IL PENSIERO MUSICALE DI SINOPOLI

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WOZZECK DI ALBAN BERG: «È strano che da noi 'Wozzeck' sia ancora così poco frequentato, mentre nei teatri d'area tedesca è eseguito molto più di Wagner», commenta Sinopoli, che da vent'anni lo studia e lo ristudia «perché è una di quelle opere che richiedono continua riflessione sui tanti livelli di lettura, sottoposta al rovello di quelle simbologie numeriche tanto care a Berg, che serialmente si diverte a mescolare i 3 e i 7, i 6 e i 10, seguendo complessi, segreti, percorsi». Un «gioco» ai bordi della nevrosi, parallelo a quello dello stesso Wozzeck. «Leggerlo in chiave sociale, di 'classe', come usualmente si fa, è riduttivo. Berg va ben oltre: respirando l'aria del suo tempo, attinge più o meno consciamente a Freud. Quando scopre che la sua donna lo tradisce, Wozzeck non è tanto sconvolto dalla gelosia ma dalla rottura della legge. Un 'peccato' insopportabile per uno come lui, che cita in continuazione la Bibbia, sente le voci, interpreta i segni della natura. Un paranoico, uno che potrebbe essere molto elegante, lavarsi spesso... La rottura della legge per lui è la rottura con il superego, con il padre. Un 'padre' che per Berg era Schönberg, chiamato in causa usando lo stesso organico del Maestro». Così la storia del soldato Wozzeck, buono e ingenuo, debole e violento, non è solo più quella di una vittima. Se Wozzeck tingerà a sua volta il mondo di sangue, lo farà per redimere e redimersi da una colpa insostenibile.

Da un articolo di Giuseppina Manin,
Corriere della sera, 25 febbraio 1997

WAGNER DIVIDE PERSINO I NIPOTI: Il caso Wagner «razzista» divide perfino gli eredi. E dopo Mehta e Muti, un altro grande direttore, Giuseppe Sinopoli, interviene sulla querelle di questi giorni. «Io conosco da 17 anni Wolfgang Wagner, il nipote, che al recente convegno sull'antisemitismo ha detto di Richard: 'Ci siamo comportati male e dobbiamo chiedere scusa'. Ho stima di lui, lo reputo il più grande sovrintendente di teatro.
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Ma Wolfgang va tenuto lontano dalle dichiarazioni dei suoi parenti, che sono divisi tra loro in una guerra continua che mira alla scalata al potere di Bayreuth. Quello che dicono va soppesato con qualche sospetto. Penso alle accuse infondate su Wolfgang che liquidano come un vecchio incapace. Ma Wolfgang a 79 anni ha una lucidità e una memoria impressionanti». La discussione ha coinvolto, suo malgrado, anche Sinopoli: «Non è vero quanto ha scritto il quotidiano 'Avvenire' secondo cui avrei cancellato musiche di Wagner dal mio concerto a Montecarlo. Sarebbe rinnegare ciò che sto facendo da 14 anni come direttore stabile a Bayreuth». Sinopoli, che con la musica ha un approccio mediato dalla psicoanalisi, lavora spesso con la Israel Philharmonic, «e ha ragione a non voler infrangere il tabù Wagner. La sua posizione va letta in modo psicodinamico, capito e accettato. Non c'è causalità diretta tra la musica di Wagner e gli orrori del nazismo. Ciò non toglie che le sue opinioni non fossero esenti da ambiguità. I testi di Wagner sull'antisemitismo furono dettati da opportunismo politi co piuttosto che ideologico. Io non farei rientrare il suo 'caso' negli stretti vicoli dell'idealismo di destra. Per il suo progetto a Bayreuth, Wagner aveva bisogno di risorse economiche e appoggi politici che vedevano di buon grado un suo schierame nto anti-ebraico. Questo discorso prescinde dal Wagner compositore e ideatore di un mondo particolarissimo legato alla 'sofferenza' umana che lo apparenta a Schopenhauer ed è presente in tutte le sue opere». Per la prima volta si parla in maniera così netta di Wagner: vuol dire che per Israele si avvicina il superamento del tabù? «Israele è ferma a una reazione emotiva legata al lutto anche familiare. Il tabù è una ferita psicologica, un trauma affettivo, quando comincia elaborare una psicosi prima o poi te ne liberi. Ma non si può ridurre il caso Wagner a un fumettone all'americana, come si è fatto in un intervento del convegno identificando la redenzione di Kundry, la donna vogliosa del 'Parsifal', alla redenzione degli ebrei auspicata da Wagner».

Valerio Cappelli,
Corriere della Sera, 14.8.1998

ELEKTRA DI R. STRAUSS, LA STAATSKAPELLE DI DRESDA: Da una parte, i libri di egittologia, sui quali Giuseppe Sinopoli studia dalle 7.30 alle 9.30 («una meditazione da monaco»): come a simboleggiare lo spazio intimo e profondo dove nasce l'approccio alla partitura di Strauss , che il direttore d'orchestra porterà dopodomani alla Scala. Dall'altra, le invenzioni di Luca Ronconi e di Gae Aulenti, pilastri neri quasi di catrame, piastrelle insanguinate della macelleria, quarti di carne: cioè la macchina del teatro, la fucina dove la partitura diventa opera, spettacolo. I registi sono spesso la croce dei direttori. Sinopoli, che debutta in un'opera alla Scala, spiega: «Ho bisogno di registi con i quali ci si intenda in due parole. Ma non bisogna essere troppo rigidi. La musica, il corpo, lo spazio scenico hanno linguaggi diversi, e non è detto che chi sa gestire il suono sia padrone anche del resto.» [...] «Sono stati giorni di lavoro severo, quelli di Sinopoli con l'orchestra scaligera, che oggi culminano con la prova generale: «Ha mostrato - dice - una serietà e una qualità d'impegno notevoli. La musica esige un serio lavoro artigianale.» La concezione estetica viene dopo: «Qui interviene la cultura personale. Un suono, un timbro, sono legati a suggestioni psicologiche, al contesto storico. Non si possono ignorare, a proposito di Strauss, la pittura di Klimt e Schiele, l'impressionismo. E conoscendo la metrica greca, scopro ritmi classici in questa partitura di danza che è 'Elektra'.» Sinopoli predilige il repertorio tra '800 e '900: «Una scelta nata da un problema culturale che per me è anche esistenziale. La crisi, il trapasso del secolo. E la ricerca degli antecedenti, fino a Beethoven. Indagherò più tardi il '700. Nella mia ricerca rientrano anche Elgar e Puccini, non un verista ma un tipico prodotto della crisi della borghesia italiana. Mi sento profondamente italiano, per me ha un grande peso anche Verdi: energia mediterranea che rimanda a modelli primordiali, violenza espressiva unita a una semplicità musicale. I miei progetti sono Verdi, Puccini, Wagner, Strauss.» Strauss: «È l'autore che più mi ha dato da pensare.» Perché - spiega Sinopoli - bisogna scoprirne gli elementi innovativi, ciò che è solo apparentemente conservazione. Non ama le etichette, il maestro, ma per Strauss propone cautamente l'aggettivo 'postmoderno', tra virgolette. Affronterà la 'Donna senz'ombra', «poi spero di dedicargli un saggio». Dal '92 Sinopoli guida la Staatskapelle di Dresda: il contratto scade nel '97 ma già la programmazione si spinge oltre. Un direttore e un'orchestra: «Il segreto del legame sta nell'onestà. Se c'è onestà culturale e di rapporti sociali, allora s'instaura un vero scambio. Altrimenti si lavora in una rigidità che si riflette nelle esecuzioni. A Dresda il rapporto è di onestà, bellissimo.» La situazione politica italiana gli strappa una smorfia sconsolata, quella tedesca parole pesanti: «La riunificazione non è ancora avvenuta. Nè psicologicamente nè economicamente. E nella cultura le cose sono difficili.» A Berlino la musica è sostenuta generosamente, «a Dresda invece lavoriamo in apnea. I professori dell'orchestra prendono il 20% in meno che all'Ovest, tra mille problemi pratici, una prospettiva che allontana i musicisti occidentali. Ho proposto a chi viene a dirigere la Staatskapelle, per esempio Levine, Ozawa o Barenboim, di ridursi il cachet del 40%, come me. E se voglio fare un'opera devo chiedere la carità ai cantanti, che altrove guadagnerebbero il doppio». Un'idea anche per l'Italia? «Anni fa, a Santa Cecilia, proposi di calmierare gli ingaggi. Arriveremo ad esserci costretti tutti. Nessuno sa cosa significa dirigere un'opera lontano da casa, parlare coi figli al telefono... Io prenderei un decimo rispetto a ora, pur di lavorare vicino alla famiglia.»

A cura di Marco Del Corona,
Corriere della Sera, 26.5.1994

CON WAGNER ALLA RISCOPERTA DELL'IDENTITÀ EUROPEA: [...] Nel tempio di Bayreuth, Giuseppe Sinopoli affronterà da domani le alchimie sonore dell''Anello del Nibelungo'. È il primo italiano nei 124 anni di storia del Festival cui sia stata affidata la monumentale 'Tetralogia': una 'cavalcata' di 15 ore. Un grande onore, trattandosi del 'Ring' che apre il nuovo millennio. Una sfida che, da intellettuale bulimico (mentre era al conservatorio è diventato medico-psichiatra, e ha poi studiato filosofia e archeologia) e cosmopolita (ha vissuto tra Austria e Germania quanto in Italia), affronta con un pensiero fisso: riflettere e far riflettere sull'eclissi del mito, la memoria perduta, la solitudine dell'uomo e il dramma del potere. Temi nei quali si è rispecchiato nelle settimane di prove e che - dice, svelando certe sue ansie - «potrebbero aiutarci a uscire dall'incoscienza che ci uccide un poco ogni giorno, svuotati dalla globalizzazione: una dittatura che omologa il mondo, verso un basso profilo» . Per cui il rapporto sonno-sogno-conoscenza che innerva e scandisce l'opera wagneriana gli sembra quasi un itinerario pedagogico, da ripetere. Ma non è velleitario pensare che il suono di quelle note possa risvegliare un'Europa intorpidita, dove i dentità e radici sembrano a rischio? Wagner l'antidoto contro la globalizzazione, un «dominio» anonimo e invisibile quanto l'orchestra di Bayreuth? «Siamo in una fase di lutto della memoria, e i lutti vanno elaborati chiamando a raccolta le risorse culturali che si posseggono», spiega il maestro. E Wagner «è una grossa risorsa, specie oggi, dato che all' eliminazione delle identità di gruppo corrisponde il risveglio di super-identità dal carattere aggressivo-emozionale». Ha in testa il caso Haider, Sinopoli, con i suoi «rigurgiti volgari di sentimenti, pericolosi perché rischiano di avere brutti riverberi anche nella cultura»: un fenomeno che non dovrebbe comunque contemplare risposte emozionali, perché «ha una base molto diversa dai nazi onalismi di fine Ottocento, che s'incardinavano su una colonna ideologica forte e su un'altrettanto robusta colonna economico-finanziaria». Il leader carinziano non meriterebbe dunque tutte le inquietudini che suscita, perché «dietro di lui c' è un vuoto di pensiero» e del resto la stessa Vienna «non ha un potere economico o militare tale da preoccupare». Ma non era forse «vuoto di pensiero» pure il nazismo, che tentò di utilizzare proprio Wagner? «Per capire quell'operazione, bisogna andare al Wagner che si ripresenta in questo Paese nel 1876, al termine di un lungo esilio e dopo esser stato sulle barricate con Bakunin contro il sistema dei prìncipi tedeschi. Rientra, e all'inaugurazione di questo santuario trova Guglielmo I, la persona che aveva combattuto. Per far nascere il 'progetto di Bayreuth', un sogno sociale che il musicista aveva condiviso con Nietzsche, ha dovuto venire a patti con il liberalismo manageriale tedesco. Per cui se quando partì era Sigfrido, cioè l' antinomia dello Stato borghese, ora che torna è Wotan, è lui stesso un principe, uno che affronta il futuro come se le idealità fossero fallite e non restasse altro che rifugiarsi in un'ufficialità appunto borghese: una svolta che rientra nell' opportunismo che purtroppo caratterizza la sua personalità, con il bisogno di riconoscimenti, potere, danaro. A questo punto avviene il distacco con Nietzsche, che parla di arte malata e lo accusa d' essere un istrione, un genio scenico che schiaccia e allaga la coscienza con l'enorme forza del gesto. C'è del vero, in quel giudizio, e qui io colloco il limite e il pericolo dell'opera wagneriana: quando, in certi casi, alla tragicità del gesto non corrisponde la tragicità del pensiero. Su questa faglia, su questa fessura, è stato possibile al nazismo usare Wagner, perché il nazismo non è tragicità di pensiero, ma tragicità gestuale, è un palazzo con le pareti di carta e vuoto dentro, una sorta di superapparizione del gesto in cui il pensiero non esiste. Naturalmente il pensiero tragico in lui esiste, e va connesso alla tragicità nel senso greco, del pensiero che sonda la sofferenza, la difficoltà a esistere, il male che porta dolore e perdita». Insomma: se si crede all'innocenza dell'arte, Wagner è al di là del bene e del male, al di là di destra e sinistra. Tuttavia ha senso reclutarlo a testimonial contro la rivoluzione in corso? Si può attribuirgli una simile responsabilità? «Il suo è un caso tipico in cui la musica non esaurisce il p roprio compito nell'espressività: pone anche problemi di gnosi, di conoscenza che si allarga alle questioni politico-sociali. Ci induce alla coscienza del vuoto e, proprio nella 'Tetralogia', ci mette dinanzi alla tomba del mito, il che oggi è già un'autoterapia». E l'ultimo mito del Novecento è stato per Sinopoli il comunismo: «Nacque come estremo tentativo d'innalzare l' uomo a una grande dignità ed ebbe una stagione affascinante nell'elaborazione che ne fece Ernst Bloch, con i concetti di utopia e speranza. Era il solo modo per superare la pietrificazione del potere dello Stato, ma tutto è finito come sappiamo: quell' idea di un umanesimo marxista ha subito colpi drammatici, è stata manipolata e malmenata, Bloch buttato fuori dal suo Paese, il comunismo defunto». Dopo è venuta la tabula rasa nella quale beatamente galleggiamo, in una «vacanza dello spirito» che turba il maestro: non sapendo più cosa eravamo, non riusciamo neanche a immaginare cosa diventeremo. Ora, poiché lui ama ripetere che gli interessano «i periodi di crisi che racchiudono la fine di qualcosa e già contengono quel che verrà», che cosa vede nel nostro orizzonte? «La paura, una paura planetaria. Come spiegava Nietzsche, è il sentimento fondamentale dell'uomo, che se ne difendeva attraverso la scienza. Adesso, poiché le ideologie sono annichilite e la scienza è irraggiungibile, protetta nelle sue torri d'avorio, siamo dominati dall'angoscia, e lo dimostra l'uso sempre più massiccio di psicofarmaci. Ma ci interessa vivere in un mondo sotto narcosi? Da dove crediamo che abbiano origine certe sgangheratezze del New Age o certi nazionalismi beceri e aggressivi? Da questa paura per cui tutti si sentono aggrediti: provi a guardare un passante in faccia a New York e osservi come reagisce». Eppure, nonostante il disagio mentale di massa e le slogature culturali, la globalizzazione viene spacciata come un'età dell'oro. «Sì, la fanno apparire come un fenomeno di salvazione, missionario, che distribuisce benessere con il sistema dei vasi comunicanti», s' infervora Sinopoli. «Invece è un rullo compressore di identità e memorie. Un potere opaco e indistinguibile, che demoralizza l'uomo e non riconosce alle differenze il diritto di esistere. Teniamoci caro Wagner, ascoltiamo la sua musica e riflettiamo sul pensiero che c'è dentro, perché un po' ci immunizza contro tutto questo».

A cura di Marzio Breda,
Corriere della Sera, 25.7.2000

LA MUSICA DEVE TORNARE RITO: [...] Quali caratteri rendono inconfondibile la pluricentenaria Orchestra di Dresda?
«In senso tecnico, l'omogeneità del timbro privo di 'eccessi' determinati dalla personalità dei solisti; e il fatto che la straordinaria tra dizione sinfonica, nella quale è cresciuto il complesso, si sia incontrata con il mondo dell'opera lirica, derivando un concetto del suono come fondamentale supporto espressivo. In senso più ampio, l'aspetto 'morale' con il quale la musica viene affrontata. Essere musicisti, a Dresda, significa non solo svolgere una professione ma stabilire una propria identità di uomini attraverso un coinvolgimento profondissimo. E il momento del concerto è un autentico rito».
Perché in Italia, invece, la musica resta in gran parte uno svago, un'occasione di presenzialismo o di pettegolezzo su ciò che i divi fanno a letto?
«A Dresda la musica è stata per molti anni una delle pochissime forme di libertà, e una compagna di solitudine. È tuttora una componente fondamentale nella formazione dell'esistenza. In Italia si è creata, all'opposto, una schizofrenia fra vita e cultura. Quando la musica invade gli spazi sociali lo fa non attraverso i 'propri' strumenti culturali, ma assumendo le forme estranee del protagonismo dei divi. Tutto ciò deriva dall'orribile dilagare dei mass media visivi, che hanno annullato la lettura e frantumato la cultura: gli stessi giornali, gli stessi testi didattici sono ormai scritti secondo un modello 'visivo', con conseguenze gravissime. In Germania non è così».
Alla Scala ascolteremo 'Vita d'eroe' di Strauss, un autore cui Lei è molto affezionato e sul quale è pesata per tanti anni una qualifica di passatismo e di arretratezza culturale.
«Nulla di più sbagliato. Io trovo che la modernità di Strauss stia nella sua posizione storica di autore che si esprime 'dopo il diluvio', dopo il crollo della grande tradizione con la quale intrattengono ancora rapporti Berg, Schönberg e Webern. Strauss, come Stravinskij, ne affronta i resti, le vestigia. Ma per Stravinskij questi resti sono calchi di gesso, dall'aspetto mortuario. Con Strauss, invece, l'utilizzo della grammatica della tradizione produce uno strano fenomeno: essa prende a cantare, dalle pietre nascono sirene, e se ne genera un'autentica commozione. In una simile ambiguità sta il fascino di questo compositore straordinario».
Possiamo dire che Stravinskij utilizza la tradizione senza amarla, e che invece in Strauss ci sia un rapporto affettivo?
«L'unico rapporto di affetto manifestato da Stravinskij è con il mondo del sacro rappresentato dalla tradizione russa ortodossa, rivissuta con lo strazio dell'esule. In Strauss, e penso alla conclusione di 'Vita d'eroe', si avverte la solitudine di chi ha la tradizione nel sangue, e sa che tutto è finito».
Lei, che è stato compositore e ora non compone più, cosa ne pensa? Perché «tutto è finito»?
«Oggi chi compone è un eroe. Ma non è detto che questo eroe ritorni dal suo viaggio con l'immortalità acquisita. L'immortalità artistica non appartiene più alla società di oggi. Viviamo unicamente di un rapporto con la memoria, con ciò che è 'già' stato. E i veleni dei mass media stanno distruggendo anche questo: la visualizzazione ossessiva taglia il nostro rapporto con il mondo degli affetti. Andiamo tristemente verso una solitudine priva di memoria: e io credo che in questo si dia una spiegazione culturale al gran numero di suicidi nelle civiltà più evolute».

A cura di Francesco M. Colombo,
Corriere della Sera, 15.10.1985

UNA BACCHETTA MAGICA PER I GEROGLIFICI: [...] Come Mr. Hide, dotato di doppia vita, anzi tripla: musicista, medico e archelogo. Ormai prossimo alla laurea in egittologia, sono ormai tanti i viaggi di studio cui Sinopoli, allievo di archeologi quali Matthiae e Roccati, ha partecipato. Il suo primo Egitto risale a otto anni fa, da allora vi è tornato con cadenze sempre più ravvicinate. E adesso gli brillano gli occhi pensando a una nuova partenza per la valle dei Templi, «è un progetto che dovrebbe nascere nel '98». Ma come, Maestro, mentre tutti disertano l'Egitto, lei smania per tornare proprio lì?
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Gli integralisti non sono interessati agli studiosi, puntano alle azioni spettacolari». Nessun brivido, quindi? «Un anno fa, per raggiungere Abbido, centro importante del culto osiriaco, luogo magico, invaso da acque terapeutiche per il corpo e l'anima, dovetti essere scortato da poliziotti armati. Mi sembrò una profanazione». Sulla via dell'Egitto si è incamminato quando smise di comporre: «come se la ricerca che facevo con le note fosse stata sostituita da un altro tipo di indagine». L'occasione fu il soggiorno in Israele, dove Sinopoli era alla guida della Israel Philharmonic. Un contatto ravvicinato col mondo mediorientale.
«A colpirmi fu soprattutto la luce mediterranea. Dopo sette anni passati sotto il pallido sole di Vienna, quel sole così violento, assoluto, mi travolse».
E della civiltà egizia il sole è il cardine anche teologico.
«Ra, il dio del Sole, è in rapporto continuo, creativo, con Osiris, il dio della Morte. Una circolarità che racchiude il massimo della luce e il massimo delle tenebre. Il Sole passa dodici ore con i vivi e dodici con i morti. In mezzo, l'ambiguità del tramonto, quando tutto sembra finire e tutto ricomincia. È il concetto artemideo di confine, il limite tra selva e polis, luce e ombra, vita e morte. Sto realizzando per la tv tedesca 'I due occhi di Horus', un film-documento, un viaggio nella mitologia e iconografia della luna e del sole che collego alla 'Notte trasfigurata' di Schönberg e alle 'Metamorfosi' di Strauss, nate sul concetto di rovina. Quel che vorrei mostrare è il sole che anima le rovine».
Che cosa pensa di Christian Jacq, l'egittologo autore della fluviale saga del faraone Ramses?
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Che fa bene il suo mestiere di accalappiatore di lettori. I suoi libri hanno la stessa funzione delle telenovele: fanno sognare gli smaniosi di new age. Ma non dire i che siano un incentivo a studi seri sulla materia. Comunque, sono scelte di vita. Studiosi come Roccati o Donadoni non lo farebbero mai».
Ramses a parte, l'Egittomania non è certo una novità. I suoi momenti di gloria, ricorda Sinopoli, sono stati segnati dalle incisioni del Piranesi, dai fasti kitsch dell'epoca napoleonica, dalle influenze lasciate, all'inizio di questo secolo, sullo Jugendstil.
«Adesso però, a calamitare tanto interesse non sono tanto i fattori estetici. La gente è attratta dall'Egitto per la sua indecifrabilità. In un'epoca dominata dalla tecnologia, c'è bisogno di porsi un'altra volta di fronte al mistero. E i grandi misteri sono sempre due: la vita e la morte. Per affrontarli la razionalità è elusa, servono altre st rade».
Ma sono stati i geroglifici a sedurre Sinopoli.
«Sono una cosmogenesi, un modo di scrivere il mondo riservato a una stretta cerchia, così come a una stretta cerchia è riservata la conoscenza. L'importante era che fossero visti prima ancora che compresi. La stessa cosa si potrebbe dire per la musica. Sono davvero pochi quelli che la ascoltano decifrandone le leggi. Eppure per goderla non ce n'è bisogno».
LA STAATSKAPELLE DI DRESDA: [...] Nonostante le spaventose distruzioni della guerra (che cancellarono in una sola notte la Dresda 'Firenze dell'Elba') e 40 anni di comunismo di stampo sovietico, la Staatskapelle continua a rappresentare nel senso più profondo l'animo musicale tedesco. Non solo per il repertorio eseguito, ma anche per un forte senso di identità collettiva.
«Nella sua storia questo è stato un complesso 'chiuso' in cui l'arte si è tramandata da insegnante ad allievo o addirittura da padre a figlio» - spiega Sinopoli - «Mi capita di dover stimolare chi esegue parti solistiche a distaccarsi dal gruppo compatto che per disciplina è esemplare come la Filarmonica di Vienna. E che negli archi probabilmente non ha eguali al mondo. Insomma, non c'è il protagonismo tipico dei complessi occidentali. In Italia vorrò sottolineare oltre all'alto valore artistico anche questa nobile qualità morale.»
Un italiano in Sassonia, il cuore dell'Europa. Come direttore principale Sinopoli riallaccia un legame antico. Nella Dresda dei secoli passati dipinta mirabilmente da Bernardo Bellotto, allievo del Canaletto (e qui chiamato come il suo maestro), la Staatskapelle fu guidata da Giovanni Andrea Bontempi, Antonio Lotti, Ferdinando Paer, Francesco Morlacchi. Sinopoli, quarantaseienne, ex sessantottino con barba e occhialini, di casa a Bayreuth solo come lo era Toscanini, studente di archeologia «perchè nei miti del Mediterraneo si può trovare il legame con il mondo del Parsifal», vive il suo incarico anche c ome impegno sociale.
«Il problema è fare qualcosa di concreto per mettere questo complesso sullo stesso piano, in termini di mercato, con le grandi orchestre occidentali. La prima regola che ho imposto è stata di fissare un tetto alla paga degli artisti che vengono a esibirsi a Dresda: il 60% del loro cachet abituale. Nessuno ha declinato l'invito. E naturalmente questo vale anche per me. Così il governo di Sassonia può impiegare più risorse per elevare gli stipendi dell'orchestra. Quando sono arrivato il salario dei musicisti equivaleva al 50% dei quello dei colleghi dell'Ovest, adesso è al 74%.»
C'è poi il nuovo rapporto 'egualitaristico' instaurato da Sinopoli.
«Ogni musicista ha libero accesso alla mia posta, sa tutto sull'attività. Con l'orchestra discuto i programmi. Abbiamo così deciso di incrementare accanto a Strauss, Bruckner, Wagner, pilastri del repertorio, la presenza di Mahler, non troppo amato dal socialismo reale, e la scuola viennese, Berg, Schönberg, Webern.»
Per artisti abituati a eseguire programmi comunicati dal ministero della Cultura è stato uno choc. E col maestro italiano la diffidenza si scioglie a poco a poco. Una tradizione d'inizio secolo Alla Semperoper, che nell'800 era definita uno dei teatri più belli del mondo, distrutta dai bombardamenti e ricostruita fedelmente nel 1985 tutto in stucco, la Staatskapelle suona 15 programmi sinfonici per 45 serate all'anno che registrano regolarmente il tutto esaurito. Per 55 giorni si esibisce in tournèe ed effettua dalle sei alle 10 incisioni all'anno. L'Alpensymphonie eseguita per il concerto della Domenica delle Palme, una tradizione incominciata nel 1900, è stata registrata dalla Deutsche Grammophon in audio e video. Spiega Sinopoli:
«La preoccupazione è di non premere troppo l'acceleratore sul business, di non disperdere questo senso religioso del far musica nei falsi miti dell'Occidente.»

A cura di Alessandro Cannavo,
Corriere della Sera, 13 aprile 1993

DIE FRAU OHNE SCHATTEN DI RICHARD STRAUSS: «I due grandi temi della 'Die Frau ohne Schatten' sono il destino a cui siamo sottoposti e che dobbiamo accettare o sfuggire e la possibilità di mutarlo. L'immobilismo dell'imperatore può essere modificato solo da un impulso che l'imperatrice ha dentro di sé e che la spinge verso l'umanità di cui l'ombra è il simbolo» - spiega Giuseppe Sinopoli alla vigilia della prima dell'opera-fiaba di Strauss, in scena stasera alla Scala. [...] La storia della «Donna senz'ombra» è un percorso fantastico in cui si incontrano il mondo superiore degli spiriti e quello inferiore degli uomini, il regno della luna e quello del sole. Protagonista è l'imperatrice, dotata di poteri magici, figlia di Kelkobad signore degli spiriti, e sposa dell'imperatore che l'ha catturata mentre in forma di gazzella (una delle sue tante metamorfosi ) correva libera per i boschi. Ma per acquistare l'ombra, che le permetta la fecondità, la regale donna cala dal mondo celeste e assume il peso della condizione umana. Grazie alla sua compassione verso il tintore Barak e sua moglie, dalla quale voleva ottenere l'ombra, a permetterle di salvare l'imperatore divenuto di pietra. Se il dramma della simbologia è complesso, anche il linguaggio musicale della partitura è elaborato. «Strauss nel momento centrale, quello della trasformazione, termina quest'opera in do maggiore. Per lui questa è la tonalità del mutamento, dell'eternità intesa come incessante rifiorire della primavera - spiega Sinopoli. È ben differente l'uso del do maggiore fatto da Verdi, che lo riserva agli assassini. E riesce attraverso il suono a evocare e far vedere immagini e colori. Qui c'è il senso del blu». Sinopoli trova analogie con 'Parsifal': «Nel tema della metamorfosi rispetto al destino; anche Parsifal fa una rinuncia mosso da compassione. Questa dolce donna fa uscire l'imperatore dalla sua condizione regale per farlo accedere all'umanità».

Laura Dubini,
Corriere della Sera, 14.4.1999