FRIEDRICH NIETZSCHE

FRAMMENTI POSTUMI

VOLUME PRIMO VOLUME SECONDO





11 [1] * Prefazione a Richard Wagner.

So che Lei, mio venerato amico, so che Lei solo distingue assieme a me un concetto vero e uno falso di «serenità greca», ritrovando quest'ultimo - il falso - nella forma di una agiatezza senza pericoli, diffusa ovunque; so del pari che Lei considera impossibile giungere a comprendere l'essenza della tragedia, quando si parta da quel falso concetto di serenità. A Lei deve essere quindi dedicato il saggio seguente sull'origine e lo scopo dell'opera d'arte tragica, dove è stato fatto il difficile tentativo di trasferire in concetti i nostri sentimenti, che sono così mirabilmente in armonia su questo serio problema. Che peraltro noi abbiamo a che fare con un problema serio, dovrà risultare chiaro al lettore ben intenzionato e a quello male intenzionato, con loro grande stupore, quando essi vedranno che per spiegare questo problema bisogna mettere in moto cielo e inferno, e che noi siamo costretti in cwnclusione a porre davvero quel problema al centro del mondo, come un «vortice dell'essere».* Il prendere tanto sul serio un problema estetico è senza dubbio scandaloso in ogni senso tanto per i nostri esteti sensitivi e la loro effeminatezza disgustosa, quanto per quella robusta o corpulenta marmaglia, che nell'arte non è in grado di riconoscere nulla di più che un piacevole accessorio, un tintinnio di sonagli di fronte alla «serietà dell'esistenza»,* di cui certo si potrebbe anche fare a meno: come se nessuno sapesse che cosa voglia dire, in questa contrapposizione, una tale «serietà dell'esistenza». Ma dato che da circoli così diversi si sente riecheggiare nel mondo l'espressione «serenità greca», noi possiamo già essere contenti se essa non va interpretata addirittura nel senso di «comodo sensualismo »: nel significato cioè in cui è stata usata frequentemente, e sempre con un moto intenso di nostalgia, da Heinrich Heine.* Ma coloro la cui lode si arresta alla trasparenza, alla chiarezza, alla determinatezza e all'armonia dell'arte greca, nella fede di poter affrontare ogni aspetto orribile dell'esistenza sotto la protezione del modello greco una specie di uomini cioè, che da Lei, mio venerato amico, è già stata messa in luce con una caratterizzazione incomparabilmente precisa, nel Suo memorabile scritto Sulla direzione d'orchestra* costoro insomma devono essere convinti che in parte è colpa loro se il fondo dell'arte greca sembra loro appiattito, e in parte ciò va attribuito altresì alla più intima essenza della suddetta serenità greca: a questo riguardo voglio suggerire ai migliori fra quelli, che a loro capita come a chi guarda nella luminosissima acqua del lago, attraversata dai raggi del sole, e crede che il fondo del lago sia vicinissimo, che quasi sia possibile toccarlo con la mano. L'arte greca ci ha insegnato che non esiste una superficie veramente bella senza un'orrenda profondità; chi cerca invece quell'arte della pura superficie, deve limitarsi una volta per tutte al presente, che è il vero paradiso per la ricerca di tali tesori, mentre nella luce singolare dell'antichità greca potrebbe accadergli di sdegnare diamanti scambiandoli per gocce d'acqua, oppure pericolo questo anche maggiore, di distruggere splendide opere d'arte per trascuratezza e imperizia. Io mi preoccupo infatti per l'accentuato scavare e frugare nel terreno greco, e vorrei prendere per mano ogni individuo dotato o non dotato, che faccia presagire una certa inclinazione professionale per l'antichità, e vorrei rivolgermi a lui con la seguente perorazione: «Sai quali pericoli ti minacciano, giovane uomo, che ti metti in viaggio con un modesto bagaglio di conoscenze?
Hai sentito dire che secondo il parere di Aristotele* l'essere schiacciati da una statua è una morte non tragica? Eppure ti minaccia proprio questa morte non tragica. Una bella morte, tu dirai, purché si tratti di una statua greca! O forse tu non comprendi neppure ciò che voglio dire? Sappi dunque che da secoli i nostri filologi si adoperano per raddrizzare di nuovo la statua dell'antichità greca, caduta in terra e qui sprofondata, ma che sinora le loro forze sono sempre state insufficienti. Ogni volta la statua, appena sollevata da terra, ricade indietro e frantuma gli uomini che le stanno sotto. Tutto ciò potrebbe anche venir tollerato, poiché ogni essere deve perire per qualcosa. Ma chi può garantire che così facendo non vada in. pezzi anche la statua? I filologi periscono a causa dei Greci: di questo ci si potrebbe consolare. Ma l'antichità va in pezzi sotto le mani dei filologi! Rifletti su ciò, giovane sventato, e iitorna indietro, se non sei un iconoclasta!». Ora non c'è nulla che io desideri di più che di incontrare un giorno qualcuno di fronte al quale sia impossibile tenere questo discorso, un essere di irosa nobiltà, dallo sguardo supremamente orgoglioso e dalla volontà estremamente ardita, un combattente, un poeta e al tempo stesso un filosofo, il cui passo è tale, come se dovesse camminare calpestando mostri e serpenti. Sarà questo eroe futuro della conoscenza tragica, sulla cui fronte splenderà il riflesso di quella serenità greca, l'aureola con cui verrà inaugurata una imminente rinascita dell'antichità, la rinascita tedesca del mondo greco. E difficile che io possa dire, mio venerato amico, in qual modo io congiunga le mie speranze di questa rinascita con l'odierna gloria sanguinosa del nome tedesco. Anch'io ho le mie speranze. Queste mi hanno reso possibile, mentre la terra tremava sotto i passi di Ares, di dedicarmi senza interruzioni, e persino in mezzo ai terribili effetti immediati della guerra, alla considerazione del mio tema; mi ricordo anzi che, mentre in una notte solitaria stavo chiuso con dei feriti in un vagone merci ed ero incaricato di curarli,* i miei pensieri erano immersi nei tre abissi della tragedia, i cui nomi sono «illusione, volontà, dolore».* E onde attingevo allora la confortante sicurezza che quel futuro eroe della conoscenza tragica e della serenità greca non potrà essere soffocato sin dalla nascita da conoscenze e da serenità di natura del tutto diversa?
Lei sa con quale orrore io respinga il pregiudizio secondo cui il popolo, o addirittura lo Stato, debba essere lo «scopo in sé»; tuttavia mi urta allo stesso modo il voler cercare lo scopo dell'umanità nel futuro dell'umanità. Né lo Stato, né il popolo, né l'umanità esistono per se stessi: è nei loro vertici, piuttosto, nei grandi «individui»,* nei santi e negli artisti, che si trova lo scopo, dunque né dinanzi né dietro di noi, ma al di fuori del tempo. Ma questo scopo trascende completamente l'umanità. E i grandi genii alzano qua e là il loro capo, contro ogni aspettativa, non già per preparare una cultura generale, o un'autodistruzione ascetica, o addirittura uno Stato universale. Ma cosa preannunzi l'esistenza del genio, quale sublime scopo dell'essere, non si potrà avvertire che con un brivido. A proposito del santo nel deserto, chi avrà mai l'ardimento di dire che egli non ha còlto il fine supremo della volontà del mondo? E qualcuno crederà davvero che una statua di Fidia possa realmente venir annientata, se non perisce neppure l'idea della pietra, onde essa fu tratta?* E chi potrà dubitare che il mondo degli eroi greci non sia esistito unicamente a causa di un solo individuo, Omero? E concludiamo con una profonda domanda di Friedrich Hebbel:* Se l'artista creasse un'immagine, sapendola eterna, ma sapendo che un unico tratto, nascosto più a fondo degli altri, non sarà riconosciuto da nessuno degli uomini presenti e futuri, fino alla fine del tempo, credete voi che rinunzierebbe a quel tratto?
Da tutto ciò risulta chiaro che il genio non esiste per l'umanità: pur costituendo egli senza dubbio il vertice e lo scopo supremo di essa. Una civiltà non può tendere a nulla di più alto che alla preparazione e alla procreazione del genio. Anche lo Stato, nonostante la sua origine barbarica e i suoi atteggiamenti dispotici, è soltanto un mezzo per questo fine.* E ora le mie speranze!
L'unica forza politica produttiva in Germania, che non occorre precisare a nessuno, è ora giunta alla vittoria nel modo più straordinario, e da questo momento in poi dominerà la natura tedesca fino agli atomi che la compongono.
Questo fatto è di estremo valore, poiché a causa di quella potenza perirà qualcosa che noi odiamo come il vero avversario di ogni più profonda filosofia e considerazione dell'arte, uno stato di malattia di cui la natura tedesca ha sofferto soprattutto dopo la grande Rivoluzione francese, e che contagia, con i suoi periodici spasmi artritici, anche i più dotati spiriti tedeschi, senza parlare della grande massa, da cui quel morbo viene chiamato «liberalismo»' con un'infame profanazione di una parola creata con buone intenzioni. Tutto quel liberalismo, costruito su una sognata dignità dell'uomo,* della specie uomo, morirà dissanguato, assieme ai suoi più rudi fratelli, a causa di quella potenza inflessibile cui si è accennato sopra; e noi rinunzieremo volentieri alle piccole attrattive e alle inclinazioni buone che esso possiede, purché si sgombri dalla strada del genio questa dottrina che è veramente contraria alla civiltà. - E a che cosa dovrebbe mai servire quell'inflessibile potenza, risorta continuamente attraverso i secoli dalle violenze, dalle conquiste e dai bagni di sangue, se non a preparare la strada per il genio?
Ma quale strada!
Forse il nostro futuro eroe della conoscenza tragica e della serenità greca sarà un anacoreta forse egli convincerà le più profonde nature tedesche ad andare nel deserto fortunata l'epoca in cui un mondo interiorizzato attraverso tremende sofferènze ascolterà il canto di quel cigno apollineo!
Mio nobile amico, sino a questo punto mi sarò espresso anche secondo le Sue intenzioni? Potrei quasi supporlo: e ogni sguardo che io getto sul Suo Beethoven mi riporta alle parole: «il tedesco è ardimentoso: lo sia dunque anche nella pace. Disdegni di sembrare ciò che non è. La natura gli ha precluso la piacevolezza; in compenso egli è profondo e sublime».*
Questo ardimento, assieme alle qualità nominate sopra, è l'altro pegno delle mie speranze. Se è vero ciò che si può chiamare la mia professione di fede, ossia che ogni più profonda conoscenza è terribile, chi altri se non il tedesco potrà porsi in quel tragico punto di vista della conoscenza che io esigo come preparazione del genio, come nuovo scopo formativo di una gioventù dalle nobili aspirazioni? Chi altri se non il giovane tedesco* avrà l'impassibilità dello sguardo e lo slancio eroico verso l'immane, così da volgere le spalle a tutte le cagionevoli dottrine della comodità dell'ottimismo liberale in ogni forma e «risoluti vivere»* in modo totale? Nel far ciò, egli, l'uomo tragico, mentre educherà se stesso alla serietà e al terrore, non mancherà di desiderare altresì, nella figura di Elena, la serenità greca che noi intendiamo, e dovrà esclamare con Faust:
E non dovrei, con la più anelante violenza, trarre in vita la forma unica fra tutte?*

Lugano, 22 febbraio 1871, genetliaco di Schopenhauer Friedrich Nietzsche

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12 [1]* Ciò che abbiamo qui stabilito circa il rapporto fra linguaggio e musica deve valere, per le stesse ragioni, anche riguardo al rapporto fra mimica e musica. Anche la mimica, in quanto potenziato simbolismo dei gesti dell'uomo, risulta, se paragonata all'eterna importanza della musica, solo un simbolo, che non può esprimere in alcun modo il più intimo segreto della musica, ma soltanto il suo aspetto ritmico esteriore, e anche questo soltanto in modo molto superficiale, fondandosi cioè sui movimenti passionali del corpo umano. Ma se facciamo rientrare sotto la categoria del simbolismo corporeo anche il linguaggio, e accostiamo, conformemente al canone da noi stabilito, il dramma alla musica: potrà allora presentarsi nella luce più vivida un passo di Schopenhauer (Parerga, volume II, p. 465):* «Si può ammettere, sebbene ciò non sia richiesto da uno spirito puramente musicale, che vengano associate e sottoposte al pura linguaggio dei suoni, pur non avendo questo, nella sua autosufficienza, alcun bisogno di aiuto, parole, e persino un'azione rappresentata in modo evidente, affinché il nostro intelletto, che intuisce e riflette e che non ama rimanere del tutto inoperoso, trovi in ciò un'occupazione facile e analoga, grazie alla quale l'attenzione possa tener dietro e aderire più saldamente alla musica; e al tempo stesso venga posta alla base di ciò che vogliono significare i suoni, nel loro universale linguaggio del cuore, che non ha immagini, un'immagine intuitiva, per così dire uno schema, quasi un'esemplificazione di un concetto universale. Tutto ciò, anzi, accentuerà l'impressione della musica». Se prescindiamo dalla motivazione razionalistica ed esteriore, in base alla quale il nostro intelletto, che intuisce e riflette, non ama rimanere del tutto inoperoso ascoltando la musica, e l'attenzione, se guidata da un'azione intuitiva, risulta più avvinta senza dubbio è pienamente giustificata questa caratterizzazione di Schopenhauer, il quale considera il dramma, rispetto alla musica, come uno schema, come l'esemplificazione di un concetto universale: e quando egli aggiunge: « Tutto ciò, anzi, accentuerà l'impressione della musica», la straordinaria universalità e originarietà della musica vocale e del collegamento del suono con l'immagine e il concetto garantiscono la correttezza di questa dichiarazione. La musica di ogni popolo è all'inizio sempre alleata con la lirica, e molto tempo prima che si possa pensare a una musica assoluta, essa attraversa i più importanti stadi di sviluppo in quella alleanza. Se noi intendiamo questa lirica primitiva di un popolo, come del resto dobbiamo fare, come imitazione dei modelli artistici forniti dalla natura, in tal caso la duplicità essenziale del linguaggio, prefigurata dalla natura, dev'essere da noi considerata come il modello primitivo di quella unione fra musica e lirica: in questa essenza del linguaggio penetreremo ora più profondamente, dopo aver discusso la posizione della musica rispetto all'immagine.
Nella pluralità delle lingue* si rivela immediatamente il fatto che parola e cosa non coincidono completamente e necessariamente, e che piuttosto la parola è un simbolo. Ma che cosa è simboleggiato dalla parola? Certo si tratta soltanto di rappresentazioni, non importa se coscienti oppure, come avviene nella maggior parte dei casi, inconsce:* in effetti, un simbolo verbale come potrebbe mai corrispondere a quella più intima essenza, di cui noi stessi e il mondo siamo immagini? Noi conosciamo quel nucleo solo in forma di rappresentazioni, e possiamo accostarci a esso solo nelle sue espressioni simboliche: al di fuori di ciò, non esiste da nessuna parte un ponte che ci conduca direttamente sin là. Anche l'intera vita istintiva, il gioco dei sentimenti, delle sensazioni, degli affetti, degli atti della volontà come devo obiettare qui contro Schopenhauer* ci risultano noti, se indaghiamo noi stessi con la massima esattezza, unicamente come rappresentazione, non nella loro essenza: e possiamo ben dire che persino la «volontà» di Schopenhauer non sia altro se non la massimamente universale forma dell'apparenza* di un qualcosa che è per noi del resto completamente indecifrabile. Anche se per ciò noi dobbia
mo adattarci alla rigida necessità di non poter mai oltrepassare le rappresentazioni, ci è tuttavia possibile distinguere due generi principali nella sfera delle rappresentazioni. Le prime rappresentazioni si rivelano a noi come sensazioni di piacere e di avversione e accompagnano, come un basso continuo, tutte le altre rappresentazioni. Questa forma più universale dell'apparenza, l'unica partendo dalla quale e sotto la quale noi possiamo comprendere ogni divenire e ogni volere, e per la quale noi vogliamo conservare il nome di «volontà», ha la sua propria sfera simbolica altresì nel linguaggio: e questa sfera, precisamente, è per il linguaggio altrettanto fondamentale, quanto quella forma dell'apparenza lo è per tutte le altre rappresentazioni. Tutte le gradazioni di piacere e di avversione manifestazioni di un unico fondamento primordiale, per noi imperscrutabile trovano un simbolo nei suoni di chi parla: mentre tutte quante le altre rappresentazioni vengono designate attraverso il simbolismo dei gesti di chi parla. In quanto quel fondamento primordiale è il medesimo in tutti gli uomini, anche il sostrato sonoro è universale, e comprensibile nonostante la diversità delle lingue. Da tale sostrato si sviluppa il simbolismo dei gesti, più arbitrario e non del tutto adeguato al suo fondamento: con questo simbolismo prende inizio la molteplicità delle lingue, la cui pluralità noi possiamo paragonare a un testo, composto di strofe, per quella melodia primordiale del linguaggio del piacere e dell'avversione. L'intero campo del consonantismo e del vocalismo noi crediamo di poterlo ricondurre al simbolismo dei gesti senza il suono fondamentale, necessario più di ogni altra cosa, le consonanti e le vocali* non sono altro se non posizioni degli organi vocali, o in breve gesti ; non appena pensiamo che la parola sgorghi dalla bocca dell'uomo, si produce allora per la prima volta la radice della parola, il fondamento di quel simbolismo dei gesti, ossia il sostrato sonoro, l'eco delle sensazioni di piacere e di avversione. Nello stesso rapporto in cui l'intera nostra corporeità sta rispetto a quella forma massimamente originaria dell'apparenza, ossia alla «volontà», così pure sta la parola costituita di consonanti e vocali rispetto al suo fondamento sonoro.
Questa forma massimamente originaria dell'apparenza, la volontà, con la sua scala di sensazioni di piacere e di avversione, giunge peraltro, nello sviluppo della musica, a un'espressione simbolica sempre più adeguata: a questo processo storico corre parallela la continua aspirazione della lirica, a trasporre la musica in immagini: questo duplice fenomeno, in base alla spiegazione fornita or ora, si trova originariamente prefigurato nel linguaggio.
Chi ci ha seguito di buon grado, con attenzione e con una certa fantasia, in queste difficili considerazioni integrando con benevolenza, là dove l'espressione è riuscita troppo scarna o troppo implicita ' avrà in comune con noi il vantaggio di poter esaminare alcune interessanti controversie dell'odierna estetica, o meglio, degli artisti contemporanei, in modo più serio di quanto avvenga di solito, e di poter dare una risposta più profonda a tali questioni.
Dopo tutto quello che si è presupposto, dobbiamo pensare che sia davvero una bella impresa, il voler musicare una poesia, cioè il voler illustrare una poesia attraverso la musica, per aiutare in tal modo la musica a procurarsi un linguaggio concettuale: un mondo alla rovescia, insomma! Un'impresa, a mio parere, simile a quella di un figlio che volesse generare suo padre! La musica può produrre da sé immagini, che saranno poi sempre unicamente schemi e per così dire esempi del loro vero contenuto universale. Ma come potrebbe l'immagine, la rappresentazione, produrre da sé la musica! Tanto meno poi si potrà affermare che il concetto, oppure, come è stato detto, «l'idea poetica»,* sia in grado di fare ciò. Se è certo che dal misterioso castello del musicista si stacchi un ponte, il quale conduce verso la libera terra delle immagini e il lirico passa proprio su questo ponte ' è però impossibile percorrere la strada inversa, sebbene possano esistere alcuni che credono di averla percorsa. Si potrà popolare l'aria con la fantasia di un Raffaello, si potrà contemplare, come egli ha fatto, la Santa Cecilia* che ascolta estatica le armonie dei cori angelici ma nessun suono verrà fuori da questo mondo, apparentemente perduto nella musica, anzi, se noi immaginassimo che davvero, per un miracolo, cominciasse a risuonare quell'armonia, dove mai sparirebbero d'un tratto Cecilia, Paolo e la Maddalena, dove scomparirebbe lo stesso coro degli angeli che cantano! Noi cesseremmo subito di essere dei Raffaelli! E come in quel quadro gli strumenti mondani giacciono a terra spezzati, così la nostra visione pittorica, vinta da qualcosa di superiore, impallidirebbe e si spegnerebbe come un'ombra. Ma come potrebbe mai accadere questo miracolo! Come potrebbe il mondo apollineo, completamente immerso nell'intuizione, il mondo dell'occhio, produrre da sé il suono, il quale simboleggia una sfera che viene vinta ed esclusa proprio dal perdersi apollineamente nell'apparenza! Il piacere per l'apparenza non può suscitare il piacere per la non apparenza: la delizia del contemplare è delizia solo per il fatto che nulla ci ricorda una sfera in cui l'individuazione è spezzata e annullata. Se la nostra caratterizzazione dell'apollineo in antitesi al dionisiaco è in qualche modo giusta, dovrà ora apparirci stravagante e falso il pensiero che voglia in qualche modo attribuire all'immagine, al concetto, all'apparenza, la forza di produrre spontaneamente il suono. Per confutarci, non si potrà richiamare il caso del musicista il quale mette in musica poesie liriche già esistenti: dopo tutto quello che si è detto, noi dovremo infatti sostenere che il rapporto tra la poesia lirica e la composizione del musicista deve essere in ogni caso differente da quello che corre tra il padre e il figlio. Ma quale sarà questo rapporto?
A questo punto possiamo essere attaccati, sulla base di una diffusa concezione estetica, con il principio seguente: «non è la poesia, ma è il sentimento prodotto dalla poesia, ciò che genera la composizione musicale». Non sono d'accordo: il sentimento, l'eccitazione più o meno forte di quel sostrato di piaceri e di avversioni risulta in genere nel campo dell'arte creativa l'elemento in sé non artistico, è anzi la sua completa esclusione, ciò che può rendere possibile la completa concentrazione e l'intuire disinteressato dell'artista. Mi si potrebbe forse obiettare a questo punto che io stesso ho dichiarato poco fa, a proposito della «volontà», che nella musica essa giunge a un'espressione simbolica sempre più adeguata. La mia risposta, riassunta in un principio estetico, è la seguente: la «volontà» è oggetto della musica, ma non è l'origine di essa, parlo cioè della volontà nella sua massima universalità, in quanto è la forma più originaria dell'apparenza, con la quale si deve intendere ogni divenire. Rispetto a questa volontà, ciò che noi chiamiamo sentimenti è già compenetrato sino alla sazietà di rappresentazioni coscienti e inconsce, e perciò non è più direttamente oggetto della musica: tantomeno poi esso potrà produrre da sé la musica. Si prendano ad esempio i sentimenti dell'amore, del timore e della speranza: per via diretta la musica non può più trarne nulla, tanto sovraccarico di rappresentazioni è ormai ciascuno di questi sentimenti. Essi possono tuttavia servire a simboleggiare la musica: è questo che fa il lirico, il quale traduce nel mondo simbolico dei sentimenti quel dominio concettualmente e figurativamente inavvicinabile della «volontà», ossia il vero contenuto e oggetto della musica. Simili ai poeti lirici sono tutti quegli ascoltatori di musica che avvertono un'azione della musica sui loro affetti: per costoro, la potenza lontana e remota della musica si appella a un regno intermedio, che fornisce loro per così dire un gusto anticipato, un concetto simbolico anticipato della musica vera e propria, cioè al regno intermedio degli affetti. Tenendo presente la «volontà», l'unico oggetto della musica, si potrebbe dire che costoro stanno, rispetto a questa volontà, in un rapporto analogo a quello in cui il sogno mattutino, secondo la teoria schopenhaueriana, sta rispetto al vero e proprio sogno.* A tutti coloro che sono soltanto in grado di accostarsi alla musica con i loro affetti, si deve peraltro dire che essi rimarranno sempre nel vestibolo, e non avranno alcun accesso al sacrario della musica:* l'affetto, come ho detto, non è in grado di indicare questo sacrario, ma soltanto di simboleggiarlo. Per quanto riguarda invece l'origine della musica, io ho già dichiarato che non potrà mai ritrovarsi nella «volontà», ma che si trova piuttosto in seno a quella forza che crea fuori di sé, sotto la forma di «volontà», un mondo di visioni: l'origine della musica si trova al di là di ogni individuazione, proposizione, questa, che si dimostra da sé, dopo le spiegazioni da noi fornite riguardo al dionisiaco. In questo luogo vorrei permettermi di porre ancora una volta l'una accanto all'altra, in modo perspicuo, le asserzioni decisive cui siamo stati indot p ti dallo studio sull'antitesi fra dionisiaco e apollineo. La «volontà», in quanto forma massimamente originaria dell'apparenza, è oggetto della musica: in questo senso la musica può venir chiamata imitazione della natura, ma della forma più universale della natura. La «volontà» come tale e i sentimenti in quanto manifestazioni della volontà già compenetrate di rappresentazioni sono del tutto incapaci di produrre da sé la musica: d'altro canto, alla musica è completamente negato di rappresentare sentimenti, di avere come oggetto sentimenti, poiché il suo unico oggetto è la volontà. Chi si procura sentimenti come effetti della musica, trova in essi per così dire un simbolico regno intermedio, che può fargli pregustare la musica, ma che al tempo stesso lo esclude dai sacrari più intimi di essa. Il poeta lirico interpreta per se stesso la musica attraverso il mondo simbolico degli affetti, mentre egli stesso, nella quiete dell'intuizione apollinea, è sottratto a quegli affetti. Di conseguenza, quando il musicista compone la musica di una poesia lirica, egli, in quanto musicista, non è mosso né dalle immagini né dal linguaggio sentimentale del suo testo: piuttosto, una commozione musicale che gli giunge da sfere del tutto diverse sceglie quel testo poetico in quanto espressione simbolica di se stessa. Non si può quindi parlare di una relazione necessaria tra poesia e musica; poiché i due mondi, qui posti in relazione, del suono e dell'immagine sono troppo lontani per poter entrare in qualcosa di più di un rapporto esteriore; la poesia è soltanto un simbolo e sta rispetto alla musica nello stesso rapporto in cui il geroglifico egiziano del coraggio sta rispetto al guerriero coraggioso. Di fronte alle supreme rivelazioni della musica noi sentiamo anzi senza volerlo la grossolanità di ogni espressione figurata e di ogni affetto che si voglia addurre per analogia: gli ultimi quartetti di Beethoven, per esempio, si lasciano completamente dietro ogni perspicuità, e in genere l'intero mondo della realtà empirica. Di fronte al dio supremo, che si rivela davvero, il simbolo non ha più alcun significato: anzi appare ormai come un'esteriorità offensiva.
Spero che nessuno se ne avrà a male se, partendo da questo punto di vista, noi prenderemo in considerazione, per parlarne con tutta franchezza, altresì l'ultimo tempo, inaudito e non analizzabile nei suoi effetti magici, della Nona Sinfonia di Beethoven. Che al giubilo ditirambico di questa musica, giubilo per la redenzione del mondo, sia del tutto incongruente la poesia schilleriana Alla gioia, che anzi essa venga sommersa, come una smorta luce lunare, da quel mare di fiamme, è per me il più sicuro fra i sentimenti, che nessuno potrà togliermi. In generale, poi, chi vorrà mai contestarmi che quel sentimento, quando si ascolta la suddetta musica, non giunge a esprimersi clamorosamente solo perché noi, resi dalla musica del tutto incapaci di immagini e di parole, non ascoltiamo ormai più nulla della poesia di Schiller? Tutto quel nobile slancio, la sublimità anzi dei versi schilleriani, agisce in modo perturbante, inquietante, persino grossolano e oltraggioso di fronte alla melodia popolare, autenticamente ingenua e innocente, della gioia: sennonché il fatto che i versi non vengano uditi, per il dispiegarsi sempre più pieno del canto corale e della massa orchestrale, tiene lontano da noi quel senso di incongruenza.* Che cosa dobbiamo dunque pensare riguardo a quell'orribile superstizione estetica secondo cui Beethoven stesso, con quel quarto tempo della Nona, avrebbe fatto una solenne ammissione sui limiti della musica assoluta, anzi avrebbe in tal modo dischiuso in un certo senso le porte a una nuova arte, in cui la musica sarebbe capace di rappresentare persino l'immagine e il concetto e quindi si renderebbe accessibile allo «spirito cosciente»?* E che cosa ci dice Beethoven stesso, ponendo un recitativo all'inizio di questo canto corale? «Amici, non questi accenti: intoniamo un canto più gradevole e più gioioso! ». Più gradevole e più gioioso! Per fare questo, egli aveva bisogno del suono persuãsivo della voce umana, aveva bisogno dell'innocenza del canto popolare. Il sublime maestro non fece ricorso alla parola, bensì al suono «più gradevole», non cercò il concetto, ma la voce più intima e più ricca di gioia, nell'intenso desiderio di giungere a una sonorità piena e totalmente espressiva della sua orchestra. E come lo si poteva fraintendere! Si può dire piuttosto, riguardo a questo tempo, proprio ciò che ha detto Richard Wagner riguardo alla grande Missa solemnis, da lui chiamata «un'opera puramente sinfonica del più autentico spirito beethoveniano » (Beethoven, p. 47). « Le voci del canto sono qui trattate completamente nel senso di strumenti umani, che è l'unica funzione che Schopenhauer molto giustamente voleva assegnata a esse: il testo sottoposto al canto, proprio in queste grandi composizioni religiose, non viene inteso da noi nel suo significato concettuale, ma serve piuttosto, nel senso dell'opera d'arte musicale, unicamente come materiale per il canto, e non turba il nostro sentimento musicalmente determinato solo per il fatto che non ci spinge in alcun modo a rappresentazioni razionali, ma ci tocca, come d'altronde è richiesto dal suo carattere ecclesiastico, solo con l'impressione di ben note formule simboliche di fede».* Non dubito d'altronde che Beethoven, nel caso che avesse scritto la sua progettata decima sinfonia e ne esistono ancora degli schizzi ' avrebbe scritto appunto la decima sinfonia. Dopo queste osservazioni preliminari, avviciniamoci ora alla discussione dell'opera, per poter procedere in seguito, partendo da essa, verso la sua controparte, la tragedia greca. Ciò che avevamo da osservare nell'ultimo tempo della Nona, dunque al vertice supremo dello
sviluppo della musica moderna, che cioè il contenuto verbale si sommerge senza essere udito nel mare universale del suono, non è nulla di isolato e di singolare, bensì costituisce la norma universale ed eternamente valida per la musica vocale di tutti i tempi, l'unica norma conforme all'origine della poesia lirica. L'uomo eccitato dionisiacamente, come pure la massa popolare orgiastica, non ha affatto un ascoltatore cui abbia da comunicare qualcosa: tale comunicazione, senza dubbio, è presupposta invece dal narratore epico, e in generale dall'artista apollineo. Sta piuttosto nell'essenza dell'arte dionisiaca il non tenere in considerazione l'ascoltatore: l'entusiastico seguace di Dioniso, come ho detto in una precedente occasione, viene compreso soltanto dai suoi simili. Se invece immaginiamo un ascoltatore che assista a quegli sfoghi endemici dell'eccitazione dionisiaca, dovremmo predirgli un destino quale toccò a Penteo, scoperto a spiare: il destino cioè di essere sbranato dalle Menadi.* Il poeta lirico canta «come l'uccello canta»,* da solo, spinto dalla più intima necessità, e deve ammutolire, quando gli compare di fronte un ascoltatore che pretende qualcosa. Sarebbe perciò del tutto innaturale chiedere al poeta lirico che siano comprese altresì le parole del testo del suo canto, innaturale, poiché questa è una richiesta dell'ascoltatore, il quale di fronte allo sfogo lirico non può far valere alcun diritto. Ci si domandi allora una buona volta onestamente, tenendo in mano le poesie dei grandi lirici antichi, se a essi può mai essere venuto in mente di chiarire il loro mondo di immagini e di pensieri alla moltitudine popolare che stava intorno ad ascoltare: si provi a rispondere a questa seria questione, tenendo lo sguardo fisso su Pindaro e sui canti corali di Eschilo. Queste arditissime e oscurissime tortuosità di pensiero, questo vortice di immagini che si riproduce impetuosamente in forme sempre nuove, questo tono oracolare dell'insieme, che noi, senza essere distratti dalla musica e dalla danza, così spesso non riusciamo ad afferrare, nonostante l'attenzione più tesa tutto questo mondo di miracoli doveva forse essere trasparente come il vetro, risultare anzi un'interpretazione simbolicoconcettuale della musica per la moltitudine greca? E con quei misteri di pensiero, quali sono contenuti in Pindaro, forse che il meraviglioso poeta voleva chiarire ancora di più la musica già in sé efficacemente chiara? Non si dovrebbe forse in questo caso riuscire a comprendere profondamente che cosa è il lirico, cioè l'uomo artistico, che deve interpretare per se stesso la musica mediante il simbolismo delle immagini e degli affetti, ma che non ha nulla da comunicare all'ascoltatore: e che dimentica addirittura, nel suo completo rapimento, chi stia avidamente ad ascoltare nelle sue vicinanze. E come il lirico canta il suo inno, così il popolo canta il suo canto popolare, per se stesso, spinto da un impulso intimo, e senza preoccuparsi se la parola sia comprensibile per chi non partecipa al canto. Pensiamo alle nostre proprie esperienze nel campo della più alta musica d'arte: che cosa possiamo comprendere del testo di una messa di Palestrina, di una cantata di Bach, di un oratorio di Handel se non partecipiamo noi stessi al canto? Una lirica, una musica vocale esiste soltanto per chi partecipa al canto: l'ascoltatore sta di fronte a tutto ciò come di fronte a una musica assoluta.
L'opera, peraltro, secondo le più chiare testimonianze, prende inizio dalla pretesa dell'ascoltatore di comprendere le parole. *
Ma come? L'ascoltatore pretende? La parola dev'essere compresa?