Paolo Caponi
Parigi vs. Zurigo: Joyce e la memoria
Parlare della "memoria in Joyce" può apparire un'impresa improba. Tuttavia, ritengo sia possibile isolare alcuni percorsi soprattutto alla luce dell'evoluzione della psicoanalisi.
La mia tesi è che in Joyce in generale e in Ulysses in particolare sia rintracciabile sia una concezione della memoria che definirei "tradizionale", e cioè diacronica, lineare, freudiana, sia una concezione che definerei circolare, e cioè sincronica, ipermnestica, telepatica, in ultima analisi ampiamente riconducibile alla teorizzazione di Jung e alla città di Zurigo. Queste due modalità si incontrano, appunto, proprio in Ulysses: fino a quel punto, nell'opera di Joyce, era prevalsa l'una, poi dilaga l'altra. Il primo punto di congiunzione è Parigi, dove si trovano, quasi negli stessi anni, Freud, Joyce e Jung; il secondo è Zurigo. Questo saggio verterà proprio sulla disamina della temperie culturale di questi luoghi negli anni cruciali dei soggiorni joyciani.
1. Parigi, culla degli studi sulla memoria
La Parigi di inizio Novecento era, come noto, un importante centro culturale e scientifico: "Dublin's antithesis", secondo Ellmann (JJ 115). [1] Joyce soggiornò in questa città in due riprese: la prima, da studente di medicina, tra il 1902 e il 1903, e la seconda parecchi anni dopo, a partire dal 1920, sollecitato da Ezra Pound affinché portasse a termine Ulysses. Tra i due momenti si inserisce, oltre al periodo triestino, anche una lunga permanenza a Zurigo (1915-1919) i cui "effetti" si sarebbero fatti sentire, forse, durante la seconda e definitiva residenza parigina.
Quando Joyce giunse a Parigi la prima volta, la città era, per l'appunto, la meta ideale di ogni aspirante medico. Chiunque, in quegli anni, avesse ambizioni e volesse studiare medicina, sognava di farlo a Parigi. In verità, Joyce aveva già cercato di studiare medicina a Dublino, ma senza grandi risultati. Il suo nome figura tra gli studenti immatricolatisi al Trinity College il 2 ottobre 1902 (JJ 769, n.20), e cioè qualche giorno prima di ricevere, in una turbolenta cerimonia, il diploma di Bachelor of Arts (JJ 109). È probabile che Joyce avesse scelto medicina senza molta convinzione,forse per compiacere suo padre che voleva che il figlio riuscisse là dove egli aveva fallito (ibid.).
Joyce seguì lezioni di biologia, chimica e farmacologia senza distinguersi e senza sentirsi del tutto portato per quel genere di studi (ibid.). Il trasferimento a Parigi appare, quindi, davvero sorprendente. Forse Joyce avvertiva il fascino di quella città e colse l'occasione di una presunta congiura del Trinity College contro di lui per lasciare Dublino e l'Irlanda (JJ 111). Così, in breve tempo, Joyce si ritrovò a essere un "Paysayenn" come Stephen in Ulysses, cioe uno studente di "P. C. N., you know: physiques, chimiques et naturelles" (U 51), ossia uno studente dell'anno propedeutico agli studi di medicina incluso nei curricula francesi fino a pochi anni fa.
La reputazione di Parigi nell'ambito degli studi medici era legata in gran parte, anche se non esclusivamente, ai tentativi di classificare un certo tipo di sofferenza psichica in un preciso quadro nosologico di riferimento. A partire dalla seconda metà dell'Ottocento, due paesi europei avevano cercato di affrontare sistematicamente il problema dell'isteria: la Germania e la Francia. La bibliografia medica relativa agli studi compiuti sull'argomento rimanda, in quegli anni, costantemente ad autori francesi o tedeschi, anche se molto diversi potevano essere i procedimenti terapeutici propugnati. La stessa terminologia scientifica destinata a diffondersi sarebbe stata, almeno per qualche tempo, prevalentemente francese, testimonianza di una grande dimestichezza francese con lo studio, l'analisi, e soprattutto l'inquadramento anamnesico del fenomeno. Quando, ancora nel 1892, Freud e Breuer si accingono a descrivere le varie fasi del "grande attaque hystérique" secondo Charcot, essi enumerano "1) quella epilettiforme, 2) quella dei movimenti ampi, 3) la fase delle attitudes passionnelles, 4) quella del délire terminal". [2] Se Jean-Martin Charcot (1825-1893), il grande neurologo francese, appare oggi quasi un antesignano dei primi studi sistematici sull'argomento, egli era in realtà la punta di un iceberg di una lunga, e talvolta anche monumentale, serie di studi. Prima di lui, alla clinica Salpêtrière di Parigi, il suo ruolo era stato ricoperto da Paul Briquet (1796-1881), autore del ben noto Traité clinique et thérapeutique de l'hystérie (1859). Così scriveva Freud nella sua relazione alla comunità medica viennese, dopo il suo soggiorno di studio a Parigi compiuto dall'ottobre 1885 al marzo 1886:
La Salpêtrière, dove mi recai subito, è un vasto insieme di edifici che per le sue casette a un piano disposte a quadrilatero, per i suoi cortili e i suoi giardini, ricorda molto l'Ospedale generale di Vienna: nel corso del tempo è stata adibita a vari usi diversi (come la nostra Gewehrtfabrik), per divenire infine [nel 1813] un ospizio per donne anziane ("Hospice pour la vieillesse (femmes)") che può ospitare più di cinquemila persone. [3]
Charcot aveva vinto nel 1848, al secondo tentativo, il concorso per ottenere l'internato presso gli Hôpitaux di Parigi entrando nell'équipe del patologo Rayer alla Salpêtrière, tra le cui mura si sarebbe svolta tutta la sua attività successiva. Nel 1870, in segno di riconoscimento, ebbe la possibilità di organizzare un servizio di nuova istituzione destinato a due classi di degenti: epilettiche (senza complicazioni psichiatriche) e isteriche. [4] Charcot si aggirava per le corsie di quel cronicario, nel quale aveva passato gran parte della sua vita, "catalogando e battezzando una serie di malattie del sistema nervoso con un'aria di Adamo della neurologia". [5] Il giovane Freud era stato molto colpito dalla personalità di Charcot (allora sessantenne) e dal suo metodo ipnotico applicato ai pazienti isterici (di ambo i sessi). Attraverso l'ipnosi (che Freud difenderà con veemenza dagli attacchi di molti suoi colleghi, convinti che fosse inutile o anche dannosa) era possibile giungere a un "ampliamento della coscienza" e far riaffiorare "ricordi, pensieri e impulsi" fino a quel momento esclusi dalla vita consapevole del paziente. [6] Dopo aver cercato di affrontare, sulla scia dello stesso Charcot, la sofferenza psichica con l'elettroterapia e i massaggi, Freud comincia a riflettere sulla possibilità di intendere l'isteria in termini di deficit della memoria. Sia pure prendendo le distanze da Pierre Janet e da parte della scuola francese, che riteneva "la 'scissione della personalità' [...] basata su una originaria debolezza mentale (insuffisance psychologique)" [7], Freud interpreta la sofferenza del malato come il risultato di un vuoto nella sua capacità di ordinare e valutare i ricordi.
L'atto costitutivo della psicanalisi è pertanto fondato sull'amnesia del paziente e sulla labilità della memoria: "Trovammo infatti [...] che i singoli sintomi isterici scomparivano [...] quando si era riusciti a ridestare con piena chiarezza il ricordo dell'evento determinante, risvegliando insieme anche l'affetto che l'aveva accompagnato". [8] Il concetto di memoria qui (e in seguito) esposto da Freud è quindi di tipo unicamente retrospettivo e diacronico, e il compito del terapeuta è quello di ripristinarne le facoltà, ora attraverso un procedimento (ipnotico) che scavalca le resistenze del paziente e consente (in teoria) di arrivare a profonditè impensabili della sua psiche, e in seguito, con il varo di una nuova topica e di un nuovo approccio psicanalitico, interpretando queste stesse resistenze e mettendo a disposizione dell'Io strati sempre più ampi di inconscio. Può essere interessante notare che i "sintomi isterici tipici" comprendono, secondo gli autori, anche "un restringimento del campo visivo" [9] e quindi una diminuzione più o meno temporanea delle capacità percettive secondo modalità che, sia detto per inciso, Bloom si troverà a sperimentare in più di un'occasione da "Lotus-Eaters" in poi.
Che di questo concetto di memoria, fallace e porosa, vi siano tracce in Ulysses è stato già ampiamente documentato: "Ulysses si snoda al ritmo del ricordo perduto e incardina la propria materia narrativa nelle voragini del passato che si sottrae". [10] La memoria del testo, storica e individuale, si iscrive nel paesaggio di Bloom e del popolo irlandese lasciandone i segni ed evidenziandone pateticamente le amnesie. Il testo si costruisce cioè anche grazie ai propri vuoti, alla propria friabilità, simile in questo all'effimera materia che raccoglie il fuggevole insight di Bloom, "I. AM. A." (U 498), "inciso" sulla sabbia di Sandymount Strand. Se, come diceva Jung, il testo di Ulysses poteva essere letto anche in senso contrario, e cioè dalla fine all'inizio, è proprio dall'incompletezza della frase di Bloom che si diparte un ulteriore senso, ancora una volta, si direbbe, imperniato sulla moglie Molly. Dalla stessa giornata di Bloom iniziata, secondo lo Schema Linati, alle otto del mattino del 16 giugno 1904 e conclusasi dopo le due del mattino successivo, manca, del resto, il resoconto di un'infinita quantità di momenti. Nonostante l'audace restringimento di prospettiva a un'unica giornata della vita di un uomo, noi finiamo per "assistere" a non più di nove ore su diciotto. [11]
Accanto a questa predominante concezione "retroattiva" della memoria, fondante, come si è detto, dello stesso procedimento psicanalitico, sembra però profilarsi in sede scientifica anche un altro senso di percorrenza, o una diversa funzione delle capacità "mnemoniche" attribuibili all'individuo. Soltanto pochi mesi prima dell'inizio del trattamento "catartico" con Bertha Pappenheim (poi passata alla storia della psicanalisi con lo pseudonimo di Anna O.), l'amico e collega di Breuer, Meriz Benedikt, aveva esposto ai membri della Società Viennese di Medicina le sue ricerche su "Catalessia e mesmerismo", che comprendevano un resoconto delle capacità ipermnestiche di alcuni pazienti manifestatesi durante alcune sedute ipnotiche. [12] Come scrive Mikkel Borch-Jacobsen,
Some patients could recite whole passages from books. Others spoke languages forgotten since childhood, vividly recalling past events and even past lives. Still others remembered (as Bertha Pappenheim also did) everything that had taken place during previous somnambulistic states, events of which thay retained no memory in their normal waking state. [13]
Anna O. (che fu curata dal solo Breuer dal dicembre 1880 al giugno 1882) apparteneva appunto a questa categoria, dal momento che manifestava, oltre al ben noto restringimento del campo visivo, [14] l'abitudine (della quale non sembrava rendersi conto) di parlare solo inglese, e "[n]elle sue ore migliori, più libere, [...] francese o italiano". [15] Ancora più sorprendente è il fatto che la paziente fosse in grado di rivivere, nella sua memoria, giorno per giorno l'inverno precedente:
Bastava presentarle un arancio (suo nutrimento principale durante il primo periodo della sua malattia), per buttarla indietro dall'anno 1882 nell'anno 1881. [...] Avrei potuto soltanto sospettarlo, se nell'ipnosi serale non si fosse liberata giornalmente a parole di quel che nel giorno corrispondente del 1881 l'aveva emozionata e se un diario segreto della madre, dell'anno 1881, non avesse fornito la prova irrefutabile della veridicità dei fatti in questione. [16]
Nonostante Breuer fosse - a quanto pare - particolarmente interessato a questo genere di fenomeni, gli Studi sull'Isteria ne recano traccia unicamente nel caso clinico di Anna O., e senza alcuna reale discussione dell'evento o un'analisi delle eventuali connessioni con altri casi. Sembra calare, in altre parole, una sorta di silenzio, o addirittura di censura, su manifestazioni di tipo ipermnestico e/o telepatico che esulino dalla tipologia di quello che si sta per costituire come casus classicus. Se, da un lato, gli Studi sono il luogo per la discussione di un complesso caso "eccentrico" come quello di Anna O., può essere interessante notare che soltanto qualche anno prima Freud aveva affermato con decisione che
per esempio la cosiddetta "lettura del pensiero" (Gedanken erraten) si spiega attraverso i piccoli, involontari movimenti muscolari che il medium compie quando si fanno esperimenti con lui, poniamo quando ci si fa guidare da lui per ritrovare un oggetto nascosto. Tutto il fenomeno merita piuttosto il nome di "tradimento del pensiero" (Gedanken verraten). [17]
Il ruolo e l'importanza di Breuer nel momento fondante della scienza psicoanalitica, a lungo apparso marginale, è da qualche tempo al centro di una revisione teorica che sembra far luce sulle rispettive responsabilità e rapporti di forze all'interno della diade originaria. [18] La travagliata gestazione degli Studi sull'isteria, in cui i due autori si trovarono a firmare congiuntamente un testo quando ormai erano sorti insanabili dissidi pratici e teorici, sembra fornire una conferma di questa sopraggiunta divergenza di orientamenti. L'approccio "globale e non dogmatico" [19] di Breuer lasciava spazio anche alla valutazione di fenomeni quali l'ipermnesia, la criptomnesia e la telepatia, rispetto ai quali Freud mantenne sempre un discreto distacco scientifico pur mostrando un certo interesse in privato. [20] La stessa scelta dello pseudonimo "Anna O." per Bertha Pappenheim sembra voler eludere un eccessivo dogmatismo scientifico e interpretativo, celando l'identità della donna dietro un nome composto da un palindromo (che quindi può essere letto anche da destra a sinistra) seguito da un cerchio (che esclude a priori qualsiasi direzione). La conclusione del trattamento con la giovane e brillante paziente, in cui Breuer (allora sessantenne) sembrò - a quanto è dato sapere - lasciarsi travolgere dalle dinamiche di transfert, segnarono il suo allontanamento da Freud e dalla sua utilizzazione della "catarsi" (come veniva definita allora la psicanalisi), e quindi anche da un approccio culturale di una certa matrice. Paradossalmente, la sua eredità sarebbe stata raccolta, più che da Freud, da Jung, che dedicò i suoi primi lavori proprio allo studio dei fenomeni paranormali e criptomnestici. Jung avrebbe tratto, infatti, ben diversa lezione dalla frequentazione, nel 1902, dei corsi di Pierre Janet presso la clinica Salpêtrière di Parigi, cominciando a concepire la memoria e il tempo in termini assai più rizomatici e meno lineari di Freud.
I corsi di Joyce a Parigi sembrano essere cominciati proprio nel 1902 (il 7 dicembre), e interrotti poco dopo (JJ 117). Che cosa Joyce abbia potuto assorbire di una simile temperie culturale in rapido mutamento è cosa difficile a dirsi, anche in virtù della cortina di silenzio gravante, da sempre, sugli anni parigini di Joyce (sul primo soggiorno e anche sul secondo, più lungo). Ciò che conta è che proprio in questi anni si assiste alla fissazione, in sede scientifica e culturale, di una certa modalità della memoria, destinata a imporsi non solo in ambito psicanalitico ma anche nel nostro tradizionale immaginario occidentale e novecentesco. La "nostra" memoria, sempre fallace e spesso ostacolata da veri e propri sabotaggi della rimozione, ci consente di ricordare eventi passati nei quali siamo, direttamente o indirettamente, implicati. Ma di quell' "altra" memoria, circolare e sincronica, Joyce e Ulysses avrebbero avuto ben diversa esperienza.
2. Zurigo, culla degli studi sulla memoria
Joyce arrivò a Zurigo nella seconda metà del 1915, con undici anni di ritardo rispetto a ciò che era nelle intenzioni sue e di Nora al momento della loro fuga da Dublino (JJ 401). All'inizio del Novecento, Zurigo era il crocevia dei vari movimenti rivoluzionari europei: "[c]ome il mercato di Atene fu testimone dei dialoghi di Socrate, Parmenide, Trasimaco e Alcibiade, così i caffè di Zurigo furono teatro dei dibattiti di rivoluzionari russi di ogni genere, marxisti, nichilisti e sionisti". [21] A Zurigo affluiva una grande quantità di studenti russi, soprattutto donne, impossibilitate a ricevere una buona educazione al loro paese, e si teorizzavano apertamente temi (con i quali Joyce aveva già una certa familiarità) quali l'abolizione degli assoluti sessuali, la nuova famiglia, il ruolo della nuova donna e l'amore libero. [22] Tra gli illustri abitanti, a medio o lungo termine, della Zurigo a cavallo dei due secoli si annoverano Rosa Luxemburg, Lenin, Benito Mussolini e Albert Einstein, che proprio a Zurigo trovò terreno fecondo per le sue intuizioni. [23] Tra il 1902 e il 1903, al tempo della stesura della prima teoria della relatività, Einstein cenava spesso con Jung e Bleuler cercando di spiegare loro i rudimenti dei suoi studi e impressionandoli profondamente. [24] Come è noto, Zurigo fu anche l'epicentro di movimenti artistici che si diffusero in tutto il resto d'Europa: "[f]u in un caffè di Zurigo, ad esempio, che nel 1916 Tristan Tzara inventò la parola 'Dada', mentre lui e il suo circolo cercavano di scandalizzare la pubblica opinione e scuoterla dal suo letargo". [25] Per quanto riguarda la psicanalisi, Zurigo si distinse per un'apertura quantomeno insolita alla nuova scienza.
Come scrisse Freud, se "altrove non ci fu a tutta prima che un rifiuto quasi sempre appassionatamente accentuato" per essa, a Zurigo si formò ben presto "il nucleo di una piccola schiera che si batteva per il riconoscimento dell'analisi [...]. La maggior parte di coloro che oggi mi seguono e collaborano con me sono venuti passando per Zurigo, persino quelli per cui geograficamente era più vicina Vienna [...]". [26] A Zurigo si trovava anche la famosa clinica psichiatrica Burghölzli, dove Jung fu assistente, come si è visto, dal 1900 al 1909 e presso la quale Lucia Joyce sarebbe stata ricoverata per un breve periodo tra l'agosto e il settembre 1934 (JJ 687-688).
La Zurigo di inizio secolo intrecciava dunque con grande disinvoltura questioni di politica marxista, di psicanalisi, di filosofia e di fisica, con una particolare inclinazione verso l'iconoclastia e verso la diffusione delle "idee originali delle più diverse tendenze". [27] Ma prima ancora di Einstein, che dei concetti di spazio e di tempo avrebbe fornito un'audace interpretazione, la cultura zurighese conobbe bene la figura di Ernst Mach e le sue teorie, al punto di esserne impregnata fino alle fondamenta. Quello di Mach è sicuramente uno dei contributi più brillanti, controversi e influenti alla filosofia e alla fisica di inizio secolo: come scrisse Einstein in occasione della sua morte, nel 1916, "Mach sarebbe indiscutibilmente arrivato alla teoria della relatività se al tempo in cui la sua mente aveva ancora la freschezza della giovinezza, il problema della velocità della luce avesse già attirato l'attenzione dei fisici". [28] Nato nel 1838 in un paesino della Moravia, Mach crebbe in campagna a contatto diretto con il lavoro della terra e con i vari fenomeni naturali. Ritenuto (al pari di Einstein) un poco duro di comprendonio dai suoi primi educatori, il giovane Ernst venne invitato a dedicarsi ai lavori manuali, tanto che si ritrovò poco più che adolescente a essere un abile ebanista. [29] Pur mancando della scaltrezza e furbizia di tanti suoi compagni di scuola, Mach riuscì ad arrivare all'università ove si interessò ai problemi della fisica con animo indagatore e iconoclasta, sfidando negli anni successivi "qualsiasi assioma metodologico della scienza che sapesse di privilegio o di condizione superiore per qualunque dato corpo o evento della natura". [30] A differenza di tanti suoi colleghi fisici meccanicisti, Mach era molto interessato al suo inconscio, alle sue fantasie e ai suoi sogni, al punto da ammettere, nella maturità, che i suoi contributi scientifici avevano tutti origine da una particolare esperienza infantile. [31] Simile in questo a Jung, Mach credeva che "le idee, una volta formate, anche se non sono più presenti a livello conscio, continuano nondimeno a esistere". [32] Fondamentale fu per lui, all'età di cinque anni, una particolare visione: "un giorno vidi un mulino a vento, vidi come gli ingranaggi sull'asse si innestavano con quelli che azionavano le macine, come un dente premeva sull'altro [...]". [33] Tale immagine, con il suo centro, le pale, gli assi e i rapporti di forza torna spesso nel pensiero di Mach non solo come evento genetico, ma anche come "prototipo di due classi di fenomeni funzionalmente dipendenti" [34] in cui nessuno prevale sull'altro ma dove ognuno trova il suo posto all'interno di un ordine che non può dirsi propriamente gerarachico, ed è al tempo stesso sincronico e diacronico. Secondo Mach, la storia del pensiero era stata, almeno fino agli inizi del Novecento, una storia di mitologie, all'interno della quale il mito meccanicistico aveva rimpiazzato quello delle sostanze e delle forme che a sua volta aveva soppiantato quello animistico e demonologico. Allo stato attuale, anche leggi e concetti della meccanica cominciano a mostrare la loro inadeguatezza nell'essere estesi ad altri domini. [35]
L'abolizione di una "quarta parete" del pensiero fece di Mach una delle figure più controverse della comunità scientifica tra i due secoli, rendendolo protagonista di un'aspra polemica con i fisici viennesi (tra cui Max Planck, il fondatore della teoria dei quanti) non priva di risvolti drammatici. [36] Mach si opponeva in particolare alla teoria atomistica nascente e ricevette per contro l'accusa di essere un "falso profeta": come affermò tempo dopo il fisico Erwin Schrodinger, l'idea di Mach "arriva tanto vicina alle dottrine ortodosse degli Upanishad quanto è possibile senza formularle expressis verbis". [37] Concetti come quello della "dilatazione dell'io" [38] che permette di comprendere "la massa coerente di sensazioni" [39] del mondo plasmano profondamente il suo pensiero di fisico e lo caratterizzano in termini assai poco meccanicistici, in cui il mondo veniva immaginato senza separazioni, senza l'effetto disgregativo delle differenziazioni spaziali e temporali, e senza quegli atomi duri e distruttori prediletti da molti suoi colleghi: "un mondo in cui l'io si fondeva nella fluidità materna". [40] Negli anni dell'infanzia, sembra che Mach avesse incontrato notevoli difficoltà nell'individuazione di un chiaro rapporto di distanza tra gli oggetti, al punto che la categoria spaziale sembrava risvegliargli "alcune resistenze primordiali". [41] Forse afflitta da traumi, la percezione della distanza per Mach era così ostacolata da fargli temere che la sua capacità di visione stereoscopica fosse difettosa o mancante: "[q]uando una volta dovetti percorrere un tratto in una notte buia in una località che non conoscevo, temevo sempre di urtare in un grande oggetto nero. Questa impressione era causata in me da una collina lontana vari chilometri". [42] Mach fu però capace di trasformare i suoi limiti personali nelle pietre angolari di un nuovo sistema. Nel 1904, egli poteva affermare che "il numero dei relativisti decisi che negano l'ipotesi a malapena intelleggibile dello spazio e del tempo assoluti sta crescendo rapidamente e fra breve non vi sarà nemmeno un eminente fautore dell'opinione contraria". [43] In anticipo di qualche anno rispetto alla paventata "morte dell'autore" in letteratura, Mach scriveva che il grande contributo della fisica sarebbe stato di "far scomparire l'uomo nel Tutto" [44]: coerentemente con le sue idee di un capovolgimento dell'ordine spazio-temporale, le travi delle case sarebbero ritornate alberi, le galline uova e "il poema del poeta rifluirà nel suo calamaio". [45]
L'adesione più o meno incondizionata al pensiero di Mach, tipica di Einstein e di altri, va oltre quello che può essere il mero rapporto di influenza scientifica e di mutuazione teorica e comporta la condivisione di una concezione del mondo che pone sullo stesso piano sincronia e diacronia o, nelle parole di Einstein, che riporta alla luce "l'assioma del carattere assoluto del tempo, cioè della simultaneità, [...] rimasto ancorato nell'inconscio senza che noi ce ne accorgessimo". [46] È in primo luogo un lavoro interiore che culmina nell'accettazione di quello che è il proprio passato individuale e collettivo, ove la psiche può diventare "una sorta di museo della sua storia filogenetica" [47] e il mondo esperito il fluido magma di un'incessante esperienza collettiva: "Never know what you find. Bottle with story of a treasure in it thrown from a wreck. Parcels post. Children always wants to throw things in the sea" (U 497). Più ancora di Dublino, ove il passato si iscrive incessantemente nei luoghi del girovagare di Stephen e di Bloom (compresa l'effimera materia di Sandymount Strand), e di Trieste, ove Joyce inizia la stesura di Ulysses dopo l'epocale incontro con Italo Svevo, Zurigo è in grado di agire da catalizzatore per la memoria di Joyce. A Zurigo avverrà, tra il resto, anche il definitivo instaurarsi della malattia di sua figlia Lucia. Nel 1922, il lavoro interiore di Joyce era appena cominciato.
[1] Indice delle abbreviazioni:
- U: James Joyce, Ulysses, a cura di Declan Kiberd, Londra, Penguin, 1992 (testo basato sull'edizione Bodley Head del 1960)
- JJ: Richard Ellmann, James Joyce, New York, Oxford University Press, 1959
Le opere di Sigmund Freud e Carl Gustav Jung sono tutte edite da Boringhieri, salvo nei casi indicati. [indietro]
[2] Sigmund Freud - Joseph Breuer, "Sulla teoria dell'attacco isterico", in: Opere, Vol. 1, 143 (corsivo nel testo). L'articolo fu scritto (probabilmente) da entrambi gli autori, nel 1892, e pubblicato per la prima volta integralmente soltanto nel 1940. [indietro]
[3] Sigmund Freud, "Relazione sui miei viaggi di studio a Parigi e a Berlino" in: Opere, Vol. 1, 6. La relazione fu scritta nel 1886 per la Facoltà di Medicina dell'Università di Vienna e pubblicata per la prima volta (in traduzione inglese) nel 1956. [indietro]
[4] Jean-Martin Charcot, Lezioni alla Salpêtrière, a cura di Alfredo Civita, Milano, Guerini, 1989 (9-29). [indietro]
[5] Ernst Jones, Vita e opere di Freud, Milano, Garzanti, 1977, Vol. 1, 258. [indietro]
[6] Sigmund Freud, "Il metodo psicanalitico freudiano" (1903) in: Opere, Vol. 4, 407. [indietro]
[7] Sigmund Freud - Joseph Breuer, Studi sull'isteria (1895), in: Opere, Vol. 1, 374 (corsivo nel testo). [indietro]
[8] Ibid., 178 (corsivo nel testo). [indietro]
[10] Caroline Patey, "Il testo sotto il testo. Palinsesto e generatività in James Joyce", in: Parole fuorilegge. L'idiotismo linguistico tra filosofia e letteratura, a cura di Carlo Montaleone, Milano, Cortina, 2002, 33. [indietro]
[11] Cfr. Clive Hart, "Gaps and Cracks in Ulysses", in: James Joyce Quarterly, 30:3, Spring 1993, 434 e segg. [indietro]
[12] Cfr. Ruth Parkin-Gounelas, Literature and Psychoanalysis: Intertextual Readings, Basingstoke and New York, Palgrave, 2001, 137; 234 (nota 5). [indietro]
[13] Mikkel Borch-Jacobsen, Remembering Anna O., London, Routledge, 1996, 70. [indietro]
[14] Sigmund Freud - Joseph Breuer, Studi sull'isteria, cit., 193. [indietro]
[17] Sigmund Freud, "Trattamento psichico" (1890) in: Opere, Vol. 1, 98 (corsivo nel testo). [indietro]
[18] Si vedano a questo proposito gli articoli di Albrecht Hirschmüller del 1978 e del 1989 su due misconosciuti casi clinici di Freud, ristampati in: Sigmund Freud, Casi clinici 9, Torino, Boringhieri, 1990 (introduzione di Michele Ranchetti). Gli articoli riguardano i casi di due pazienti curate, senza successo, da Breuer e dal giovane Freud: "Mathilde (1889)" e "Nina R. (1893)", secondo quanto ricostruito da Hirschmüller in base agli archivi delle case di cura esistenti. [indietro]
[20] Si veda per esempio: Smiley Blanton, La mia analisi con Freud, Milano, Feltrinelli, 1978 (tit. origin. Diary of My Analysis with Sigmund Freud, New York, Hawthorn Books, 1971) in particolare 83 ("Gli chiesi poi [a Freud] se non sarebbe valsa la pena di studiare i fenomeni parapsicologici per determinare se si trattasse di ciarlataneria, di autosuggestione, o di qualche potereparanormale. 'Sì, credo di sì,' disse. 'Ma porterebbe via tanto tempo andare a controllare l'autenticità dei fatti, che si finirebbe per perderci un'intera vita - e non ne varrebbe la pena... Ora, la telepatia è una possibilità che varrebbe la pena di studiare.' "). [indietro]
[21] Lewis S. Feuer, Einstein e la sua generazione. Nascita e sviluppo di teorie scientifiche, Bologna, Il Mulino, 1990, 50 (tit. origin: Einstein and the Generations of Science, New Brunswick, Transaction, Inc., 1982). [indietro]
[22] Ibid., 51-52. Per una ricognizione sui rapporti tra il mito della "free woman", l'amore libero e la produzione joyciana degli anni 1915-20 si veda di chi scrive: Adultery in the High Canon. Forms of Infidelity in Joyce, Beckett and Pinter, Milano, Unicopli, 2002, in particolare 25-56. [indietro]
[23] Lewis S. Feuer, Einstein e la sua generazione. Nascita e sviluppo di teorie scientifiche, cit., 50-61. [indietro]
[24] Lettera di Jung a Carl Seelig (25 febbraio 1953), in: Carl Gustav Jung, Esperienza e mistero. 100 lettere, a cura di Aniela Jaffé, Torino, Boringhieri, 1982, 106 (tit. origin.: 100 Briefe: eine Auswahl, Walter-Verlag - Olten, 1975). [indietro]
[25] Yves Duplessis, Storia del surrealismo e antologia, Milano, 1972, pp. 20-21, 25-26; (tit. orig. Histoire du Surréalisme suivi de documents surréalistes, Paris, 1964); citato in: Feuer, 61. [indietro]
[26] Sigmund Freud, "Per la storia del movimento psicanalitico", in: Opere, Vol. 7, 400-401. [indietro]
[27] Lewis S. Feuer, Einstein e la sua generazione. Nascita e sviluppo di teorie scientifiche, cit., 60. [indietro]
[36] Come il suicidio (1906) di Ludwig Boltzmann, professore di fisica teorica a Vienna. Ibid., 88. [indietro]
[46] Albert Einstein (et. al), Albert Einstein scienziato e filosofo. Autobiografia di Einstein e saggi di vari autori, a cura di Paul Arthur Schilpp, Torino, Einaudi, 1958, 28 (tit. origin.: Albert Einstein: Philosopher-Scientist, The Library of Living Philosphers, Evanston, Illinois, 1949). [indietro]
[47] Carl Gustav Jung, "Coscienza, inconscio e individuazione" (1939), in: Opere, Vol. 9, 278. [indietro]