazioni), a patto che siano inserite con naturalezza e per obiettive necessità, senza offendere il gusto e lo stile, sono espressamente contemplate e trattate con dovizia di esempi teorici e pratici; ove una polifonia troppo intricata o una concezione del pezzo per due manuali presentino all'esecuzione ostacoli insuperabili, Busoni propone la via d'uscita della trascrizione per due pianoforti. Insomma, ogni problema riceve qui la sua soluzione più naturale, senza forzature né cedimenti: trascrivere per pianoforte le opere organistiche di Bach significò per Busoni non solo estendere gli orizzonti tecnici ed espressivi dello strumento, ma anche racchiudere in grande unità un'arte diversa per dimensioni, non per carattere e forma.
Diverso è il caso della 'Ciaccona' dalla seconda 'Partita [96] in re minore per violino solo BWV 1004 di Bach, essendo qui lo scarto tra la forma originale e la elaborazione concertistica per pianoforte assai più netto. Non sappiamo quale impulso abbia spinto Busoni a gettarsi in un'impresa così temeraria: forse l'esempio di Brahms, che nel 1877 aveva trascritto la stessa Ciaccona «per la sola mano sinistra», con intenti però diametralmente opposti a quelli di Busoni [97]; forse il desiderio di ispirarsi al virtuosismo violinistico così come aveva fatto Liszt con i suoi 'Studi d'après Paganini'; più probabilmente, invece, l'intento di dimostrare, in conformità alla propria poetica, fino a che punto il linguaggio e lo stile di Bach potessero esser sviluppati compositivamente sul pianoforte con i mezzi espressivi dell'epoca moderna.
La Ciaccona (1897), che chiude il terzo volume della 'Bach-Busoni Ausgabe', incarna nel modo migliore l'idea di trascrizione secondo Busoni. Non è né una parafrasi del testo bachiano né una fantasia, ma l'ideale prolungamento delle virtualità stilistiche in esso latenti, amplificate e approfondite nel passaggio dal violino al pianoforte: non intende dunque annullare l'originale, ma ricomporlo su nuove, autonome basi. In altre parole Busoni, pur servendosi di tutte le risorse anche virtuosistiche del pianoforte, potenziate, per così dire, attraverso Liszt [98], quando trascrive la 'Ciaccona' compie un atto eminentemente creativo: suo primo scopo è rendere evidenti e valorizzare l'armonia e la polifonia implicite nel testo originario, nella cui ricca fioritura melodica egli vede adombrato il modello di una melodia assoluta, portatrice dell'idea e generatrice dell'armonia e della polifonia universali [99]. Lo sforzo di Busoni ricreatore mira così anzitutto a evidenziare le varianti armoniche, le possibili trasformazioni e alterazioni cromatiche del basso ostinato di 'Ciaccona' pensato da Bach, e allo stesso tempo a sviluppare la polifonia dalla monodia; utilizzando a questo fine procedimenti contrappuntistici e modelli di elaborazione polifonica desunti dallo studio del modus componendi di Bach stesso e dall'analisi degli esempi da lui lasciati in questo campo [100]: di qui la ferrea unità stilistica, di segno autenticamente bachiano, della composizione [101].
Non sorprende che Busoni faccia largo uso, con libertà insieme assoluta e vincolata allo stile, di elementi compositivi anche nuovi (non solo materiale di contorno e nuove voci che tornino utili nell'elaborazione contrappuntistica), non presenti nell'originale ma coerenti con il suo sviluppo sul pianoforte, e accentui così il carattere di variazione continua di tutti i parametri della composizione (melodia, armonia, polifonia, ritmo, timbro), in un senso molto vicino agli esempi supremi delle variazioni di Brahms. Questo carattere deviante rispetto al tracciato indicato da Bach, dove trova modo di realizzarsi la componente più originale della personalità di Busoni, è visibile soprattutto nelle variazioni X-XIV, allorché Busoni sfasa la rigida quadratura metrica delle otto battute articolate in quattro più quattro presentando, nella variazione X, una ripetizione delle prime quattro battute in contrappunto doppio all'ottava, di modo che la variazione risulti di dodici battute, le ultime quattro bloccate in un aspro, tensivo contrasto con le precedenti (batt. 82-93). Tale sfasatura, che coincide con il momento linguisticamente più espanso del pezzo, si ricompone soltanto con l'improvvisa riapparizione del tema (Tempo I) alla variazione XV, che a sua volta cade alla metà esatta del brano (batt. 131); e segna l'inizio di una serie di variazioni in modo maggiore di grande concentrazione espressiva, che ascendono progressivamente fino al culmine della variazione XXV (con fuoco, batt. 206), per sciogliersi poi a poco a poco nel clima rarefatto dell'inizio e preparare, dopo un'ultima brusca impennata, la trionfale affermazione del tema. Busoni costruisce così una forma ciclica assai più complessa di quella bachiana, permeata di sottili trasformazioni compositive.
Dal lato pianistico, lo sfruttamento di tutta l'estensione della tastiera mira a dare maggior varietà di colori e maggior evidenza alla struttura formale del pezzo. Paradossalmente l'aspetto virtuosistico passa in secondo piano rispetto alle nude tensioni melodiche dell'originale per violino, e l'ampliamento dei mezzi, così adattato agli scopi della trascrizione, non genera forzature; anzi: il credo fondamentale della poetica di Busoni - dal massimo sviluppo dei mezzi della tradizione e dal loro continuo arricchimento formale e lessicale dover risultare nient'altro che la «semplicità» e l'«evidenza» - si realizza qui come verità lampante. Perfino la grande escursione dei registri e l'impiego sistematico di quello grave come fondamento strutturale della composizione trovano chiara e semplice giustificazione dalla circostanza, acutamente osservata dal Leibowitz, che «il basso della 'Ciaccona' - fondamento stesso delle variazioni - Bach non poteva indicarlo, nella maggior parte del tempo, che in modo 'velato', alla maniera d'una allusione, mentre nel testo pianistico di Busoni esso si realizza in tutto il suo splendore e nella sua funzione di fondamento» [102]. La scelta del mezzo diviene così determinante anche per la forma e il significato della composizione.
E infine: le minuziose indicazioni agogiche e dinamiche, le didascalie che suggeriscono l'esatta e appropriata scelta esecutiva, le relazioni timbriche e le sonorità orchestrali espressamente richieste, valgono non soltanto a interpretare ciò che in Bach è lasciato al gusto dell'esecutore (è noto che nel testo originale manca qualsivoglia indicazione sulla scelta dei tempi e delle intensità), ma anche a stabilire un itinerario di coerente equilibrio musicale, tanto ricco di sfumature e di contrasti quanto nella globalità unitario e logico rispetto alle masse delle forze in gioco. Un solo esempio: il tema, che all'inizio si presenta alla mano sinistra, forte, in tempo «Andante maestoso, ma non troppo lento», riappare alla fine fortissimo, dopo uno sforzato sul re basso in ottava, pesante e «Largamente maestoso», in una disposizione pianistica tipicissima di Busoni (ossia in accordi a otto o nove suoni che colmano ampi spazi della tastiera): pregno di una sua trascendentale identità, rivelata e potenziata dal ciclo smisurato delle variazioni.
Tutti questi studi e lavori da e su Bach recarono a Busoni quel fertile arricchimento che avrebbe contribuito, nelle opere del periodo, centrale, a consolidare la sua posizione nella musica del tempo. Con l'acquisizione di una grande esperienza umana e artistica, Busoni poté comporre, sul fondamento dell'affinità elettiva con Bach, una serie di piccoli e grandi capolavori per il pianoforte ispirati all'insegnamento di Bach, ma del tutto originali e moderni per linguaggio e forma: opere che, sotto il titolo di 'Kompositionen' e 'Nachdichtungen' (ossia «composizioni» e «libere ricreazioni») sono il completamento delle revisioni e delle trascrizioni e con esse coesistono in bella armonia nei quarto volume della 'Bach-Busoni Ausgabe' [103].
Questa presenza storica di Busoni si coglie intera là dove egli - con onestà intellettuale e ferma coscienza delle proprie responsabilità - a proposito della 'Fantasia contrappuntistica', l'opera che rappresenta il vertice del rapporto creativo con Bach, afferma:

Ho creduto di lavorare nello spirito di Bach, mettendo al servizio del suo piano le estreme possibilità dell'arte odierna - quale organica continuazione dell'arte sua, come le estreme possibilità dell'arte del suo tempo erano divenute mezzo di espressione per lui stesso [104].

E ciò nella persuasione che, se ogni ritorno passivo ai tempi passati è fatale per la creazione e rimane infruttuoso, «l'apprezzamento dell'antica e tuttora superiore grandezza è un culto nell'esercizio del quale nessuno dovrebbe temere di rimetterci: a meno di non voler lasciarsi imporre il marchio della boria vacua e dell'ignoranza, e ostentare un tale insulto in impudente stoltezza» [105].
Tali ostentazioni non gli appartenevano. Superando d'un sol balzo quella tentazione neoclassica che pur avrebbe costituito una delle linee di maggior incidenza nella musica del Novecento, Busoni giunse a preconizzare una «giovane classicità» come continuità assoluta con la storia, armonizzazione di elementi spirituali e stilistici, e insieme superamento delle convenzioni formali e linguistiche, annullamento di ogni limitazione strumentale, proprio come aveva fatto Bach nel suo tempo. Per questo, pur sentendosi a volte smarrito davanti a quei monumenti irraggiungibili, troppo forte era stata la necessità di comprenderli, di verificarne ogni singola parte per giungere, annullandosi in essi, a ricomporre una perfezione che sembrava intangibile: il passo successivo, che non tardò a compiersi, fu quello dell'artista libero e solo che dette forma ai suoi interrogativi irrisolti creando il nuovo, perché «solo chi guarda innanzi, ha lo sguardo lieto».
Creare il nuovo. Inutile pleonasmo:

Nel concetto del «creare» è contenuto quello del «nuovo»; per questo la creazione differisce dall'imitazione. Si segue un grande modello con la massima fedeltà se non lo si segue; giacché il modello è grande in quanto si allontana da ciò che l'ha preceduto [106].

Così tentò di fare Busoni, e non c'è contraddizione nelle sue affermazioni: solo, all'atto pratico, una buona dose di utopia. Sarebbe toccato ad Anton Webern andar oltre l'utopia di Busoni e trarne drastiche conseguenze, a Busoni storicamente precluse:

Il significato dell'Arte della Fuga è praticamente lo stesso di ciò che noi scriviamo con il sistema dodecafonico. Il lavoro di Bach è basato su sette suoni della vecchia scala, il nostro sulla scala cromatica. Ora si crea su questa nuova base [107].

Ma a quel punto la storia aveva già voltato pagina, abbandonando Busoni al suo destino.