FERRUCCIO BUSONI WEBSITE


FRIEDRICH NIETZSCHE

ANTOLOGIA DI SCRITTI
BIOGRAFICI E FILOSOFICI



I. UMANO...

PRIMA DELLA NASCITA DELLA TRAGEDIA

LA MIA PRIMA GIOVINEZZA INTELLETTUALE

Quando entrai a Pforta avevo già gettato un'occhiata alla maggior parte delle scienze e delle arti e, in fondo, provavo interesse per tutte, ad eccezione della scienza intellettuale per eccellenza, la matematica, che proprio mi annoiava. Ma, alla lunga, provai fastidio per il mio modo di vagare senza metodo in tutti i domini dello scibile; volli costringermi a limitare i miei interessi per meglio penetrare la base di ogni cosa, e riuscii a dar libero corso alla mia aspirazione fondando con due amici che condividevano le mie idee una piccola società di studi scientifici allo scopo di ampliare le nostre conoscenze. L'obbligo di consegnare ogni mese le dissertazioni e composizioni musicali che si sovrapponeva alle nostre riunioni trimestrali costrinse i nostri spiriti ad esaminare più da vicino campi più limitati ma interessanti; d'altra parte, lo studio approfondito delle regole della composizione musicale attenuò il mio pericolo di diventare superficiale a forza di improvvisazioni.
In questo tempo il mio interesse per gli studi classici cresceva di continuo; conservo ancora un bellissimo ricordo delle prime impressioni lasciatemi da Sofocle, Eschilo, Platone - particolarmente nel Convivio, mio poema preferito - e infine dai poeti lirici greci. E provo ancora il vecchio desiderio di approfondire il mio sapere: più che naturale dunque che in generale abbia una cosí scarsa considerazione dei miei propri studi e degli altrui, perché quasi ogni materia che allora mi trovavo a trattare mi pareva insondabile o per lo meno difficile a sondare. Citerò dunque quel solo tema che in tutta la carriera di scolaro mi abbia dato una qualche soddisfazione: lo studio sulla leggenda di Ermanarich. E oggi, al momento di entrare all'università, sono queste le inviolabili norme che devono regolare la mia futura carriera scientifica: combattere in me la tendenza a tutto sapere, perché essa porta alla superficialità; sviluppare la mia inclinazione a ricercare le ultime e più profonde ragioni di ogni cosa. Queste due tendenze sembrano doversi controbilanciare, e la cosa, in certi casi, non è certamente un male; credo talvolta di notare in me qualcosa di analogo. Ma combattendo l'una, incoraggiando l'altra, spero di riuscire a vincere.

(Correspondance ediz. francese, Paris, P.U.F., 1932, pp. 76-77).

LETTERA ALLA, SORELLA: SULLA FEDE RELIGIOSA

Bonn, 11 giugno 1865.

[...] Quanto al tuo principio che il vero sia sempre il più difficile, te lo concedo solo in parte. E a proposito, è difficile concepire che 2 X 2 non facciano 4; sarà dunque più vero a causa di tale difficoltà?
D'altra parte, ci è poi veramente difficile accettare semplicemente tutte le idee nelle quali siamo stati educati, che hanno messo in noi radici profonde, le idee che passano per verità nella cerchia dei nostri genitori e di molte eccellenti persone e che, per di più, consolano ed elevano veramente l'uomo? Ed è forse più difficile lottare contro le abitudini, in preda all'insicurezza di chi procede solitario, con frequenti esitazioni nel cuore e nella coscienza, spesso piombando nella disperazione, ma pur sempre continuando a lottare su nuove strade alla ricerca dell'eterno scopo: il Vero, il Bello, il Bene?
Ciò che importa è dunque giungere alla concezione di Dio, del mondo, e del conforto che più ci fanno comodo? Il vero ricercatore non considera, al contrario, il risultato della propria ricerca come qualcosa di completamente indifferente? Nelle nostre ricerche cerchiamo forse il riposo, la pace, la felicità? No! Solo la verità, fosse la più terribile e orrida.
Un'ultima domanda: se fin dalla nostra giovinezza avessimo creduto che ogni salvezza fosse emanata da altri che non da Gesù, diciamo da Maometto, non è forse certo che avremmo partecipato alle medesime benedizioni? Certamente ciò che è una benedizione è la fede in sé e per sé, non il suo oggetto, non ciò che si nasconde dietro. Ti scrivo questo, mia cara Lisabeth, solo per confutare in anticipo gli argomenti abituali dei credenti che ti fondano sulla propria intima esperienza per dedurne l'infallibilità della propria fede. Ogni vera fede è veramente infallibile; realizza ciò che il credente spera trovarvi, ma non offre il minimo appiglio alla verità obbiettiva. Qui si separano le vie degli uomini: cerchi la pace dell'anima e la felicità, credi; vuoi la verità per guida, ebbene, cerca.

(Ibidem, pp. 87-88).

SGUARDO RETROSPETTIVO SUGLI ANNI PASSATI A LEIPZIG

Leipzig, agosto 1867.

Non so qual demone allora mi sussurrasse: «Porta con te questo libro» [Si tratta del Mondo come volontà e come rappresentazione di Schopenhauer]. In ogni caso fu contrario alle mie abitudini il farlo, perché non amo affrettare l'acquisto di libri. A casa, mi sprofondai col mio bottino nell'angolo del sofà abbandonandomi all'influenza di questo energico e cupo genio. Lì ogni riga gridava la rinuncia, la negazione, la rassegnazione; lì, in uno specchio, vedevo le immagini grandiose d'orrore del mondo, della vita, della mia stessa anima; lì, come un sole, il grande occhio dell'arte mi fissava, distaccato da tutto; lì, si trovavano malattia e guarigione, esilio e rifugio, inferno e cielo. Fui violentemente stretto dal bisogno di conoscere e quasi di sezionare me stesso. Le pagine di diario di allora, così inquiete e melanconiche, ne sono testimoni, con quelle inutili accuse contro me stesso e quegli sguardi disperati che imploravano la santificazione e trasmutazione di tutto il cuore dell'uomo. A furia di citare tutti i lati del mio carattere e tutte le mie aspirazioni al tribunale del profondo disprezzo di me, finii col diventare amaro, ingiusto e sfrenato nell'odio che contro di me nutrivo. Né mancarono i tormenti fisici. Mi obbligai, per esempio, per due settimane consecutive a coricarmi alle due del mattino per poi alzarmi puntualmente alle sei. Mi colse allora un'eccitazione nervosa e non so a qual grado di follia sarei ancora giunto se non vi avessero messo freno le attrattive della vita e la vanità e costrizione degli studi regolari.

(Ibidem, p. 100).

AL BARONE DI GERSDORFF:
SULLA VERITÀ PER DECRETI

Leipzig, 26 aprile 1867

[...] questo [discorso] mi ricorda una storia accaduta di recente; fornisce un tangibile esempio di «malattia del sapiente». Proprio per questo sarebbe meglio non parlarne, ma ti divertirà, perché sembra la pura e semplice trasposizione nella vita reale dello studio di Schopenhauer sui «professori di filosofia».
In una città un giovane dotato di notevoli capacità e particolarmente incline alla speculazione filosofica si era proposto di conseguire il grado di dottore. A questo scopo mette ordine nel sistema faticosamente elaborato in molti anni sugli «schemi fondamentali della rappresentazione», cosa che lo rende fiero e soddisfatto. In questo stato d'animo presenta la sua tesi alla facoltà di filosofia della città in questione, che era anche sede di un'università. Due professori di filosofia erano incaricati di dare il giudizio; si comportarono nel modo seguente: il primo rilevò che il giovane aveva talento ma sosteneva idee mai insegnate da quelle parti; il secondo dichiarò che le opinioni esposte erano contrarie al senso comune e paradossali. Perciò la tesi fu respinta e il giovane non ottenne il berretto di dottore. Fortuna vuole che non abbia l'umiltà di riconoscere in quel giudizio la voce della saggezza; è anzi tanto tracotante da affermare che certe facoltà di filosofia sono del tutto sprovviste di «facoltà filosofiche».
Breve, mio caro, non si è mai eccessivamente indipendenti nel seguire la propria strada. Di rado la Verità dimora nei luoghi in cui le sono stati eretti templi e consacrati sacerdoti. Sia che facciamo qualcosa di buono o di insensato, tocca a noi sopportarne le conseguenze e non a coloro che ce ne hanno dato consiglio, buono o cattivo che fosse. E allora, ci si lasci per lo meno il piacere di fare le sciocchezze che ci piacciono. Non esistono decreti generali utili a tutti.

(Ibidem, pp. 119-120).

AL BARONE DI GERSDORFL:
IL «GENIO» WAGNER

Albergo Pilato Klimsenhorn
4 agosto 1869.

[...] Ho scoperto un uomo che mi ha rivelato più di chiunque altro ciò che Schopenhauer chiama «il genio», e che è completamente penetrato di questa meravigliosa filosofia cosi profondamente sentita. Altri non è che Richard Wagner, e non credere a nessun giudizio che di lui abbiano dato musicisti e musicologi. Nessuno lo conosce né può giudicarlo, perché tutti partono da principi diversi dai suoi e non possono respirare bene nella sua atmosfera. In lui regna una cosi assoluta idealità, una così profonda e toccante bontà, una serietà cosi sublime che al suo fianco mi par d'essere vicino al Divino. Quanti giorni non sono già passati con lui nella sua deliziosa campagna sulle rive del lago dei Quattro Cantoni, e il suo meraviglioso carattere svela sempre nuovi e inesauribili aspetti.

(Ibidem, p. 161).

A ERWIN ROHDE: «ORIGINE E SCOPO DELLA TRAGEDIA»

Lugano, Albergo del Parco
29 marzo 1871.

Devo dar prova di me e giustificare le mie capacità filosofiche. A questo scopo ho appena completato un piccolo studio intitolato Origine e scopo della tragedia: mancano solo alcuni tocchi di pennello.

(Ibidem, p. 184).

A ERWIN ROHDE: IL SENSO DIONISIACO E LA MUSICA

Basilea, 20 dicembre 1871

Mi sento comunque rassicurato in maniera mirabile su quanto io penso della musica, e ne ricavo una testimonianza dalla vita che conduco in queste settimane con Wagner a Mannheim. Oh, mio amico, avessi potuto esserci anche tu! A che cosa si riducono tutti gli altri miei ricordi e tutte le altre mie esperienze, paragonate a queste che io sto vivendo? Mi accade quanto accade a colui al quale un presentimento si trasforma in realtà. Quella è la vera musica, e soltanto quella! Quando esprimo il senso dionisiaco con la parola «musica», ebbene soltanto quella musica io intendo! E quando penso che soltanto poche centinaia di uomini della prossima generazione troveranno nella musica quanto vi trovo io, allora mi auguro che la cultura si rinnovi veramente dalle sue radici. Tutto quanto non è compreso nelle idee musicali, nei rapporti della musica, provoca in me non altro se non nausea e avversione. Quando uscii dal concerto di Mannheim, provai davvero uno strano e oscuro orrore della realtà del giorno [...] Con Jacob Burckhardt ho passato alcune belle giornate, discorrendo a lungo della civiltà ellenica. Forse in questi tempi c'è parecchio da imparare a Basilea. Il tuo saggio su Pitagora piacque molto a Burckhardt, che ne ha tratto alcuni passi per suo uso: quello che tu scrivi intorno all'evoluzione della concezione pitagorica è un punto d'arrivo non mai prima raggiunto. Anch'io ho meditato, su Platone, e ne ho tratto alcune idee importanti: penso che noi due un giorno intraprenderemo a riscaldare e illuminare la storia della filosofia greca, che fino a oggi è stata cosí meschinamente imbalsamata. Quanto vorrai esporre su temi filosofici generali non farlo stampare dalle maledette riviste filologiche: aspetta che escano i «Bayreuther Blätter»! Sono lieto del saggio critico che hai promesso di pubblicare sul giornale di Zarncke e te ne sono già sin d'ora grato. Caro amico, abbiamo ancora da percorrere un lungo tratto di vita: ubbidiamo fedelmente al nostro compito.

(Ibidem, p. 164).

A ERWIN ROHDE: BISOGNA MOSTRARE
I DENTI A QUESTA GENTUCCIA ACCADEMICA

Basilea, 30 aprile 1872

[...] ed ecco che constato di riuscire ridicolo ai dotti accademici: neanche per lettera privatamente si complimentano con me. Proprio ora è uscito l'«Index» del Museo Renano: ebbene né Ritschl né Klette hanno trovato una parola graziosa per me e per questo mio lavoro sul quale ho speso fatiche grandi! Già il mio saggio su Omero, sebbene non pubblicato, è stato compianto: «Ancora un lavoro come questo, e Nietzsche è rovinato!» [Si tratta della Nascita della tragedia (1869-1871)]. Allora è necessario che io mostri i denti a questa gentuccia accademica che via via si fa sempre più oltracotante e così la costringa a battere il naso sulle cose che con i suoi occhi miopi non riesce a vedere. Perciò non stampo ora le mie sei conferenze, ma soltanto il prossimo inverno, dopo che le avrò rielaborate a fondo. Ah, quale gioia, mio amico, il trovarci insieme dentro questa trincea accademica e agitarvi le fiaccole incendiarie! La tua ultima lettera mi ha riempito di gratitudine per te: non so dirti come, pur nutrendo tanti progetti e tante speranze, mi sentirei disperatamente solo se non mi fosse possibile pensarti. Il tuo amore, dice Falstaff, vale per me un milione. A Bayreuth ci diremo tante cose, che in una lettera non si contengono, a pena di farla divenire troppo lunga. Ti dirò soltanto questo: è probabile che per un semestre ancora io resista alla vita universitaria e che proroghi la benedetta fuga verso il sud nel momento nel quale la mia posizione sia divenuta insostenibile e flau-scant...

(Ibidem, p. 187).

A MATILDE MAIER: LA PRIMA RIBELLIONE AL
TRIONFALISMO MONUMENTALE DI BAYREUTH

Interlaken, 15 luglio 1878

Quel metafisico oscurare quanto è semplice e vero, la lotta della ragione contro la ragione, per la quale si vuole scorgere in tutto un miracolo e un portento, insieme con l'arte barocca dell'esaltazione e del panegirico esorbitante - io parlo dell'arte di Wagner - sono le due ragioni del fatto che sono caduto ammalato, ammalato sempre di più, e quasi esse stavano per corrompere il mio temperamento, le mie naturali inclinazioni. Voi avete veduto come io viva sulle alte vette, nell'aria pura, e con quale benignità io guardi laggiù agli uomini che abitano ancora nell'afose bassure, più che mai deciso a dedicarmi a quanto è buono e ardito, sempre più vicino che non nel passato ai Greci; avete veduto come anche nelle piccole questioni io combatta per la saggezza, mentre prima mi accontentavo di onorare i saggi e di entusiasmarmene. Insomma se voi riusciste a intuire questo mio mutamento, questa mia crisi, desiderereste certamente di provare anche voi questo mio sentimento! Nell'estate passata a Bayreuth [L'estate del 1876, quando fu inaugurato il teatro wagneriano di Bayreuth, in un'atmosfera di trionfalismo «ufficiale»] io maturai in me d'improvviso questo nuovo sentimento. Dopo che ebbi assistito alla prima rappresentazione, fuggii sulla montagna, in un piccolo villaggio fra i boschi, e là gettai un primo abbozzo di un libro cui detti il nome di Vomere. Poi, persuaso da mia sorella, tornai a Bayreuth, e così riuscii a padroneggiarmi al punto da sopportare l'insopportabile e tacere alla presenza di tutti! Adesso mi sbarazzo di tutto quanto non mi appartiene: uomini, siano essi amici o nemici, abitudini, piacevolezze, libri. Da anni vivo in solitudine, fin quando, filosofo della vita, maturo e pronto, potrò (e allora forse anche dovrò) tornare a frequentare il mondo...

(Ibidem, p. 363).

A MAIWIDA VON MEYSENBURG:
IL TERRIBILE MARTIRIO DELLA MIA VITA

Naumburg, 14 gennaio 1880

Quantunque lo scrivere sia divenuto per me un frutto proibito, tuttavia non posso fare a meno che Voi, che io amo e onoro come una sorella maggiore, riceviate ancora una mia lettera ma sarà certamente l'ultima! Infatti il terribile e quasi continuo martirio della mia vita mi costringe a desiderarne la fine e, a giudicare da alcuni sintomi, l'apoplessia che mi libererà è così imminente che io posso veramente sperare nella morte. Non c'è vita d'asceta che, quanto a tormenti e rinunce, possa paragonarsi alla mia di questi ultimi anni. E tuttavia mi sono conquistato una profonda purificazione e una grande serenità: non ho più bisogno né della religione né dell'arte. Ne sono, io vedete, orgoglioso: l'abbandono da parte di tutti ha fatto si ch'io scoprissi in me le più profonde fonti dalle quali trarre aiuto. Ho assolto, penso, il mio più importante compito, ma come colui senza dubbio al quale non è stato lasciato il tempo necessario. So però di aver versato una goccia almeno di olio salutare, di aver indicato a molti la via dell'elevazione, della pace interiore, della giustizia. Sto scrivendo una dichiarazione che avrebbe dovuto essere postuma, dichiarata soltanto quando fosse finita la mia «umanità». Nessun dolore ha potuto e potrà spingermi a dare alla vita una falsa testimonianza sulla vita: la vita così come io la vedo...

(Ibidem, p. 394).

A FRANZ OVERBECK: NON HO COMPIUTO
INVANO LA MIA CROCIERA SOLITARIA

(ricevuta da Nizza l'8 dicembre 1883)

Abbi ancora pazienza con me, come ne hai avuta finora! Se faccio il computo delle ore buone che ho vissuto, e dei, minuti - in verità così rari - mi giudico un mortale fortunato. È vero: anche fra queste ore ve ne sono di quelle che hanno quasi toccato la disperazione: ecco perché tu devi pazientare con me. Ma considerando le ore buone, sono convinto che non ho compiuto invano per anni e per anni la mia crociera solitaria. Ho scoperto il mio «paese nuovo» del quale nessuno aveva mai avuto notizia; e ora è certo che io debbo conquistarmelo, paso dietro passo. Di tutti i buoni incontri, quello che più mi dispiacerebbe di perdere è la «letizia della conoscenza». Ora occorre che con il mio figliuolo Zarathustra io mi levi a una letizia ben più alta, che finora non mi è riuscito di descrivere con le parole. La felicità che io ho descritta nella mia Gaia scienza è in fondo la letizia di un uomo che incomincia a sentirsi maturo per una grande missione e che ha acquisito tutti i diritti per assolverla... il libro tutto quanto ribocca di messaggi che dicono: «L'ora è venuta! Apparecchiamo sin d'ora una festa allietata da canti e da danze!». La mia disgrazia reale di questi due ultimi anni è stata l'aver creduto di aver trovato un essere umano [si allude a Lou Salomé] che si proponesse lo stesso mio compito. Senza questo pregiudizio, non avrei sofferto sino a tal punto il sentimento della solitudine (e dell'incomprensione, del disprezzo, e di quanto ne consegue) e non ne soffrirei come ne soffro, perché ero pur pronto a compiere da me solo il viaggio dell'esplorazione. Ma allorché sognai a un certo punto di non essere solo, questo fu il momento più pericoloso. Ancora oggi mi sorprendono ore nelle quali non riesco a sopportare me stesso. L'altra disgrazia fu l'inverno eccezionalmente aspro, e anche l'ultima estate, pessima. Io sono fatto per vivere nella luce: la sola cosa cui non posso rinunciare, per me insostituibile, è la luce piena di un cielo sereno. Genova non mi era stata benigna: soltanto ora ho appreso da una statistica che Genova in tutto l'anno gode di un minor numero di giorni sereni di quanti ne gode Nizza in sei mesi; perciò sono partito subito alla volta di Nizza...

(Ibidem, p. 413).

IL TRAGICO

L'OPERA D'ARTE PER ECCELLENZA...

Compiremo un decisivo progresso in estetica quando avremo compreso, non come visione razionale ma con l'immediata certezza dell'intuizione, che l'evoluzione dell'arte è legata al dualismo di apollineo e dionisiaco, come la generazione è legata alla dualità dei sessi, alla loro eterna lotta intervallata di provvisori accordi. Prendiamo a prestito questi due termini dai greci; se ben compresi, esprimono non in concetti ma nelle forme distinte e convincenti delle divinità greche, le verità segrete e profonde delle loro credenze estetiche. Le due divinità protettrici dell'arte, Apollo e Dioniso, ci suggeriscono che nel mondo greco esiste un prodigioso contrasto, nell'origine e nel fine, tra l'arte dello scultore, o arte apollinea, e l'arte non scultorea della musica, quella di Dioniso. Questi due cosí diversi istinti procedono fianco a fianco, più spesso in stato di aperto conflitto, reciprocamente eccitandosi a nuove e più vigorose creazioni, per perpetuare tra essi quel conflitto dei contrari che solo in superficie viene celato dal nome di arte ad ambedue comune, fino a che, infine, per un miracolo metafisico del «volere» ellenico compaiono uniti, e nell'unione finiscono col generare l'opera d'arte contemporaneamente dionisiaca e apollinea, la tragedia greca.

(Die Geburt der Tragödie, paragraf. 1).

APOLLINEO E DIONISIACO SGORGANO DIRETTAMENTE
DALLA NATURA SENZA LA MEDIAZIONE DELL'ARTISTA

[...] cosí la natura comincia col soddisfare direttamente i suoi istinti estetici, e ciò in due modi: nell'immaginosca mondo del sogno, la cui perfezione non ha nessun rapporto col livello intellettuale o con la cultura estetica dell'individuo, e nella realtà ebbra, che a sua volta trascura l'individuo e anzi cerca di annientano o liberarlo in forza del mistico sentimento dell'unità. Rispetto a tali immediati stati naturali ogni artista è «imitatore», sia l'artista apollineo del sogno che l'artista dionisiaco dell'ebbrezza o, anche, come nella tragedia greca, l'artista del sogno e dell'ebbrezza insieme. E allora possiamo immaginarlo, preda dell'ebbrezza dionisiaca e del mistico assorbimento della personalità, curvarsi solitario lontano dall'esaltazione dei cori, mentre per l'effetto apollineo del sogno gli si rivela il suo stato, e quindi la sua unità con l'intimo fondo dell'universo, nella simbolica fantasticheria del sogno.

(Ibidem, paragr. 2).

LA TRAGEDIA NON È SPETTACOLO MA MAGICA
METAMORFOSI: NASCE DAL CORO

Il fenomeno del coro tragico è il fenomeno drammatico primitivo, e consiste nel vederci soggetti a metamorfosi e nell'agire ormai come se fossimo realmente entrati in un altro corpo, in un altro personaggio. Questo fenomeno è all'origine dell'evoluzione del dramma. Ciò che qui accade è diverso dal rapsodo, che non si confonde con le proprie immagini ma che, come il pittore, le vede e contempla al di fuori di sé; qui l'individuo rinuncia a se stesso nel momento in cui si tuffa in una natura a sé esterna. E il fenomeno si produce in modo epidemico: un'intera folla cade preda di questa metamorfosi.
[...] Sotto l'azione del sortilegio l'entusiasta dionisiaco si vede trasformato in satiro, e da satiro vede il suo dio, e cioè, una volta mutato, percepisce fuori di sé una nuova visione che rappresenta il compimento apoffineo del suo proprio stato.
[...] Nei più antico periodo della tragedia, Dioniso, vero eroe della composizione e centro della visione, non è realmente presente, ma viene rappresentato come presente; ciò significa che l'origine della tragedia è solo coro, non «dramma». Più tardi si tenta di mostrare il dio come reale e di rappresentare, visibile a tutti, la forma visionaria e l'intera cornice che la trasfigura; allora, inizia il «dramma» nel senso specifico del termine. Ora, dunque, il coro ditirambico ha lo scopo di eccitare l'emozione dionisiaca degli ascoltatori fino al punto in cui, quando l'eroe tragico compare sulla scena, non vedranno l'uomo con la mostruosa maschera, ma una forma visionaria sorta dalla loro propria estasi.

(Ibidem, paragr. 8).